storie di.....quasi ordinaria follia

 

"Come è possibile dimenticarti
Come è possibile non pensare a te
Tu riempi le mie notti
La notte sento il tuo occhi nel mio cuore
Il vento mi porta la tua voce
Il sole mi porta il tuo profumo di deserto
Aisha ascoltami
Aisha vieni qua
Aisha guardami
Aisha sei il mio mondo"

Follia e Amore ?
La Fontaine:
"Follia e Amore stavano giocando, quando tra di loro nacque una lite; Follia diede un colpo in testa ad Amore, e lo accecò.
Venere, impazzita dal dolore, convocò tutti gli Dei e chiese loro giustizia per suo figlio: Amore non avrebbe mai più potuto essere autosufficiente, che vita avrebbe mai avuto?
Follia doveva essere punito!
Dopo molte riflessioni, gli Dei emisero il loro verdetto:
Amore non poteva essere lasciato senza una guida e Follia, reo dell'handicap provocato, era da quel momento condannato a non lasciarlo mai più da solo.
Amore e Follia divennero perciò inseparabili, e, da allora, Amore non può più avvicinarsi a qualcuno senza che alle sue spalle si intraveda l'ombra di Follia!"
 

 

Laudata sii Sorella Follia

  Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare
scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non
oriens, non occidens satiaverit; soli omnium opes atque inopiam pari adfectu
concupiscunt. Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi
solitudinem faciunt, pacem appellant.
Tacito."Agricola" (30.4).
Predatori del mondo, ora che devastando tutto hanno esaurito le terre,
frugano il mare: avidi, se il nemico è ricco; bramosi di dominio, se è povero.
Non l’Oriente, non l’Occidente è bastato a saziarli; ricchezza e povertà in
loro soltanto destano la medesima sfrenata brama. Rubare, trucidare,
rapinare con falso nome chiamano impero, e dove fanno il deserto, la
chiamano pace.


La voce del medico mi arrivava filtrata dal pulviscolo dorato che navigava lento nel fascio di luce della grande finestra alla mia sinistra. Il dottor Eumenio Zettini aveva una voce monocorde e ronzante che si alzava e si abbassava non per dare forma alle parole o per sottolineare un concetto, piuttosto sembrava a tratti vicina e a tratti lontana. Vibrava nell’aria, quasi autonoma dalla bocca che la emetteva.
-         Guido mi ascolta?-
A fatica riuscii a riportare lo sguardo ed una convincente dose di attenzione sulla figura in penombra.
-         Segua con attenzione le mie parole Guido. È per il suo bene! La sua famiglia l’ ha affidata a noi affinché lei possa essere restituito alla società in perfetta efficienza intellettuale e fisica. Quell’efficienza e quella capacità che le hanno permesso di costruire un piccolo ma dinamico impero finanziario. Noi la vogliamo aiutare a ritrovare la sua sicurezza e nel contempo la possibilità di godere nuovamente degli affetti familiari, di sua moglie, Guido, e dei suoi due splendidi figli. Ma se lei si ostina a vederci come nemici non riusciremo a fare passi in avanti; non potremo passare ad un livello superiore di cura diminuendo in modo decisivo i dosaggi delle medicine che le stiamo somministrando attualmente. L’insulinoterapia, a cui è attualmente sottoposto, è solo il primo gradino. L’aiuta a creare una barriera tra lei e le sue fobie, le permette di vedere con distacco le problematiche che la tengono in questo stato patologico. Ma il vero lavoro deve essere fatto dalla sua volontà di accettazione delle paure che la bloccano in un equilibrio precario tra la realtà e l’irrealtà dei suoi incubi.
Io cercavo di aggrapparmi diligentemente alle sue parole, come un bravo scolaro che fissa gli occhi sull’insegnante per impedirgli di scoprire dove realmente navighino i pensieri. Lo studio era un condensato di elegante calma e sicurezza professionale. Una grande porta di noce a riquadri, comode poltrone di pelle attorno ad un tavolino turco di legno dipinto e intarsiato di madre perla, piccoli quadri ad olio ed acquerelli raffiguranti paesaggi, molti libri e, in posizione discreta, le lauree, i diplomi e i titoli vari. Mi ha sempre colpito il modo in cui erano sistemati; il Dottore doveva avere passato ore per trovare quella posizione; la giusta dose di evidenza che, però, non creasse il sospetto di una volgare ostentazione. Il messaggio era evidente < Sono bravo, sono importante e tutti lo riconoscono, ma state tranquilli non ve lo faccio pesare troppo. Quindi di me vi potete fidare>. La finestra dava sul giardino; mi piaceva quel giardino, le sue siepi di bosso compatte e rifilate in modo perfetto, i getti di forsizie che esplodevano dal prato sempre verde smeraldo e sempre perfettamente tenuto, i sentieri di mattoncini rossi si insinuavano tra piccoli boschetti di conifere e compivano curve aggraziate  attorno a enormi querce secolari. Dovevo fare un sforzo a non voltare la testa per ammirare il paesaggio, seguirne con gli occhi le linee ed immergermi nella sua perfetta simmetria.
-         Cerchi di capire, Guido, che se non noteremo un chiaro segnale di impegno da parte sua, dovremo rivedere la cura usando prassi più drastiche -.
Per sottolineare le ultime parole si era proteso verso di me entrando nel fascio di luce dorata. Aveva una testa piccola e tonda, sproporzionata rispetto al corpo lungo e dinoccolato, la bocca piccola e rossa atteggiata ad un eterno bacio, un naso quasi inesistente e due occhietti scuri e mobili.
-         la Dottoressa Glossini avrà l’incarico di dedicarsi a lei a tempo pieno per tutta la settimana prossima, tenendomi quotidianamente aggiornato sul suo stato, che tutti speriamo possa migliorare rapidamente. Lei ci sta molto a cuore! Si rende conto di questo, signor Guidi? -
Così dicendo aveva premuto un pulsante sulla scrivania; la porta si aprì immediatamente ed entrò l’infermiera che venne a fermarsi al mio fianco. Zettini scrisse qualcosa su un foglio e glielo porse dicendole di portarlo alla Dottoressa Glossini dopo avermi accompagnato alla mia camera.
Mentre ciabattavo per il lungo corridoio incrociai Michele, uno dei pochi ospiti della Villa con cui avessi rapporti; anche lui era accompagnato da un’infermiera e si stava avviando verso la studio da cui ero appena uscito. Mi guardò quasi di sfuggita e mi fece un piccolo gesto con la mano destra, apparentemente un saluto, ma era un segnale nella silenziosa lingua che i pazienti delle case di cura e delle prigioni imparano rapidamente.
Un appuntamento in un posto da noi giudicato sicuro.
La mia stanza era appena stata pulita dagli inservienti. Non sono mai riuscito a vedere qualcuno del personale non medico; né le cameriere che rifacevano in modo perfetto i letti e facevano splendere il bagno, né i giardinieri che curavano con amore maniacale il giardino, né i cuochi che preparavano in modo accurato e raffinato i nostri pasti. Trovavo il vassoio sul tavolo della mia camera invariabilmente dopo una passeggiata in giardino o una seduta di terapia e dopo il sonnellino pomeridiano era scomparso.
Legni chiari, piccoli disegni floreali dorati e sottili cornici dipinte in tenui colori pastello; guardai tutto con attenzione, come ogni volta che entravo; cercavo la traccia di una presenza estranea. Aprii la porta del bagno e spostai la tenda della doccia, aprii le ante dell’armadio, palpai i pochi vestiti appesi facendo scorrere le dita sul fondo. Poi mi avvicinai alla finestra e, ancora, feci scivolare il mio sguardo sul giardino, giù fino allo stagno delle ninfee.
Mi sentivo stanco. Avevo ancora un po’ di tempo prima dell’appuntamento con Michele, così andai a sedermi sulla poltrona e misi sul lettore un CD di Nik Cave.

  Padri fuggitivi, bambini malaticci, madri decenti.
Amanti fuggiaschi e suicidi.
Scatole assortite di ossa ordinate.
Di progetti abortiti e speranze improvvisamente infrante .
In file sfortunate fino ai cancelli del giardino.
In file sfortunate fino ai cancelli del giardino.
Non vuoi incontrarmi ai cancelli?
Non vuoi incontrarmi ai cancelli?

