Colpirne uno per educarne cento

di Bruno Carchedi

La Iugoslavia è diventata, da circa otto anni a questa parte, cioè dall'inizio della sua frammentazione, un gigantesco laboratorio per la sperimentazione e la messa a punto di una nuova generazione di strategie di dominio dell'Occidente. La composizione multietnica della Iugoslavia, la sua fortissima crisi economica, la nefasta illusione del governo centrale - nella fase successiva alla scomparsa di Tito - che lo sviluppo delle repubbliche più ricche avrebbe funzionato da traino per le repubbliche più povere, l'intervento del Fmi che ha aggravato i dislivelli socio-economici territoriali preesistenti, la scelta dei vari gruppi dirigenti locali di riciclarsi in senso nazionalista per conservare il potere: questi alcuni dei fattori che hanno fatto di questo disgraziato paese il luogo ideale per questa sperimentazione e messa a punto.


Il primo elemento caratterizzante le nuove strategie del dominio imperialista è la disgregazione dell'unità nazionale dei paesi identificati come "nemici", cioè dei paesi non disposti a diventare vassalli dell'Occidente. Essa non si sostituisce ai precedenti e ben collaudati mezzi di pressione economica e intervento militare che sono stati usati innumerevoli volte per imporre il volere del centro imperiale ai paesi delle periferie, come ad esempio l'invasione militare diretta o l'embargo. Essa si affianca ai mezzi preesistenti, arricchendo l'arco delle possibili opzioni di intervento, ed è destinata ad essere applicata tutte le volte che non è possibile schiacciare in un sol colpo il paese in questione - come invece fu nel caso di Grenada e di Panama, solo per ricordare i casi più recenti - e quando se ne individuano - al tempo stesso - le condizioni favorevoli sul piano economico, sociale e politico, nonché delle contraddizioni etnico-territoriali, come nel caso appunto della Iugoslavia.

L'intervento va programmato con cura, e la sua preparazione può richiedere anni. Occorre aggravare la crisi economica del paese in questione, isolandolo sul piano commerciale e anche, se necessario, sottoponendolo a embargo; occorre successivamente far intervenire il Fmi con il risultato, anche, di aggravare le contraddizioni interne, tramite l'imposizione dei famigerati meccanismi di aggiustamento strutturale; occorre mettersi in rapporto con i vari gruppi di potere locali che, in contrapposizione con il governo centrale, operano per far rinascere dalle ceneri antiche e ormai dimenticate contrapposizioni etniche, finanziandoli, armandoli e, alla fine, dando loro riconoscimento internazionale; occorre avviare una campagna propagandistica tesa a sottolineare i caratteri "antidemocratici", cioè antioc-cidentali, del regime del paese preso di mira.

Infine, occorre far nascere l'occasione per poter giustificare l'intervento diretto. Questa può essere un "incidente" oppure una strage, inventata o commissionata. Il copione è ormai ultranoto, per essere stato applicato già parecchie volte. Una serie iniziale di attentati e di atti di violenza provoca la risposta repressiva del governo centrale. Si scatena una spirale di ritorsioni reciproche che colpiscono anche i civili. Scatta a questo punto, nei tempi e nei modi più opportuni, l'accusa di violazione dei diritti umani, e quindi l'intervento a scopi "umanitari". Si tratta di un meccanismo pressoché infallibile. Se non riesce al primo tentativo, va reiterato: il risultato finale è assicurato. Il paese in questione si avvita in una sequenza di stragi e controstragi sempre più efferate, e i "salvatori" della Nato possono scegliere con calma le parti da colpire e le parti da premiare.


Naturalmente, occorre avere il consenso dell'opinione pubblica dei paesi aggressori a questo tipo di operazioni. Per questo è indispensabile demonizzare il nemico tramite una campagna di stampa e televisiva martellante. Le agenzie di marketing delle operazioni belliche della Nato vengono messe al lavoro. Per riprendere il caso della Iugoslavia, Milosevic viene definito come un Hitler, e siccome i serbi nella loro stragrande maggioranza sembrano appoggiarlo, tutta la popolazione serba è colpevole. Doverosi sono quindi i bombardamenti, anche quando per "errore" colpiscono i civili. "Castigare Milosevic" diventa "castigare i serbi", che potranno purificarsi della loro malattia ideologica solo dopo anni di libertà vigilata, sotto il controllo della democrazia Nato. Che la Serbia possa costituire una minaccia paragonabile a quella dell'imperialismo nazista per l'Europa, gli Usa o i paesi confinanti, è semplicemente ridicolo. Ma questo sembra non importare.

Infine, se il nemico è il male assoluto, espressione del nuovo "impero del male" di reaganiana memoria, è indispensabile annientarne le strutture militari, affinché non possano essere più usate per perpetrare altri massacri. E questo va fatto nel più breve tempo possibile, usando la massima potenza militare. E poiché anche un ristorante, un acquedotto o un ospedale possono avere possibili usi militari, potendo essere usati anche dai soldati, vanno annientate anche tutte le strutture civili. E poiché si tratta di far mancare al regime l'adesione della popolazione, fiaccandone lo spirito di resistenza, bisognerà, dopo la prima fase iniziale, cominciare anche a colpire i civili. Più se ne ammazzano, meglio è. Così si accelera il collasso del regime e si abbrevia la guerra, anche nell'interesse dei civili in questione. Tesi non nuova, peraltro, portata a suo tempo a giustificazione dell'uso delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki.