  Camminavo nel silenzio del parco verso l’appuntamento. Il posto di Van Gogh; non so perché abbia quel nome, non ha nulla che ricordi il pittore fiammingo. Non ci sono campi di grano o girasoli, non ci sono corvi o altro. È semplicemente una depressione nel terreno erboso vicino allo stagno, circondata da grandi cespugli di oleandri. Ma per tutti è il posto di Van Gogh. Per tutti gli ospiti della Villa, almeno.
Quando arrivai Michele era già lì, mi voltava le spalle, stava guardando le leggerissime increspature sulla superficie dell’acqua.
Mi misi al suo fianco.
-         Secondo te quei piccoli insetti che si muovono sul pelo dell’acqua si accorgono della nostra presenza?-
Parlare senza guardasi in faccia era un’abitudine che tutti avevamo acquisito subito dopo il nostro ingresso nella casa di cura.
-         Non credo. Noi siamo le montagne o le nuvole. Siamo parte del paesaggio, forse pensano di essere soli nel loro mondo. I padroni assoluti e, forse, tra loro ci sarà chi crede di essere più padrone degli altri –
Michele volse con circospezione lo sguardo verso me, lanciando contemporaneamente uno sguardo rapido alle spalle. Mi arrivava a malapena al naso, tondo e con le guance un po’ cascanti, aveva sempre l’espressione di un bambino imbronciato. I suoi grandi occhi marrone con cui osservava stupito e spaventato il mondo ed un soffice intrico di capelli bianchi  gli davano l’aria di un ingenuo fanciullone cresciuto a forza di cioccolata. Solo un anno prima, però, era stato uno dei più rinomati fiscalisti del paese; questo fino a quando non fu trovato, un giorno, dalla sua segretaria mentre orinava sui fascicoli dei clienti sparsi sulla costosissima moquette grigio perla del suo ufficio.
-         Ma quando ne schiacciamo uno allora si accorgono che esistiamo. Per forza devono capire!-
Parlò quasi con ansia, con desiderio di essere confortato per qualcosa di importante.
-         Michele se un terremoto o un nubifragio ci schiacciano e ci sommergono non pensiamo mica che le montagne o le nubi si siano accorte di noi. Noi cessiamo di esistere e basta e loro continueranno e fare ciò che hanno sempre fatto per miliardi di anni, senza il minimo peso sulla coscienza –
-         Guido sono sempre più convinto che Loro ci osservino, ci studino e ci usino. Non so perché ma sento che è così. Penso che si siano accorti che ho cominciato ad avere dei sospetti e mi hanno fatto rinchiudere così possono osservarmi meglio –
-         Tu, Michele, sei qui perché sei pazzo! Io sono qui perché sono pazzo. Noi siamo i pazzi, poi ci sono i dottori e gli infermieri. Forse anche loro sono pazzi, ma sono più bravi di noi a nasconderlo. Ecco perché siamo qui, amico mio –
-         Costa non la pensava così, e lui era uno scienziato. Anche lui pensava che Loro ci osservassero -
Costa era un importante ricercatore. Consulente di governi e grandi società. Vice direttore del Centro Nazionale per le Ricerche. Da molto tempo i suoi collaboratori sussurravano che avesse degli momentanei squilibri, ma li attribuivano alla sua genialità estrosa. La faccenda assunse un carattere preoccupante quando, durante un simposio, si mise ad urlare dal palco insultando tutti i suoi colleghi scienziato e dicendo loro che erano degli asini incapaci di capire il mondo circostante. Quando due relatori cercarono di calmarlo, lui li prese a sputi e poi, avventatosi sul più vicino, gli staccò netto un orecchio con un morso.
Fino al mio arrivo era stato l’unico con cui Michele parlasse. Da un mese, però era scomparso. Certamente la famiglia lo aveva fatto dimettere. Il fatto è che un giorno c’era ed il giorno dopo non c’era più.
-         Michele! Zettini mi ha affidato alla dottoressa Glossini. La conosci? Che tipo è?-
-         Non lo so! È qui da poco. La dottoressa Raffaella Glossini, ho sentito i suoi colleghi chiamarla Raffy; ma quando lo ha fatto una paziente, sai quella moretta del secondo piano, Antonella mi pare si chiami, sembra che la Glossini l’abbia mandata a fare due turni consecutivi di elettro. So che sostituisce un medico che è andato in pensione da poco – rimase in silenzio per diversi minuti, poi riprese - Però è strano, da un po’ di tempo l’avvicendamento del corpo medico e paramedico è diventato più frequente. Comunque ha un bel culo.
-         Andiamo, la cena deve essere già stata servita e non vorrei che ci venissero a cercare –
Mentre ci incamminavamo verso la Villa, Michele mi disse quasi sotto voce.
-         Guido domani voglio chiedere di poter passare un po’ di tempo nella sala computer; mi sono ricordato di una frase di Costa e voglio fare alcune ricerche su Internet –
-         Sta attento –
-         A cosa? Non ti preoccupare, ti sei dimenticato che sono pazzo?-
Nella mia camera, mentre aspettavo pazientemente il sonno ripensai ad alcune parti della conversazione col mio amico ed in particolare a “Loro”.
Chi sono Loro?
Sono l’opposto di Noi.
Detto così sembra uno stupido gioco di parole, ma provate per un attimo a pensare in termini di immagini e non di segni graffiati su un foglio bianco.
Loro - Noi.
Due continenti separati da un baratro infinito. Solo sottilissimi ponti li congiungono, ponti su cui può passare una persona per volta, sia in un senso che nell’altro. Messaggeri che sgocciolano con infinita lentezza per portare brandelli di notizie da ambo i confini. Due altopiani rocciosi e resi tetri da  quell’ignoranza reciproca che alimenta le fantasie e le paure. Loro ci spiano, Loro ci controllano, Loro sono crudeli, Loro sono senza Dio e senza moralità, Loro sono ricchi, Loro ci vogliono togliere la ricchezza, Loro sono poveri e affamati, Loro dettano le Leggi, Loro non rispettano né l’Autorità né la Legge.
Loro sono diversi.
Noi siamo i Loro per loro, e Loro lo sono per noi. La storia dell’umanità è un susseguirsi di Loro e di Noi; guerre, devastazioni, religioni e razzismo, intolleranza sono state di volta in volta le motivazioni dei Loro e dei Noi. In mezzo sono state edificate le mura di Troia, la grande Muraglia e la Linea Maginot. Hanno dato autorità a Torquemada e all’Inquisizione, hanno alimentato i forni dei lager di Hitler.
Hanno girato la chiave nelle serrature dei cancelli dei manicomi.

  Tornato sulla strada vidi un grande sole sorridente.
Era il giorno del Bene e del Male e tutto era luminoso e nuovo.
Mi sembrò che gran parte della distruzione fosse arrecata
Da quelli che non riuscivano a scegliere tra i due.

  Appassionati, dilettanti, impiegati, cowboy, cloni
Dalle strade salgono i gemiti di piccoli Cesari, Napoleoni, e stronzi
Con i loro edifici in costruzione e i loro minuscoli telefoni di plastica
Contano sulle dita, le briciole scendono lungo la loro fronte.

  Lo scricchiolio della poltrona si ripeté nuovamente quando la dottoressa Glossini si protese verso di me. Era un incontro informale, così lo aveva definito. Eravamo seduti su due poltrone. 
-         Per carità nessuna scrivania tra noi caro Guido! Voglio che lei mi consideri, innanzi tutto, una sua amica (sorriso). Una vecchia amica che non vede da tempo e a cui vuole raccontare tutto ciò che ha fatto negli anni passati lontano. Ciò che ha fatto; ma, soprattutto, ciò che gli è stato fatto (sorriso, ciocca di capelli rossi spostata dalla fronte, faccia e busto protesi in avanti). Ciò che le ha creato problemi ed angosce. Perché lei sa che la sua vecchia amica di scuola la potrà capire  (sorriso luminoso) –
La guardavo cercando di tenere gli occhi sulla sua faccia. Aveva zigomi molto pronunciati e la forma triangolare del viso era accentuata da un paio di occhiali di foggia anni cinquanta allungati alle estremità. La bocca accuratamente disegnata dal rossetto si muoveva con una rapidità quasi superiore alle stesse parole che pronunciava.
Cercavo di guardare il suo volto, ma continuavo a spostare lo sguardo sulle gambe accavallate, coperte da calze fumé setificate. Erano scoperte fino a metà coscia ed il camice leggermente aperto ne regalava un’altra porzione che si perdeva in una misteriosa e dolce semioscurità. La desideravo, sentivo il suo profumo assieme alla sua sensualità. La volevo sempre di più ogni minuto che passava. Aveva un portamento ed una gestualità regale, distante, che faceva crescere in me la necessità di meritare la sua approvazione, di essere gratificato da un suo sorriso.
-         Su, Guido, cominci a parlarmi del suo lavoro, deve essere affascinante creare qualcosa di così complesso come un’azienda di ricerche tecnologiche –
Spostò le gambe ancora più vicino a me. Sentivo la sua intimità, la volevo e cominciai a parlare. Parlai per non so quanto tempo descrivendole minuziosamente gli aspetti di quella che definivo la mia Creazione. Le raccontai degli inizi, delle difficoltà, delle crisi economiche e dei compromessi. Le parlai delle umiliazioni e dei tradimenti.

Le dissi delle prime vittorie.
Dell’esaltazione che esse portarono.
Della gioia selvaggia di scoprire il valore del potere.
Le raccontai tutto questo.
Ma non le dissi nulla.

Come potevo parlare delle notti insonni, come potevo descrivere l’angoscia dell’alba che si avvicinava portando nuovi problemi resi più forti dai vecchi. Quali parole possono descrivere la sensazione del tutto che ti crolla attorno. Il vuoto della mente. I crampi allo stomaco quando squilla il telefono.
La sensazione di correre dietro a qualcosa che non si ricorda più cosa sia veramente.
No! Neanche io riuscivo a dirlo a me stesso.
L’orrenda sensazione che tutto sia diventato inutile. Un fumo o una sottile nebbia che ti avvolge e che si sposta quando allunghi la mano.
Come e in che modo avrei potuto descrivere la nausea per quegli oggetti e quei target che tanti considerano fondamentali.
La pressione continua per ottenere cose che giudichi  irrinunciabili e che ad un certo punto non sono più tali.
La casa, la scuola privata, le lezioni di equitazione, le carte di credito, il cellulare che squilla.
L’abito firmato, le amicizie giuste, le vacanze giuste, il cellulare che squilla.
I party a cui si deve andare e quelli a cui si vorrebbe andare, ma non si è stati invitati, i consigli di amministrazione e le cerimonie pubbliche, il cellulare che squilla.
L’idea che quelle che si ritenevano necessità abbiano trasformato te in necessità.
Il cellulare che squilla.
Stavo disteso sul lettino dell’infermeria in attesa della dose di insulina che mi avrebbe scaraventato nel mondo dell’accettazione. Del tutto va bene. Un’esplosione e poi il silenzio.
L’infermiere sorrideva mentre si chinava verso il mio braccio destro a cui era stato legato un laccio emostatico.
-         Oggi la dose sarà un po’ più alta. La dottoressa mi ha dato una nuova prescrizione; ma stia tranquillo avrà solo un’assenza leggermente più lunga poi una maggiore disponibilità ai cicli di terapia. Allegro vedrà che presto potrà tornare a casa a godersi la sua bella vita.
Steno, Steno Gastrini, era un ragazzone alto e muscoloso; biondo e perennemente abbronzato sembrava il manifesto di qualche Campus universitario o di un surfista della California. Mentre preparava le medicine da somministrare, non smetteva un attimo di parlare di serate infuocate in discoteca, di conquiste, di fuoristrada e di calcio. Era sempre gentile e disponibile e quando arrivavo in infermeria, mi dava qualche giornale sportivo (per “ingannare l’attesa”) che io facevo, diligentemente, finta di leggere.
Trattenni il respiro quando sentii l’ago penetrare, poi percepii il liquido che entrava come fosse un solido filo rovente. Un attimo di sospensione mentre un rumore lontano si forma piano, piano nella mia testa. Il ronzio comincia a trasformarsi in un rombo, un rotolare di tuoni che si avvicinano. È sempre uguale e sempre diverso. I muscoli si contraggono nell’attesa. Finalmente l’onda arriva colpendo con una feroce violenza. Perdo totalmente il senso delle dimensioni e delle distanze.
Alto, basso, destra e sinistra si fondono in un vortice nero mentre precipito, continuo a precipitare al di la del mio respiro, al di la del mio cuore che cerca di battere, al di la dei miei muscoli che tentano di strapparsi dal corpo per fuggire lontano. In salvo.

Silenzio.
Silenzio attonito.
Grigio.
Bianco e nero. Un mondo in negativo che scorre sotto di me.
Silenzio.

  Cercavo di infilare la palla in buca mentre lanciavo rapide occhiate in giro alla  ricerca di Michele. La grande sala ricreativa era il punto di incontro legittimo di tutti gli Ospiti della Villa. Venivamo incoraggiati a frequentarla. L’ambiente era caldo ad accogliente, arredato come un lussuoso Club londinese; poltrone di cuoio, tavolini per i giochi di carte, scacchi, dama e back gammon, alcuni splendidi  tavoli da biliardo, tappeti e luci soffuse. In fondo alla sala, oltre un arco, un piccolo bar dove venivano servite bibite analcoliche e minuscoli pasticcini.
Dopo diverse oziose carambole lo vidi attraversare la porta col suo solito passo saltellante. Mi sembrava più piccolo ed indifeso che mai. L’aria imbronciata aveva lasciato il posto a uno sguardo teso e preoccupato. Mi scorse e dopo un giro indifferente per la sala, con l’aria di uno che stia valutando a che occupazione dedicarsi, si avvicinò a me dicendo ad alta voce.
-         Le andrebbe una partitina a punti? –
-         Con piacere – rispose.
Andò alla rastrelliera, scelse con cura pignola una stecca e ritornò la tavolo; passato il gesso azzurro sulla punta si chinò per misurare il tiro facendola scorrere avanti e indietro sulla mano destra aperta a forcella.
-         È da un po’ di tempo che non ci vediamo –
-         Sono riuscito a farmi dare il permesso per lavorare in sala computer. Zettini era contento perché l’ha considerato un mio desiderio di ritorno al mondo della normalità –
Mi fa un piccolo sorriso.
-         Gli ho detto che volevo studiare le quotazioni di mercato e lui ha detto che se trovavo qualche possibilità interessante sarebbe stato felice di fare uno o due piccoli investimenti. Mi ha chiesto una dritta, mi ha chiesto! Che stronza!-
Quest’ultima parola era diretta alla bianca che aveva colpito di striscio, la palla aveva cominciato a ruotare vorticosamente andando a finire in buca d’angolo e facendogli aggiudicare una grossa penalità.
-         Guido dimmi, secondo te quale è l’elemento determinante dell’attuale sistema sociale mondiale?
Il mio sguardo doveva essere un gran punto interrogativo perché aggiunse subito.
-         Non è un esercizio di conversazione è qualcosa che ha a che fare con le mie ricerche, allora quale è, secondo te, la caratteristica dominante dell’assetto socioeconomico attuale –
-         Stai forse alludendo alla frammentazione delle specializzazioni? Si vero! Le specializzazioni permettono agli individui che compongono la società di dedicarsi maggiormente al compito che si sono assegnati, in quanto possono attingere da altre fonti ciò di cui hanno bisogno per lo svolgimento della loro stessa attività. Un muratore non perde tempo a fabbricare i mattoni in quanto c’è chi li fa e glieli vende e così via. Ma Michele questa è preistoria economica! –
-         Sono d’accordo, ma la situazione attuale quale è ?
-         Per rendere semplicistico il concetto potremo dire che tutto il mondo si è suddiviso in specializzazioni più che in paesi o stati. Il sistema di produzione e l’economia sono ormai tanto complessi che hanno bisogno di attingere a fonti sempre più diversificate per poter andare avanti ed essere maggiormente competitive. In definitiva, per rivendere prodotti finiti che a loro volta diventano parte di altri prodotti finiti. È un sistema consolidato e che ha avuto secoli per formarsi.-
-         Va bene e dimmi, quali sono le contro indicazioni? –
-         Michele lo dovresti sapere meglio di me! Un paese con un’economia debole, nel momento in cui importa un prodotto di cui è carente, ad esempio in bullone, importa anche i problemi originari del paese in cui il bullone è stato realizzato. Se nella patria del bullone esiste una certa dose di inflazione, questa inflazione arriverà anche nel paese che ha acquistato il bullone, esplodendo in modo più virulento in quanto potrà nutrirsi della sua debolezza endemica –
-         Alternative? –
-         Difficili, anzi oggi praticamente impossibili. Ci vorrebbe un’economia chiusa di tipo tribale, ma dopo un po’ crollerebbe sotto il peso dei desideri di beni, diciamo così, superflui. Gli ex paesi comunisti ne sono un esempio
-         Stiamo arrivando al punto. E se qualcuno volesse controllare questo sistema di vita, in che parte di essa dovrebbe o potrebbe infiltrarsi? –
-         Dominare ma che stai dicendo Michele? –
-         Consideralo un esercizio mentale. Su allora dove dovrebbe colpire? –
-         Ormai non è possibile operare un controllo complessivo del sistema e riuscire ad essere, contemporaneamente,  indipendente da tutte le necessità di settore. Le materie prime sono state, per lungo tempo, considerate strategiche; per cui chi le controllava, controllava l’economia. Ma per ottenerle adesso è necessaria l’energia, in quantità sempre maggiori; quindi, per accrescere il fabbisogno di energia, è necessario l’apporto della tecnologia che, a sua volta, utilizza il danaro, generato dalle materie prime e dalle loro successive trasformazioni che immesse sul mercato generano danaro, per perfezionarsi. Insomma è un circolo chiuso in continuo movimento; basta il più piccolo intoppo per creare ripercussioni da un estremo all’altro. Si chiama Effetto Domino. La crisi del Messico negli anni ’90 e quella argentina nel 2002 ne sono un esempio da accademia –
-         Allora, Guido, anche tu sei dell’avviso che questa economia, così profondamente legata alle strutture sociali e politiche, può trarre la sua forza solo dalla totale e globale omogeneità dei desideri e delle necessità. Qualsiasi rifiuto o negazione dell’offerta globale diventerebbe un elemento di intoppo; una divergenza da questo schema sarebbe, di per sé, un elemento alienante e come tale trattato dalla collettività 
-         Michele, in tutta sincerità, non capisco cosa c’entri tutto questo con le ricerche che stai facendo, con le idee di Costa e, soprattutto, con la nostra presenza qui! Visto che è a questo che mi sembra tu voglia arrivare. –
-         Credo di aver trovato un sentiero da seguire. L’idea ma l’ha data una battuta di Costa, una delle ultime cose che mi disse. Buona sera Dottoressa! –
La frase detta con un tono di voce più alto delle altre mi fece voltare di colpo e quasi andai a sbattere contro la dottoressa Glossini.
-         I nostri pazienti modello! Ho interrotto una conversazione importante a quanto pare! –
-         No Dottoressa – disse rapido Michele riprendendo la sua solita aria da bamboccione – stavamo parlando di un’ipotesi di progetto finanziario, chiamiamolo un esercizio mentale. Però, nel corso della chiacchierata, Guido ed io abbiamo intravisto la possibilità di un lavoro comune, una società di ricerche nel settore della socioeconomica –
-         Molto bene, signori! Veramente molto bene, il dottor Zettini ne sarà felice. Le vostre qualità intellettuali sono preziose per il nostro paese e, permettetemi, per il mondo intero. È vostro dovere contribuire al progresso; prima tornerete a farlo, meglio sarà. Scusatemi, continuate pure. Signor Guido noi ci vedremo domani alla solita ora –
Ci regalò un sorriso tipo <gratificazione da pari a pari> e si allontanò con la sua lunga falcata.
-         Ha proprio uno splendido culo! Ma tu dici che lei ed il Zettini….-
Michele fece un gesto decisamente volgare con la stecca del biliardo.
-         Va bene. Non sono affari miei! È solo curiosità; tanto per passare il tempo –
Disse incassando la testa fra le spalle ed assumendo un’espressione da gufo.
-         Comunque vorrei che tu ripensassi alla nostra conversazione. Pensaci Guido e poi ne riparleremo –

Stando così le cose, pensai di fare un'ultima passeggiata
L’ondata di opinione pubblica era cominciata a scemare
I Vicini, Dio li benedica, si erano rilevati solo chiacchiere
Riuscivo a vedere i loro volti spaventati
Che mi sbirciavano attraverso la cancellata
Ed io devo proprio dire
Che si fa sempre più buio col passare del tempo
Che si fa sempre più buio col passare del tempo

  -         Signor Guido, lei non deve negare la centralità del desiderio di gratificazione all’interno della struttura sociale, non solo quella attuale, ma in tutte le società che ci hanno preceduto. Continua ad ostinarsi a considerare determinati punti di arrivo, i targets e le performances come elementi secondari, anzi peggio, come una sorta di ricatto a cui l’essere umano è sottoposto. È questo che la porta ad una situazione di forte conflittualità con l’ambiente che lo circonda.
Gambe parallele strette e leggermente inclinate di lato. Camice tirato quasi fino alle ginocchia e ripiegato accuratamente sotto le cosce.
Raffaella Glossini non voleva che mi distraessi. Sapeva già di avere ottenuto tutta la mia attenzione col suo fascino; adesso lo spasso era finito! Adesso si faceva sul serio, solo duro lavoro.
-         In sostanza, però, lei rivolge verso l’esterno, la Collettività Costrittiva, ciò che è un suo desiderio profondo e coltivato fin dall’infanzia. Il desiderio di punti fermi, nella sua vita, il desidero di essere al di sopra della maggioranza, il desiderio di gestire la sua vita al di sopra delle normali convenzioni. Tutto ciò che l’ ha spinto a lottare ed a creare insomma! Adesso lo vede come un elemento di costrizione esterna per coprire un suo “privato” senso di colpa. Il peso di quelle responsabilità, che lei vorrebbe rigettare, e che sono diventate la sua costante ossessione
-Allora cosa decide?
Decide di uscire dalla porta di servizio. Signori! Ho un grave esaurimento, cavatevela da soli! Ecco la sua scelta, signor Guido. Ma questo ha dato origine ad un effetto collaterale: un nuovo senso di colpa. Se esco dall’esaurimento sarò costretto a rispondere a tutti della mia capacità di giudizio. Se metto alla prova la mia capacità di giudizio posso fallire. Per cui io me ne sto sotto le coperte e al diavolo il mondo.
Il corpo della dottoressa si era ritirato, lasciando solo la testa che navigava in una nebbia giallina, poi, anche la testa era evaporata. Erano rimasti solo gli occhi dietro gli occhiali allungati che riflettevano piccoli raggi di luce. Come il Gatto di Alice nel Paese delle Meraviglie.
-         Lei , Guido, non deve affrontare nulla che non possa combattere e che non abbia già affrontato. Non è solo nella sua lotta. C’è la sua famiglia che attende con ansia la sua presenza vitale e forte, ci sono i suoi collaboratori che la stimano, i suoi amici che credono in lei. Lei è solo unicamente nelle sue scelte e da quelle non si potrà nascondere mai.