Questa, in sintesi, la sequenza dei passi successivi di una "procedura" di aggressione militare ormai collaudata sul campo, e applicabile quindi universalmente. Esagerazioni? Fantapolitica? Se guardiamo ai possibili competitori - attuali e prevedibilmente futuri - degli Usa sul piano mondiale, constatiamo che si tratta di paesi a forte composizione multietnica. La Russia e la Cina, prime fra tutte. Ma, nel prossimo secolo, anche l'India e il Brasile. Se quindi, ad esempio, la Russia non si sbarazzerà al più presto possibile di governi che si pongono il compito di salvaguardare almeno in parte gli interessi nazionali del paese, se non torneranno al più presto al potere i vari liberisti d'assalto filo-Usa alla Gaidar e alla Ciubais, che soli possono garantire il completamento della transizione della Russia alla colonizzazione economica da parte occidentale, se non si troverà il modo di mettere fuori gioco in qualche modo la forza elettorale e il consenso di massa dei comunisti russi, allora si potrebbe cominciare a pensare di applicare alla Russia, per gradi e con la dovuta preparazione, la stessa ricetta applicata con successo alla Iugoslavia.


Il secondo elemento caratterizzante le nuove strategie di dominio imperiale, corollario del primo, è costituito dall'istituzione, dopo la spartizione del territorio nazionale in una serie di ministati etnici e/o confessionali, di "protettorati" laddove è ritenuto più conveniente dai nuovi padroni. Il protettorato è qualcosa di relativamente nuovo nella storia più recente; è un ritorno - in forme aggiornate - al colonialismo tradizionale, vigente nel secolo scorso e fino al secondo dopoguerra. Non si tratta della semplice installazione di basi militari Nato in un paese terzo, come in Macedonia ad esempio, né della semplice riduzione di un paese al ruolo di stato fantoccio, come nel caso della Slovenia e della Croazia. Si tratta della riduzione del paese in questione ad una vera e propria colonia, anche dal punto di vista formale. Uno stato sottoposto a protettorato è un non-stato: non ha politica estera, non ha politica interna, non decide sulle scelte fondamentali attinenti l'amministrazione della cosa pubblica. Tutto questo è deciso da un governatore occidentale e dai suoi consulenti.

La Bosnia è una sorta di protettorato; il Kosovo (solo il Kosovo?) dovrà diventare, nelle intenzione della Nato, un protettorato. L'instaurazione di protettorati, a seconda delle convenienze della Nato, è il necessario completamento dell'operazione di ridisegno dei confini su base etnica per mano militare. Quale paese nei Balcani sarà il prossimo obiettivo? La Macedonia, con la sua forte minoranza albanese e le tensioni etniche che la attraversano, è certamente un paese a rischio. Se in Macedonia nascesse un'opposizione significativa all'attuale presenza militare della Nato, si potrebbe avviare con poco sforzo, data la piccolezza e la debolezza di quel paese, un movimento di secessione fra parte serba e parte albanese. I ragazzi dell'Uck sono sempre pronti alla bisogna. Oppure si potrà giocare più in grande. Con la Russia, per l'appunto, cominciando ad esempio a porre la questione dei diritti umani in Cecenia. O con la Cina, magari. Il caso del Tibet sembra fatto apposta per essere utilizzato come caso di diritto all'ingerenza umanitaria.


In definitiva, la tragedia iugoslava non va letta solamente alla luce degli interessi economici, politici e militari immediati degli Usa e dell'Occidente. Certamente c'è, dietro a tutto questo, l'interesse del complesso militare industriale sopra tutto statunitense (i profitti delle lobby industriali del settore e la sperimentazione sul campo di nuovi sistemi d'arma), l'obiettivo di allargare la presenza della Nato, installando nuove basi militari in nuovi territori, il trascinamento dell'Europa in un'impresa che alla fine non potrà che danneggiarne gli interessi capitalistici, l'accerchiamento progressivo della Russia, ecc. Ma quello che va tenuto in conto, sopra tutto, è l'ampliamento dei mezzi di intervento dell'imperialismo a scala globale, come detto prima.

Il precedente quadro giuridico e istituzionale a livello mondiale scaturito dalla sconfitta del nazismo, sancito nella carta dell'Onu e in parecchie costituzioni nazionali, e basato sul rispetto dei confini di ogni stato, è di ostacolo all'utilizzo di questi nuovi mezzi di intervento. Occorre allora - ed è il processo che abbiamo sotto gli occhi proprio oggi - un nuovo diritto internazionale, basato sul principio dell'"intervento umanitario", che prevalga su tutti gli altri diritti; occorre anche un nuovo soggetto di tale diritto, non l'Onu ma la Nato, allargata a tutti i paesi "amici" posti al suo interno ovviamente in posizione subalterna e controllata, braccio militare della civiltà delle democrazie occidentali da affiancarsi agli organismi economici e finanziari già operanti con successo (Banca mondiale, Fmi, Organizzazione mondiale del commercio); occorre infine fare introiettare, alle popolazioni occidentali innanzi tutto e in modo irreversibile, un nuovo senso comune, basato da un lato sull'accettazione delle virtù del liberismo e dall'altro sulla giustezza della guerra giusta.

In questo quadro sta la necessità di eliminare qualunque ostacolo, grande o piccolo che sia, che si frapponga in qualche modo al movimento di espansione mondiale dell'imperialismo, la vera globalizzazione in atto. Il "nemico" non va solo battuto, ma sopra tutto va annientato, umiliato. La sconfitta del nemico deve avere valore propedeutico per tutte le nazioni del pianeta. "Colpirne uno per educarne cento"; forse non per caso il terrorismo della Nato sembra avere fatto proprio questo slogan di un terrorismo di tempi passati.