Componimento
di
Stella Silvestrelli classe IV A
"I miei genitori"

  La mia mamma è molto bella ed elegante perché fa molto sport e si veste bene. Dice che tutte le donne devono curare il loro aspetto perché se non lo fanno diventano brutte e nessuno le guarda più. Mi  porta spesso a fare spese con lei. Dice che seguire la moda è importante perché così tutti ti guardano e ti ascoltano, se non la segui le amiche non ti parlano più.
A me non piace andare a cavallo però la mamma dice che le signorine come me devono fare equitazione così possono fare tante belle amicizie.
Il papà non lo vedo quasi mai perché è sempre al lavoro, ma la mamma dice che deve essere così perché se un papà sta sempre a casa è un fannullone e non vuole bene alla mamma e ai figli.
Ogni volta che torna da un viaggio mi porta un regalo e ne porta uno anche a mio fratello e alla mamma, ma quello della mamma è molto più bello del mio. Un giorno, quando sarò grande avrò anche io un marito che mi porterà tanti regali che faranno morire di invidia le mie amiche.
Adesso papà sta in una grande villa, la mamma dice che è lì per riposare perché è stanco, ma non mi ha permesso di andarlo a trovare perché dice che il papà adesso non è buono e mi ha detto di non raccontare nulla a scuola e neppure a equitazione perché non è bello che un papà sia in quella villa. Dice che tornerà presto e ci farà di nuovo tanti regali.
Io non vedo l’ora perché voglio tanto un novo orologio che ho visto in un negozio e anche un nuovo cellulare con tanti giochi come quello che ha la mia amica Tiziana che si da un sacco di arie.
Io voglio molto bene alla mamma e anche al papà

  Caro Guido
ti scrivo questa lettera perché non ho avuto occasione di incontrarti più dopo la nostra conversazione di due settimane fa.
Temo, anche, che non avremo più modo di incontrarci in futuro perché credo che presto seguirò la sorte di Costa, qualunque essa sia stata.
Io ho continuato la mia ricerca avendo come obiettivo la comprensione di un problema che da tempo mi assillava.
Perché e come possa continuare ad esistere un sistema economico/sociale/politico così pressante come è quello in cui tutti viviamo e, soprattutto, come riesca a conservarsi, a crescere e ad autoalimentarsi.
La storia ci dice che molti studiosi di economia e di sociologia, e prima di loro i filosofi, hanno cercato risposte a questo dilemma, ma mi sono reso conto che tutti hanno preso in esame solo aspetti parziali di un problema generale; per cui le analisi finivano per essere viziate nella forma e perdevano di significato col mutare degli eventi.
La soluzione, a mio avviso, andava cercata nella visione d’insieme. Insomma per cercare un albero si perde di vista il bosco!
Noi dobbiamo allontanarci il più possibile dal tutto per coglierne il tutto. Solo allora può emergere il disegno complessivo del paesaggio, vediamo le strade che congiungono le città e i paesi, i fiumi ed il segno delle coste.
Per generazioni e generazioni, l’umanità ha accresciuto il suo sistema organizzativo; per cinque milioni di anni, giorno dopo giorno, ha lottato per creare un mondo che non lasciasse spazio alla diversità. La creatività, l’amore, l’odio, tutto ha finito per ricondursi ad una marcia verso una profonda omogeneità di pensiero e d’azione. Un formicaio che avanza sulla terra inghiottendo tutto e, adesso, comincia ad alzare gli occhi avidi al cielo. Di volta in volta i pensatori hanno individuato  classi di potere e caste che, con metodi vari, indicavano la strada alla moltitudine.
Re, Imperatori, Sacerdoti.
Poi fedi politiche e religioni, democrazie e totalitarismi.
Ognuno di questi momenti di vita, brevi o lunghi che fossero, ha portato al mantenimento di una linea che vede la chiusura sistematica degli spazi di autonomia dell’uomo come individuo, a favore di una collettività senza volto. Ma erano veramente le classi dominati, di qualsiasi natura fossero, a volere questo? O, forse, anche loro sono state strumento inconsapevole di qualcosa o qualcuno che lavorava dietro una tenda nera.
Ho provato ad azzardare questa ipotesi nelle mie ricerche ed il risultato è stato sconvolgente.
Nelle ere, quel qualcosa o quel qualcuno, ha avanzato con noi facendo leva sull’ambizione, sui desideri più nascosti, sull’avidità. Si! Sull’avidità, per un fine che non può essere che la sua stessa sopravvivenza e la sopravvivenza della sua specie.
Chi possa essere non lo so e non lo saprò mai a questo punto; né, temo, riuscirai a saperlo tu Guido. Ma i segni di questa presenza inquietante si trovano ovunque.
Si possono leggere nelle piramidi egizie e in quelle maya, si trovano nei graffiti delle metropolitane e sui muri dei quartieri fatiscenti delle nostre città.
Certamente questa volontà, o come la vogliamo chiamare, ha bisogno che gli uomini vivano senza chiedersi un perché, senza rifiutare di produrre incessantemente, senza smettere di farlo; dal momento che ciò potrebbe voler dire la fine. In tutti questi milioni di anni, questa forza ha potuto studiare metodi sempre più raffinati per spingerci avanti nella nostra ignoranza.
Perché?
Perché credo che, chiunque sia o siano, si nutrano della nostra sofferenza, della nostra paura, delle nostre angosce. Ed è di questo cibo che nutrono la loro orrenda prole.
Forse ci vennero incontro nelle paludi della Mesopotamia, agli albori delle civiltà. Ci vennero incontro ed aprirono i loro banchetti per mostrarci la mercanzia fatta di conchiglie levigate e di selci affilate. E noi lottammo per averle. Poi furono con Marco Polo e Cristoforo Colombo, nelle loro borse portavano collane di vetro, specchi e coltelli di ferro.
Quando questi oggetti luccicanti non bastarono più, costruirono grandi circhi, con giostre e specchi deformanti ed entrarono nelle città accompagnati da giullari, acrobati e maghi, preceduti da bande di pifferai. Cominciarono ad offrire qualcosa di più allettante, cominciarono ad offrire il sogno di possesso, offrirono la ricchezza, il potere.
Promisero l’eterna giovinezza mostrandoci i loro piccoli bisturi luccicanti e le loro magiche pastiglie colorate.
Avevano ed hanno bisogno di noi, ma vogliono che il loro pascolo sia soddisfatto ed ignorante del mattatoio che lo attende.
Per questo, caro Guido, ci addormentano riempiendoci la mente di desideri. Ci aiutano a realizzarli anche!
Ci addormentano per non farci accorgere che stiamo morendo.
Adesso non si nascondono più nel buio, non usano gli stracci colorati degli imbonitori di piazza e dei buffoni di corte.
Adesso vivono tra noi, sopra di noi.
Leggi questa pagina che ho stampato da sito web dell’enciclopedia del National Geographic.
Leggila per amor di Dio!
Perché sono qui Guido, sono qui!
I Vespidi sono diffusi in tutto il mondo con circa trenta mila specie descritte: la maggiore concentrazione di questi Imenotteri si ha, tuttavia, nelle regioni tropicali dove sono presenti i 2/3 circa delle specie note.
La famiglia dei Vespidi è suddivisa nelle sottofamiglie degli Eumenini, degli Zettini, dei Raffiglossini, degli Stenograstrini…….
Nei nidi vengono allevate le larve, che sono cieche, apode, tozze e delicate e inoltre possono venirvi accumulate le sostanze alimentari di riserva, rappresentate da prede animali vive, ma paralizzate dal liquido dei Vespidi. In un dato periodo, la larva viene posta vicino alla preda in modo che possa nutrirsi durante la crescita. La preda verrà così divorata inizialmente nelle parti tenere e meno vitali, e successivamente, dall’interno, fino alle parti più vitali. Per quasi tutto il periodo, la preda resterà viva e, si suppone, cosciente.
Questa è la mia storia, forse è un po’ confusa e lacunosa, ma non dimenticare che sono pazzo.
Steno sta accuratamente stringendo le cinghie attorno alle mie caviglie. Non scherza, anzi sembra piuttosto alterato. Forse è arrabbiato con me per il taglio che gli ho fatto sulla guancia, gliel’ ho provocato con un bisturi che ho rubato in infermeria, sfondando a calci  l’armadietto del pronto soccorso. Ho anche cercato di tagliarmi i polsi, ma è bastato quell’attimo di incertezza in cui il nostro istinto di sopravvivenza lotta con il desiderio di morire, perché gli infermieri mi immobilizzassero e mi infilassero la camicia di forza.
In bocca ho un tampone che serve ad impedire di mordermi la lingua quando arriverà la scossa e una infermiera mi sta spalmando sulle tempie una crema per evitare le bruciature e facilitare il passaggio della corrente elettrica.
-         Signor Guido lei è veramente testardo –
Il dottor Eumenio Zettini è chino sopra di me, dietro di lui scorgo il luccicare degli occhiali della dottoressa Glossini.
-         Cerca costantemente di sfuggire alla realtà, come se questo fosse possibile. No caro Guido non è così facile come sembra. Ci hanno provato in molti prima di lei. Certo in passato abbiamo perso molte valide menti, troppe se devo essere sincero, come il povero Van Gogh e il geniale Edgar Allan Poe. Non siamo mai riusciti a perdonarcelo. Ma adesso la tecnologia ci aiuta a recuperare tante persone, la vostra tecnologia signor Guido. Siete così bravi quando non perdete tempo a sognare. I sogni Guido sono utili, ma solo quando rientrano negli schemi del progresso umano. L’ambizione, si quello è un giusto modo di sognare! Ma sogni come la libertà, il rispetto del prossimo, l’amore e via dicendo, no! Questi sono devianti. Sono inutili. Vi abbiamo spinto a creare i computer; giocate con quelli! Non perdete tempo con le favole scritte secoli fa su noiosi libri. Non perdete tempo ad analizzare le motivazioni. Agite! Non si preoccupi signor Guido, noi la salveremo. Elettroshock, neurolettici, abbiamo a nostra disposizione i prodotti di tutte le case farmaceutiche del mondo; e se questi sistemi non dovessero bastare, abbiamo sempre la lobotomia. Lei è troppo prezioso per l’umanità. Può ancora dare molto prima che si decida di sostituirla.

  Lascia questi antichi luoghi agli Angeli
Lascia che i Santi si occupino di custodire le cattedrali
E lascia i morti sotto la terra così fredda
Perché Dio è nella mano che stringo
Mentre apriamo i cancelli del giardino
Non vuoi incontrarmi ai cancelli?
Non vuoi incontrarmi ai cancelli
Del giardino

(Massimo Carubelli)

 

“ nunc te cognovi: quare etsi impensius uror
multo mi tamen es vilior et levior.
Qui potis est? Inquis. Quod amantem iniuria talis
Cogit amare magis, sed bene velle minus. »

  ( Catullus. LXXII)

 

 

Ora so : così anche se ti amo ancora di più,
mi appari meschino e mediocre.
Come è possibile?
 È perché queste tue menzogne vili
mi costringono ad amarti di più
e a volerti molto meno bene.

 

 Il Viaggio

  Le cinque del mattino erano passate da poco e le luci del distributore dell’Agip spandevano un alone fioco  visibile già da lontano.
Sul cruscotto la spia luminosa della benzina rimaneva accesa e i chilometri da percorrere erano ancora tanti.
Non aveva mai usato una pompa per il rifornimento self-service, ma non c’erano alternative.
Quando poteva, evitava le macchine automatiche, quelle cambia-soldi dei supermercati, quelle per il caffè e anche il bancomat la metteva a disagio.
Preferiva il rapporto diretto con le persone, la macchina con i suoi suoni metallici mandava messaggi drastici, laconici, lapidari ultimatum che non ammettevano repliche e lei invece aveva sempre bisogno di stabilire un contatto, di cercare un sorriso, di farsi convincere.
Nonostante fosse ormai novembre l’aria era tiepida e un po’ appiccicosa mentre, con le dita, cercava di lisciare le banconote, prima di consegnarle alla muta, inespressiva bocca della macchina e quasi le tremavano le mani per l’ansia, quando finalmente sentì che il carburante cominciava a scendere nel serbatoio vuoto.
Significava che poteva proseguire.
L’autostrada sembrava deserta, e, tranne qualche auto che ogni tanto con i fari si materializzava nel buio, per farsi subito riavvolgere dalle tenebre, non incontrava nessuno.
La Golf correva veloce e dalla radio accesa un DJ, che forse combatteva con il sonno,  si inseriva di continuo sulla voce di Francesco De Gregori che raccontava della Donna Cannone.
Ne aveva vista una, da bambina, al Luna Park, anzi alle “giostre”, come dicevano i ragazzi.
I carrozzoni arrivavano sempre nel mese di ottobre, alla riapertura della scuola, e  restavano molte settimane: i cavalli a dondolo, il tunnel degli specchi, la donna a due teste, l’ otto volante, la giostra con le catene, la ruota, il viaggio nel buio, tutto aveva un sapore artigianale, un po’ arrangiato, ma rassicurante, non c’era niente della moderna tecnologia che avrebbe tolto ai giochi il sapore del mistero e ai ragazzi la fantasia.
Alle giostre  andava con Gianmario, il suo compagno di banco, un ragazzino pallido, con gli occhiali dalle stanghette metalliche che si arrotolavano intorno all’orecchio per evitare che scivolassero in terra.
La seguiva come un’ombra ed evitava gli altri ragazzi che lo prendevano in giro, perché era piccolo di statura e così esile da sembrare quasi un bambino.
L’aspetto fisico, il corpo.
Era stato in quegli anni che aveva cominciato a prenderne coscienza, quando le sue coetanee erano già “signorine” e lei viveva ancora quella dolorosa fase di transizione che fa perdere armonia e delicatezza, con i fianchi che si ingrossano, le gambe che diventano più piene e i tratti del viso che sembrano dilatare la pelle, come evidenziati da uno scultore che affonda sempre di più il suo scalpello nella materia.
Erano passati tanti anni, ma con il suo corpo non era mai riuscita a stabilire un equilibrio.
Anoressia e bulimia allora non esistevano o comunque nessuno ne parlava, ma  lei aveva cominciato a sentirsi schiacciata da quell’involucro ingombrante, mal distribuito, che le toglieva spontaneità nei rapporti con gli altri, la spingeva ad isolarsi e a nascondersi.
C’erano stati momenti in cui avrebbe voluto distruggerlo.
E quando per strada qualcuno le aveva rivolto dei complimenti volgari, aveva cominciato ad aver paura ad uscire di casa e, se non poteva evitarlo, passava per strade secondarie, dove sapeva di non incontrare molte persone.
Non aveva mai parlato con nessuno di questa  difficoltà, allora non c’era l’attenzione di oggi ai problemi psicologici dei giovani, “ il disagio giovanile” non l’avevano ancora scoperto, almeno a livello di cultura di massa, e lei si vergognava a lasciar trasparire quella sua fragilità che le procurava dolore e molta solitudine.
Poi gli anni erano passati, erano sopraggiunte altre situazioni e, come succede sempre, si erano presentate altre necessità, altri problemi che avevano fatto dimenticare o semplicemente accantonare quelli mai risolti del passato.
Tutto questo le era tornato in mente mentre guidava e lo sguardo le era caduto sulla gonna di lana morbida, molto corta e stretta, che le lasciava scoperte le gambe fasciate da un collant nero.
Per un attimo aveva avuto la sensazione che quel corpo appartenesse ad un'altra persona.
Era molto dimagrita e aveva cambiato modo di vestire.
I maglioni larghi e comunque di una o due taglie superiori alla sua, le gonne a pieghe rigorosamente sotto il ginocchio, i giacconi diritti che nascondevano i fianchi, i mocassini dal tacco quasi piatto  erano stati sostituiti da pantaloni elasticizzati e gonne aderenti, da golfini e giacche corte, molto avvitate. Qualche volta si metteva anche le scarpe con i tacchi alti che le facevano male e la costringevano a non distogliere mai l’attenzione dai piedi, per il timore di cadere e di farsi male.
Aveva avuto la tentazione di credere di essere carina e aveva cominciato ad avere del suo corpo una cura diversa, attenta, quasi rispettosa.
Le era  sembrato di scoprirlo per la prima volta e Giacomo l’aveva spronata, rassicurata.
Sapeva sempre trovare una parola gentile, un complimento, e, sebbene fino al venerdì rimanesse lontano da casa per il lavoro, faceva di tutto per dimostrarle  un’attenzione continua, facendole sentire la sua presenza con tanta tenerezza, i suoi piccoli regali, le sue telefonate.
Cominciava ad albeggiare quando decise una sosta per prendere un caffè.
Il Bar dell’autogrill era quasi deserto, appoggiati al bancone solo due ragazzi con gli occhi stanchi ed arrossati dopo una probabile nottata in discoteca e un po’ più in là, lungo il corridoio del supermarket, una bambina faceva i capricci con i genitori per convincerli a comprarle qualche cosa.
Prese la tazzina fumante e si sedette ad un tavolo con la prima sigaretta.
Già il fatto di essere lì da sola, lontano da casa, lungo l’autostrada durante la notte, le sembrava improbabile, se avesse valutato la situazione razionalmente non ne avrebbe fatto di niente.
Si chiese che impressione faceva, come la vedevano gli altri, se appariva disinvolta o tradiva la disperazione che aveva dentro.
All’improvviso le si ripropose davanti agli occhi una scena di molti mesi prima.
Quel fine settimana era stata lei a raggiungerlo e, poiché la domenica pomeriggio pioveva,  dopo il cinema erano entrati in una pasticceria del centro per prendere un te con la Spungata.
Dopo qualche minuto erano arrivate due ragazze, molto giovani, ridevano rumorosamente liberando i capelli lunghi dalle sciarpe con cui si erano riparate dalla pioggia.
Erano vestite quasi allo stesso modo, con una minigonna cortissima sopra gli stivali di pelle lucida che oltrepassavano il ginocchio.
Giacomo le aveva guardate a lungo, poi all’improvviso le aveva detto” tu non sei mai stata così”.
Dentro di sé sentiva ancora la sorpresa per quelle parole, erano state come un colpo improvviso, inatteso, che aveva risvegliato antiche paure, un’insicurezza mai superata davvero, il senso di inadeguatezza che l’aveva accompagnata da sempre.
Aveva dissimulato bene, ma la risata di Giacomo, che poi le aveva preso le mani tra le sue, commentando con sarcasmo l’ostentazione aggressiva di “certe donne”, non aveva cancellato la tristezza, né allentato il malessere che le aveva preso lo stomaco.
Forse qualche cosa si era incrinato proprio allora.
A volte una parola, detta in un momento inopportuno o in modo sbagliato, ha un effetto dirompente, un ordigno terribile e distruttivo che squarcia sipari invisibili, dietro i quali, fino a quel momento, non si era mai pensato di guardare.
Aveva cominciato a vederlo da una angolatura diversa, come quando si fa una fotografia e lo stesso soggetto può apparire del tutto diverso nella forma, nelle proporzioni, persino nei colori, a seconda di come lo si inquadra.
Eppure tutto era andato avanti con i ritmi consueti, apparentemente non era cambiato niente.
Sfumata la possibilità di un trasferimento della sede di lavoro, continuavano a trascorrere insieme il fine settimana, alternandosi nei viaggi. Facevano lunghe passeggiate sulla spiaggia e in inverno cenavano con il camino acceso, rimanendo svegli fino a tarda notte a sorseggiare vini pregiati nei grossi calici di cristallo, mentre si raccontavano le proprie esperienze quotidiane, i contrattempi, gli incontri, le situazioni che avevano vissuto nei giorni trascorsi lontani.
Qualche volta partivano con la macchina senza una meta precisa, girovagando per i paesini circostanti alla scoperta di vecchi vicoli lastricati, di qualche pieve dimenticata, di una piazzetta intatta negli antichi palazzi, testimoni di epoche lontane.
Poi si mettevano a cercare un posto per mangiare, qualche trattoria di campagna e, soprattutto in primavera, sperimentavano la cucina dei tanti poderi riadattati per l’agriturismo.
Ricordava ancora quella volta che, percorrendo una strada vicinale, si erano accorti che le prode erano cosparse da un tappeto ininterrotto di gelsomini selvatici dalle intense tonalità violacee.
Con la paletta di ferro che si portavano sempre dietro ne avevano raccolti tanti da riempire una scatola da scarpe, e continuavano ancora a fiorire nell’aiola del giardino dove lei li aveva trapiantati.
Si rese conto che stava già accendendo la seconda sigaretta.
Da qualche mese aveva ripreso a fumare e lo faceva meccanicamente, soprattutto quando si trovava tra estranei e si sentiva osservata.
Il caffè era finito da un pezzo e doveva decidersi a ripartire, ma l’idea di alzarsi, di dover ripassare davanti al banco del bar sotto lo sguardo dei due camerieri appoggiati con le spalle alla macchina per gli espressi, inerti e probabilmente con i pensieri altrove, la terrorizzava.
All’improvviso fu ripresa dallo stesso panico di quando era una ragazzina e ci mise diversi minuti per recuperare la calma, almeno apparente, che le permise di raggiungere l’uscita senza barcollare.
L’aria era ormai chiara quando si rimise al volante e istintivamente cominciò a rovistare nella borsa per cercare gli occhiali da sole, per un attimo ebbe paura di averli dimenticati nella fretta ansiosa della partenza.
Dopo alcune ore con gli occhi sbarrati nell’inutile tentativo di prendere sonno infatti, si era alzata dal letto impulsivamente, la decisione di un attimo, anche se ormai da tempo quel pensiero la sfiorava, compariva all’improvviso e diventava sempre più difficile ignorarlo.
Nonostante se lo fosse chiesto più volte, nemmeno ora avrebbe saputo dire perché e quando le incertezze, una vaga paura, certe malinconie che la prendevano inattese, si erano trasformate in dubbi, sospetti, sempre più definiti, reali, che le toglievano il sonno, la spingevano ad interrogarsi.
Una parola appena un po’ più brusca, una partenza rinviata, piccole dimenticanze, uno scatto improvviso e ingiustificato, una telefonata interrotta bruscamente, qualche bugia, magari banale, insignificante, “necessaria per sopravvivere”, come diceva la sua amica Ginetta, l’avevano amareggiata, però subito aveva reagito, cercando di trovare una spiegazione che non facesse troppo male.
Ma non aveva mai saputo accettare compromessi, rifiutando istintivamente tutto quello che sentiva “accomodato”, rimaneggiato, falso, come gli “eroi” della tradizione classica, si ritrovò a pensare con sarcasmo: prodi, magnanimi, fedeli, pronti a morire per un ideale e inesorabilmente perdenti, perché i veri vincitori nella vita sono coloro che sanno adattarsi, pronti a mutare i sentimenti a seconda delle occasioni, capaci di scambi disinvolti, spregiudicati e pragmatici, duttili di fronte alla realtà e al gioco volubile della sorte, pur di soddisfare i loro desideri.
Scherzando, cercando di non drammatizzare troppo aveva parlato anche con Giacomo delle sue paure. Aveva anche pensato di chiederlo lei il trasferimento per stargli più vicina e in effetti si era sentita in colpa nel pensarlo da solo nel piccolo appartamento che aveva affittato sulle pendici della collina appena fuori città, alle prese con le pulizie della casa, la spesa, insomma tutte quelle piccole incombenze quotidiane che, pur nella loro banalità, richiedono un minimo di esperienza, di organizzazione.
Ma lui l’abbracciava ridendo, la prendeva per mano, la coinvolgeva nella sua tenerezza e la tensione si scioglieva, come un ghiacciaio che diventa l’acqua cristallina di un ruscello nel suo allegro gorgoglio.
Poi aveva trovato quella fotografia tra le pagine di un libro che lei aveva regalato a Giacomo per Natale, forse dimenticata per trascuratezza, per indolenza, o forse lasciata lì volutamente con sottile perfidia, come per sondare la sua capacità di resistenza.
C’ era una ragazza giovanissima, distesa sulla sabbia senza reggiseno e con i capelli neri sparsi su un telo rosa, sembrava avere una ventina d’anni o poco più, poteva essere sua figlia.
Aveva smesso di respirare e, senza capire come ci fosse arrivata, si era ritrovata distesa sul divano del suo studio, scossa da brividi di freddo, mentre fuori era già buio.
Sentiva dentro di sé un dolore sordo, disperato.
Aveva avuto la sensazione che la sua vita fosse un infinito palcoscenico con le montagne di cartapesta, dove tutto era stato apparenza, inutile, vuota rappresentazione.
Solo menzogne.
Si era sentita umiliata, un vecchio utensile usurato, da sostituire con un pezzo di ricambio nuovo e lucente, ma soprattutto era stata privata di un sogno che l’ aveva fatta sentire leggera,  le aveva dato la forza di lottare, l’ aveva spinta a credere in se stessa cercando di essere migliore,  aveva alimentato l’entusiasmo per  fare progetti, dando un senso al suo bisogno di voler bene.
Il cartello verde dell’autostrada indicava dieci chilometri all’uscita, dopodiché avrebbe imboccato la strada che si arrampicava sulle prime colline a ridosso del mare, meno di un’ora e sarebbe arrivata.
Quella strada l’aveva percorsa tante volte proiettando nella bellezza mozzafiato del paesaggio la sua gioia interiore. Le rocce  fendevano taglienti la massa spumeggiante delle acque per raccogliersi all’improvviso ad incorniciare un cespuglio di case dai colori pastello tra il giallo delle mimose  o le minacciose punte delle agavi. Nemmeno il cielo plumbeo era mai riuscito a spengere la luminosità intensa di quegli scorci che ora invece le sembravano senza colore, come per un brusco, riduttivo passaggio da un acquerello ai contorni severi e decisi della china.
La sua prima reazione, quando aveva ripreso a pensare, era stata un rifiuto incredulo, un tentativo patetico di spiegare, di giustificare.
Ciò che meno riusciva ad accettare era la menzogna: la maschera e il volto.
Lei non aveva mai giocato con i sentimenti degli altri, anche quando sarebbe stato più facile eludere, più utile tacere. Aveva sempre considerato futili le schermaglie amorose, le strategie della seduzione, fin da ragazzina. Ricordava ancora la sua ironia, quando le sue compagne di scuola chiedevano consigli, scrivendo alle rubriche sentimentali delle riviste illustrate.
Ma un uomo che la capisse e condividesse i suoi pensieri, che le manifestasse stima e tenerezza, che parlasse con lei e l’ascoltasse, che l’abbracciasse quando si sentiva sola, che la facesse sentire importante per quello che era, aiutandola a dimenticare i suoi complessi, le sua paura di non farcela, questo l’aveva sempre sognato. Un sogno che si era  tenuto dentro, perché le sembrava irreale, impossibile per lei, come una fiaba, una fantasia infantile, di cui ci si vergogna quando si diventa adulti e si deve imparare a vivere,  a fare i conti con i problemi quotidiani, ad accettare le sconfitte.
Come tanti fotogrammi impazziti si proiettavano nella sua mente le immagini felici del passato per lasciare immediatamente il posto ad ombre indistinte che si contorcevano guizzanti prima di perdersi del tutto.
Si era ripromessa di prendere tempo, di aspettare.
Ma non ce l’aveva fatta, la notte rimaneva sveglia, schiacciata dei ricordi, dal senso devastante del vuoto.
Come quando ci si sveglia all’improvviso e si recupera con fatica l’orientamento, quasi che il sonno avesse sfumato, mescolandoli, i contorni degli oggetti, conducendoli a “parlare in segreto del segreto”, con gli stessi tratti convulsi di un’improvvisazione astratta di Kandinsky, dove gli oggetti reali, i ricordi concreti si trasformano in magiche composizioni di colori e forme, cominciò con lentezza a mettere a fuoco le immagini delle prime case del paese, il piccolo bar dell’angolo, il forno con l’insegna di legno intarsiato e, poi, in fondo alla strada, subito dopo la curva, la piazzetta, le panchine vuote, poche macchine disposte con ordine sul lato destro.
Posteggiò accanto alla macchina di Giacomo.
Riconobbe subito la fodera a rombi che copriva i sedili.
Non le era mai piaciuta e lo aveva preso in giro tante volte per quella mania di proteggere la tappezzeria delle poltrone, le sembrava una cosa da “poveri”.
Sul cruscotto c’era una sciarpa rossa con dei fiori neri stilizzati, identica a quella che Giacomo le aveva portato in regalo la settimana prima.
Ma la sua l’aveva avvolta intorno al collo.
Non c’era nessuno in giro, le persiane quasi tutte serrate e ovunque un silenzio nebbioso.
Per un attimo ebbe la sensazione di non essere mai stata lì, si sentiva estranea, sola, proiettata in una dimensione sconosciuta.
Le sembrò che tutto si muovesse intorno a lei, che i profili delle case si sciogliessero in linee curve alla ricerca di nuovi equilibri protendendosi sulle pietre levigate della pavimentazione.
Ma forse era solo un capogiro.
Non aveva dormito e aveva guidato molte ore, mentre un vortice di sensazioni, di ricordi, di paure le aveva dato l’impressione di muoversi in un tunnel cupo, monotono, un cerchio senza uscita dove andare avanti  era in realtà tornare indietro, e invece all’improvviso se ne era ritrovata fuori, esposta, e rimpiangeva il buio che in qualche modo l’aveva protetta, avvolgendola come per impedirle di vedere il presente.
Camminava con lentezza, quasi a fatica verso il piccolo cancello di ferro battuto che immetteva nel breve vialetto del giardino e all’improvviso capì di sapere da tanto tempo che cosa avrebbe visto, era come leggere una storia già nota di cui si conosce la conclusione, ma si sono perse, col tempo, le sfumature, i piccoli passaggi e la si rilegge per cercare qualche cosa che ci è sfuggito, per cogliere un significato nascosto, per fare emergere i personaggi dall’ombra del fondo scena e portarli finalmente sotto le luci dei riflettori impietosi.
Nessuna sorpresa, nessuna originalità, anche nello squallore del tradimento gli era mancata la fantasia e lei non voleva lasciarsi coinvolgere, da tutto questo voleva fuggire, allontanare da sé la mediocrità in cui l’uomo che amava sembrava sguazzare con cinica indifferenza.
La vista del mare, un’immensa massa grigia, gelatinosa che avvolgeva tutto con una coltre nebbiosa la riportò alla realtà: stava tornando indietro, anche se non riusciva a ricordare di essere risalita in macchina, di aver ridisceso i tornanti della collina.
Non aveva mai provato un dolore così sordo che sembrava invadere il suo corpo, lacerandole lo stomaco, offuscandole gli occhi come una macchia improvvisa.
Si rivide adolescente, sui banchi del liceo, quando il professore di italiano era solito ripetere che l’odio è un sentimento che solo gli animi grandi sanno provare.
E infatti lei sentiva dentro di sé un groviglio di sensazioni contrastanti, e rimpianto, delusione, nostalgia disperata, nausea, vergogna si susseguivano e si accavallavano in un vortice confuso, ma era incapace di odiare.
Ed era anche incapace di smettere di amare, anche se ormai non gli voleva più bene.

( Anna Maria Pantaloni) 

 

" Ti racconterò una storia che ti farà inorridire dallo sdegno! Ma stare accoccolati su una comoda poltrona ci permetterà di assorbire meglio, del resto anche i momenti esaltanti e cruciali possono essere traslati in una forma narrativa, in un racconto che permetta di dire ciò che sentiamo e proviamo........"

La Scatola Cinese

Il sentiero si arrampica sulla collina coperta di erica e di vento. Corre lungo il dirupo a strapiombo sul mare; un precipizio giallo avorio, sembra il prodotto di una immensa zappa che ha scarnificato la terra fino alle ossa.
In cima vedo il grande Bicon bianco, sentinella del limite della terra, pronta ad urlare ai marinai il pericolo dei denti di roccia in agguato sotto il pelo dell’acqua. Vicino a questo gigantesco covone fatto di pietra, quasi sull’orlo, sta la piccola casa del guardiano, la mia meta. Cerco di correre per raggiungerla in fretta, ma sono troppo stanco è da giorni che corro. No! È da un’intera vita che scappo, io sono la selvaggina. I ricordi di momenti di serenità o anche solo di tregua sono pochi e quasi cancellati, alterati dal tempo, non appartengono più alla mia vita. Come qualcosa che forse mi è stato raccontato in un ritrovo di reietti tra l’odore di birra rancida e di miseria.
Finalmente arrivo alla capanna col tetto di lastre d’ardesia, le piccole finestre sono sprangate con assi legate col filo di ferro, alla porta c’è un grosso lucchetto vecchio e coperto di ruggine. Mi guardo alle spalle cercando di vedere se arrivano, non c’è nessuno.
È solo questione di tempo, so che mi troveranno.
Mi hanno sempre trovato, ovunque mi fossi nascosto; e dopo avermi trovato mi hanno costretto a scappare di nuovo.
Io sono la selvaggina e loro i predatori; nella loro sportività mi hanno sempre lasciato una piccola via di fuga, sufficiente a far continuare il gioco. Un solo piccolo morso con il loro denti aguzzi, e poi si sono tirati indietro per farmi scappare. Solo qualche goccia di sangue intrisa di paura.
Trovo un sasso affilato e, con quello, colpisco l’anello che tiene il lucchetto, al terzo colpo legno ed anello cedono così riesco ad aprire ed entrare. L’interno è illuminato solo dai raggi di luce che provengono dalle fessure delle finestre mal chiuse e dal rosso del tramonto che entra dalla porta aperta.
Odore di vecchio e di mare.
Dal soffitto di travi pendono corde e rampini, alcuni vecchi remi sono poggiati ad un angolo uno è rotto. Una piccola stufa di ghisa e, vicino, una cesta quasi piena di mattoni di torba; sulla stufa un bollitore di ferro smaltato dipinto di un azzurro che trovo stranamente ridicolo e fuori luogo. Vedo uno scafale con alcune scatole di latta ed un lume a petrolio; lo prendo e lo scuoto, sento lo sciacquettare dentro il serbatoio. Mi frugo le tasche in cerca dell’accendino, lo trovo ed lo accosto allo stoppino; dopo alcuni tentativi riesco ad accendere la lampada, abbasso il vetro e la poggio su un tavolo che sta al centro della stanza.
Ritorno alla porta e guardo ancora una volta il sentiero che corre lungo la scogliera, è deserto. Chiudo la porta usando alcune assi per bloccarla e mi volto verso il tavolo. Solo allora scorgo un piccolo libro con la copertina scura e le pagine arricciate, lo prendo in mano sfogliandolo delicatamente. È un quaderno, la prima parte è scritta a mano con una grafia elegante e composta il resto è solo fogli bianchi macchiati di giallo. Lo poggio e vado a cercare un po’ d’acqua; c’è un rubinetto sopra un lavandino striato di sporco, quando lo apro esce un filo di liquido marron, ma dopo si schiarisce fino a diventare quasi pulito. Prendo il bollitore lo sciacquo e lo riempio lentamente, poi vado alla stufa e riesco ad accenderla con un dignitoso numero di tentativi. Poggio il bollitore sui cerchi di ghisa che si stanno scaldando e vado a curiosare tra i barattoli; da uno vengono fuori degli scarafaggi mummificati, nell’ultimo trovo qualcosa che potrebbe essere del te. Lo verso tutto nel bollitore. Cerco un bicchiere o una tazza, riesco a trovare un boccale di peltro quasi pulito, ci soffio dentro per levare la polvere e lo poggio sul tavolo vicino al quaderno.
Non so perché tutte queste azioni mi diano un senso di tranquilla soddisfazione. Mi congratulo con me stesso – bravo bambino. Vedi che ci riesci quando vuoi! – piccoli gesti che mi fanno sentire autosufficiente e mi fanno assaporare una libertà dimenticata. Guardo le mie mani compierli con stupore, esse riescono ancora a ricordare e a muoversi senza il tremore della paura.
Mi accorgo che è già cominciata la notte e, come in tutti i miei mille anni passati, sento il sollievo di essere sopravvissuto alla giornata, loro non cacciano la notte. La notte è l’unica mia proprietà, l’unico bagaglio che sia riuscito a portarmi dietro strappandolo ai loro artigli. Sento freddo, la gamba destra e la faccia mi bruciano ricordandomi quella volta in cui i predatori avevano affondato i loro denti con più violenza del solito; anche quella volta ero riuscito a scappare, ma le cicatrici non si sono più rimarginate.
Prendo dal tavolo la lampada e il libro e accosto una sedia alla stufa. Verso il te nel boccale e per un attimo lo tengo con tutte e due le mani per scaldarmele. Il vento è cresciuto di intensità, lo sento strisciare intorno alla casa, fischia e si lamenta come un cucciolo lasciato fuori di casa. Mi piace essere avvolto dal vento, amo quel senso di isolamento che da. Guardo le vecchie pareti e mi affido a loro con un sorriso.
Prendo il quaderno e lo guardo con attenzione, la copertina è di sottile cartone nero quasi lucido come quelli che io usavo a scuola. Lo apro e comincio a leggere.
L’erba rossa veniva mossa incessantemente dal vento tiepido; sotto le folate discontinue mutava il colore dal rosso cupo al viola chiaro in lunghe righe curve che guizzavano da una parte all’altra della valle chiusa tra alte montagne di basalto nero. Le linee create sembravano il guizzare di vene sotto la pelle semitrasparente di una immensa medusa. Il cielo era di colore giallo sabbia solcato da strisce ocra.
Non c’erano uccelli che volavano, né animali che correvano o strisciavano.
Come una balena finita su una spiaggia desolata e battuta dalle gelide maree del nord, questo mondo stava morendo lentamente.
L’enorme astronave era acquattata in una conca, il suo arrivo aveva bruciato la vegetazione formando un cerchio perfetto di cui lei era il centro. Le fiancate erano graffiate, corrose in più punti; l’intera macchina sembrava vomitata dall’inferno. Sul muso tozzo si leggeva con difficoltà il nome – Anubi -. Sulla cenere si vedeva una fila di impronte che, partendo dal grande portello divelto, andava ad addentrarsi nell’erba formando un sentiero di poltiglia rosso sangue.
Il sentiero saliva per la piccola collina che sovrastava la valletta dove era atterrata la nave.
In cima c’era la casa.
Bassa ed estesa, tutta bianca. Sembrava fatta di preziosi merletti; sottili colonne metalliche reggevano, con delicati archi ad ogiva, un porticato che girava attorno alla costruzione. Le finestre, anch’esse ad ogiva, avevano vetrate composte da tessere di varie tonalità blu.
Davanti alla porta aperta, da cui usciva una luce gialla, attorno ad un tavolo di cristallo azzurro, stavano quattro figure.
Tre esseri umani e una macchina.
Gli esseri umani erano seduti su eleganti poltrone di vimini intrecciato e parlavano a voce bassa con lo sguardo perso nel vuoto.
Un prete, magro, col volto scavato, le labbra sottili ed esangui e le mani lunghe ed ossute che continuava a chiudere ed aprire quasi volesse aiutare le parole ad uscire.
Un uomo politico, la faccia larga ed arrogante, le guance leggermente cascanti e gli occhi segnati da profonde occhiaie scure, le sue mani larghe erano distese sui braccioli della poltrona, la sua voce era profonda, calda e addestrata a sedurre e convincere.
Un astronauta, piccolo, col volto da bambino, i capelli neri e disordinati, la voce secca e chiara, le mani delicate da pianista ed i pensieri limpidi come i suoi occhi.
Poi c’era la macchina.
Un androide con sembianze di donna bellissima, il suo volto era un ovale perfetto, il naso piccolo ed immensi occhi completamente neri, senza iride. Vestiva un lungo abito bianco di seta col collo alto, le mani lunghe e sottili erano intrecciate sotto il seno appena accennato e la testa era leggermente inclinata sulla spalla destra, i suoi capelli erano lunghi fili di seta bianchissima. Serviva con devozione e, forse, amore gli uomini; era in piedi vicino alla porta. Durante il volo folle, che l’aveva portata su quel pianeta, i suoi circuiti vocali si erano rotti; non poteva parlare, ma poteva cantare con una voce che raccoglieva tutta l’armonia di una grande orchestra. Quando cantava anche il vento smetteva di correre per ascoltarla.
-         Abbiamo attraversato mezza galassia per venire ad arenarci su questo assurdo pezzo di roccia – chi parlava era l’uomo politico; il suo tono, pur mantenendo un ricordo della passata autorità, era spento e privo di forza.
-         È già una fortuna che la nave ci abbia portato fin qui, non credo che nessuno sia mai riuscito a fare di più in passato. Non dimenticate con quanta fretta siamo partiti dalla Terra! – rispose l’astronauta.
-         La Terra! Ormai non esiste più e non esistono più neppure tutti gli altri pianeti del Sistema Solare. La nube nera sta ingoiando tutta la nostra galassia. Presto raggiungerà anche questo sole ed il suo piccolo sistema- aggiunse il prete.
-         Presto? Vorrei ricordarvi – intervenne l’astronauta – che noi non riusciremo a vedere la fine di tutto questo. Nell’ultimo balzo siamo penetrati in una nube radioattiva che ha danneggiato i motori ed avvelenato irrimediabilmente il nostro sangue. Siamo condannati, anche se devo dire che in tutto ciò c’è un aspetto assurdo. Siamo stati gli unici, forse, a scampare alla fine del nostro pianeta e siamo andati ad infilarci dritti nella bocca della morte –
-         Forse non avevamo il diritto di fuggire. Credo che questa sia la giusta punizione per esserci opposti alla Volontà Divina –
-         La prego, Padre, non mi sembra il momento di subire il suo sermone sull’Apocalisse. Ci siamo trovati per caso vicino all’astronave pronta per la partenza e non vedo per quale motivo mi debba pentire di esserci salito sopra. Mi dica! Chi avrei dovuto privilegiare, dei miliardi di abitanti della Terra, secondo lei. Io sono sempre stato abituato a prendere al volo le occasioni senza guardare in faccia nessuno – per un attimo la voce dell’uomo politico aveva ripreso l’arroganza del passato –
L’astronauta alzò stancamente una mano per fermare quella discussione.
-         Signori mi pare assurdo recriminare su ciò che è successo ormai molti mesi fa e non credo che sia rimasto più nessuno in grado di rimproverarci per la nostra fuga. Ci rimane pochissimo da vivere, credo non più di pochi giorni, cerchiamo di usare questo tempo in modo degno di noi esseri umani. Onoriamo la poca vita che ci è concessa e il ricordo di un’umanità che non esiste più –
-         Sono d’accordo con lei – disse il prete – e avrei un suggerimento! Proporrei di raccontare, a turno, ciò che di buono o di bello o di importante riteniamo di aver fatto nel nostro passato. Se siete d’accordo posso cominciare io-
-         Credo che sia un’idea buona come un’altra per passare il tempo; almeno non costa troppa fatica sento una stanchezza spaventosa in tutto il corpo. Va bene padre! Cominci pure, io sarò il secondo –
-         E io il terzo – aggiunse l’astronauta.
1° Giorno
-         Non sono diventato prete per vocazione – cominciò l’ecclesiastico – l’ho fatto perché la chiesa mi dava un’opportunità di uscire dalla miseria del mio ambiente natale. Era solo un mezzo e come tale l’ho considerato per molti anni; la mancanza di vocazione era compensata dal desiderio di emergere e da una profonda ambizione. Mentre i miei compagni di seminario pregavano e studiavano per avvicinarsi a Dio, io studiavo il modo migliore per salire rapidamente la scala gerarchica. Mentre loro andavano ai voti col cuore pieno di amore, io li prendevo con la mente piena di freddi calcoli sul mio futuro. E, naturalmente, la mia ascesa cominciò presto e rapidamente. In breve tempo divenni segretario particolare del Vescovo, poi del Cardinale e infine venni chiamato in Vaticano per assolvere ad compiti sempre più delicati ed importanti. Divenni depositario di segreti che usai sempre a mio vantaggio; imparai ad ottenere la fiducia della gente per poi rivolgerla contro chi me l’aveva concessa. Che Dio mi perdoni! Tutto andava secondo i miei piani fino ad un certo giorno. Ero in Brasile come legato per discutere le modalità di una missione pontificia in quel paese. Stavo tornado alla foresteria del vescovado della capitale, quando davanti alla macchina si parò un bambino. Era inseguito da alcuni poliziotti. Si buttò contro il finestrino della mia auto e cominciò a picchiare con i suoi piccoli pugni contro il vetro, chiedendomi di aiutarlo. Urlava e piangeva. Io ero inorridito, il primo pensiero che mi venne in mente era che non dovevo assolutamente farmi coinvolgere da problemi di amministrazione locale. Dissi all’autista di muoversi, di accelerare. Il bambino si aggrappò alla portiera continuando a gridare e mi guardava. Mi guardava fisso negli occhi, dentro. Dentro! Poi la macchina accelerò troppo per lui e cadde. Mi voltai a guardare dal finestrino posteriore e l’ultima cosa che vidi furono i poliziotti che gli stavano addosso e lo picchiavano con i manganelli. La notte mi venne un terribile dolore al petto, mi sentivo soffocare; chiamai aiuto ma nessuno mi rispose, così mi alzai e, a fatica, raggiunsi la cappella. Caddi in ginocchio e per la prima volta in vita mia pregai. Sentivo su di me gli occhi di quel bambino e pregavo con tutto il mio essere. Il dolore lentamente sparì, la mattina mi trovarono addormentato sul pavimento davanti all’altare.
Il respiro del prete si fece più rapido; a tratti, tra un respiro e l’altro, compariva un rantolo sempre più profondo.
-         Chiesi ed ottenni di servire in una parrocchia di periferia di una grande città. –
-         Ecco io…… – ci fu una lunga pausa, poi quasi in un sussurro.
-         Si! Io ho conosciuto l’amore di Dio –
2° Giorno
-         Odiavo la mia famiglia, ma in particolare odiavo mio padre – nonostante il pallore mortale, l’uomo parlava con voce sicura e un piccolo sorriso ironico gli si formava sulla bocca. Più che una confessione sembrava che stesse sostenendo un dibattito con un avversario politico.
-         Era un piccolo impiegato, sapete, uno di quelli che vivono solo delle opinioni altrui. Un servo nato servo; per lui, il subire, era una vocazione. Già dal portamento faceva capire quanto fosse insulso. Ricordo che era solito dirmi – figlio mio! Il mondo è come un quadro, c’è la tela con i colori che tutti guardano e c’è la cornice che ha il compito di esaltare il soggetto dipinto. Noi siamo la cornice e dobbiamo essere orgogliosi del compito che ci è stato assegnato! – Signore quanto lo disprezzavo! Ma fu proprio questo disprezzo a spingermi a lottare per essere il dipinto. Essere il protagonista. Nessun mezzo, per abietto che fosse, era scartato da me per raggiungere la cima delle piramide. Ho truffato e tradito, sono stato uno zelante delatore, pronto a denunciare chi mi ostacolava. Se il mio nemico non aveva vizi o peccati a cui potessi afferrarmi per farlo cadere, li costruivo. Ho fatto leva sulla stupida ed insulsa credulità popolare per salire i gradini della vita. E, con piacere, ho camminato sulle teste di quelli che mi avevano eletto loro rappresentante. Ingannare gli uomini e le donne mi ha sempre dato un piacere profondo; la gente non è che un giocattolo nelle mie mani, ama essere ingannata, ha bisogno di credere nelle menzogne che noi politici elargiamo a piene mani. Sono stato un conservatore ed un radicale, sono stato un pacifista, ma ho favorito contratti di potenti industrie della guerra che hanno causato milioni di morti. –
L’uomo politico parlava tenendo gli occhi chiusi ed i pugni serrati, gocce di sudore colavano sulla sua faccia sempre più flaccida.
-         Ho usato l’estremismo ed il razzismo per creare il caos e le sommosse di piazza, poi l’ho condannato pubblicamente piangendo le morti nei campi di concentramento. Si! Io ho conosciuto il potere assoluto, ho avuto il mondo ai miei piedi –
L’uomo politico spalancò gli occhi e guardò davanti a se qualcosa che poteva vedere solo lui, nel suo sguardo c’era un terrore profondo.
-         Ma nonostante tutto io continuo a vedere davanti a me mio padre, è lì che mi guarda e non dice nulla. Sta  in silenzio e mi fa cenno di raggiungerlo! –
3° Giorno
L’astronauta era seduto da solo sotto il porticato di merletto bianco; l’androide con sembianze di donna bellissima era vicina a lui. Sullo spiazzo davanti alla casa, vicino all’erba colore del sangue, c’erano due tumuli di terra nera.
Era solo ormai ma decise che era giusto dare il suo contributo affinché qualche piccola particella di umanità continuasse a correre col vento. La stanchezza lo stava conquistando centimetro per centimetro e faceva fatica a raccogliere i pensieri.
-         La mia patria stava tra grandi praterie dove l’erba era verdissima e in primavera tutto era pieno dei colori di mille fiori, milioni di fiori. Mi ricordo il calore della mia famiglia; le sere, raccolti intorno al camino, mio padre raccontava di terre lontane. Mi ricordo delle acque fresche del grande fiume che attraversava la pianura e delle corse che facevo assieme ai miei amici per tuffarmi. Mi ricordo della gioia selvaggia che provai la prima volta che volai da solo su caccia ultrasonico, mi sembra di sentire ancora il rombo dei motori che mi spingono contro il cielo e la sua furia di fuoco quando si avventava negli inseguimenti. Mi ricordo di un paio di grandi occhi innamorati che mi guardavano e di una pelle profumata sotto le mie mani. Si! Io ho conosciuto l’affetto e l’amicizia. Ho conosciuto…..  ho conosciuto l’amore e poi ho conosciuto… –
La sua mente si stava allontanando, non riusciva più a scacciare la nebbia che lo avvolgeva; ma doveva ricordare un’ultima cosa. Era importante, ne era sicuro. Cosa aveva fatto? Che cosa aveva dominato la sua vita?
-         Si! Adesso ricordo! Ricordo! Io …io ho visto le stelle! –
Infiniti Giorni.
L’erba rossa copriva lo scheletro arrugginito di una nave spaziale. Sulla collina una casa tutta bianca fatta di delicati merletti. Davanti all’ingresso un androide con le sembianze di donna bellissima cantava. La sua voce correva sulla pianura, per tutta la valle e rimbalzava sulle immense montagne di basalto nero per innalzarsi verso lo spazio.
Chiudo con cura il quaderno, non mi chiedo come quello strano diario sia potuto arrivare su quel tavolo mangiato dai tarli, in quella casupola sull’orlo del nulla. Non ha importanza ormai. Vedo un debole raggio di luce grigiastra che entra da una fessura della porta e avanza strisciando verso il mio piede.
È l’alba. Loro saranno qui presto.
Amano arrivare quando la luce del sole risveglia l’incubo della nuova giornata e lo stomaco ha la sua prima contrazione di terrore.
Io sono la loro selvaggina preferita, per anni si sono cibati della mia angoscia. Mi amano per questo, mi avvolgono col loro viscido sentimento per prolungare il più possibile la mia agonia.
Spengo con cura la lampada e vado a riporla sullo scafale.
Con il filo d’acqua mi lavo la faccia e mi bagno i capelli pettinandomeli con le dita. Mi spolvero e  aggiusto come posso i vestiti stracciati, poi apro lentamente la porta e aspiro l’aria fredda della mattina.
Mi fermo lì a guardare il sentiero che corre lungo lo strapiombo, fra poco li vedrò comparire.
Sto fermo lì.
Non voglio più scappare. La selvaggina ha deciso di guardare negli occhi i predatori.

 (Massimo Carubelli)

"Mi hai detto che non ti posso mentire.
Nemmeno tu.
Non serve una scatola cinese, una specie di matrioska, dove ogni immagine ne nasconde un’altra, non serve per criptare i pensieri, tanto so perfettamente che cosa hai voluto dire e, se avessi la forza per scrollarmi di dosso questo torpore, e, se almeno una volta trovassi il coraggio di essere me stessa, ti lascerei a bocca aperta.
Non riesco a non essere presente, anche quando sembro distratta, lontana, è la mia condanna.
So leggere nell'animo delle persone, da sempre, ma, se quello che vedo mi fa soffrire, allora non guardo".

 "Vieni ad aiutarmi, piccola
Vieni adesso
Aiutami piccola
Ero cieco
Qui l'erba cresce lunga e alta
Si intreccia su fino al cielo
Nubi bianche corrono via
Vieni ad aiutarmi piccola
Ero cieco
Ero sciocco, piccola
Ero cieco
Vieni adesso
L'altra notte un vento sfrenato ha buttato giù
Alberi neri piegati fino a terra
I loro fiori hanno fatto un tale rumore
Che non riuscivo a sentirmi pensare, piccola
Vieni adesso
E aiutami, piccola
Aiutami adesso
Ero cieco
Ero sciocco"

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