RACCONTI FANTASTICI 

 

" L'incubo dentro il sogno "

 

" Grandi crepe compaiono sul marciapiede, la terra sbadiglia
annoiata e disgustata, per soggiogarci.
"

LA STANZA
(questo racconto l' ho scritto per Massimo Carubelli  qualche tempo fa e, come il quadro il cui titolo originario era " Il sogno dentro il sogno", mi sembra possa  esprimere il senso devastante della paura)

Ormai non so più quanti giorni sono passati da quando mi hanno presa.
Non riesco a ricordare con chiarezza nemmeno come è avvenuto.
Mi ero svegliata presto, come sempre, e, dopo aver acceso la macchina del caffè, avevo preparato la ciotola per Ida, la gatta nera che ancora dormiva appollaiata sullo scaffale più alto della libreria: istintiva forma di difesa, ereditata forse con il dna di lontani antenati selvaggi, dato che lei era nata nel giardino di casa e da subito si era introdotta con prepotenza all’interno dell’appartamento.
Alzando la serranda del soggiorno avevo visto la pioggia ed ero andata a cercare l’ombrello che, per non dimenticarlo, avevo deposto accanto alla valigia rossa già  pronta accanto alla porta dell’ingresso.
È evidente che dovevo partire, ma per quanto abbia più volte richiamato alla mente l’immagine del troller accuratamente chiuso con il piccolo lucchetto colorato e pronto per essere afferrato uscendo da casa, non posso ricordare per dove.
Riesco invece a vedermi ancora  seduta al tavolo della cucina davanti alla grossa tazza piena di liquido fumante.
Gli amici mi prendono  in giro per quel “beverone” dal colore indefinito, ma a me  piace il sapore un po’ dolciastro del caffè colato attraverso il filtro di carta  e poi dura a lungo e questo mi permette di riepilogare gli impegni di lavoro prima di tuffarmi quasi di corsa per le scale.
Ero scesa per prendere la macchina, avevo richiuso la porta basculante del garage ed imboccato la rampa che immette sulla strada.
Data l’ora  il traffico era scarso. Nel lungo viale che porta verso il centro rivedo le macchie gialle degli alberi di mimosa, colori intensi che sembravano forzare il grigiore di quella giornata come fari tra la nebbia.
Doveva essere febbraio, perché ormai quel fiore, scelto come simbolo dell’otto marzo, anticipava i tempi, mutamenti climatici, o forse dispettosa ribellione ad una celebrazione divenuta vuoto rituale da fiera di paese.
Il piazzale della stazione era quasi vuoto e avevo posteggiato senza difficoltà.
Mi ero chinata per prendere la valigia appoggiata sul sedile posteriore e da quel momento era iniziato il vuoto, il nulla, tutto cancellato, avviluppato in una sorta di cortina fumosa che non sono più riuscita a rimuovere.
Poi questa stanza. Tutta bianca, il pavimento che ricorda quello di  un ospedale, le pareti, il soffitto molto alto.
Una libreria a giorno occupa un’intera parete. È di legno, bianca anche questa con le mensole piene di volumi ben ordinati, nuovi, nessuno li ha mai letti.
Anche il tavolo è bianco, lungo, di legno laccato, lucidissimo. Sopra c’è una piccola lampada alogena con un braccio che proietta la luce sul piano per scrivere o leggere.
All’inizio mi sono sforzata di concentrarmi su qualche libro, ho provato a scrivere, per riordinare le idee, per analizzare i miei pensieri e tenere una specie di diario che mi aiutasse a mantenermi vigile, a non perdere i contati con i frammenti di ricordi che ancora riuscivo a conservare. Poi la mente ha iniziato ad appannarsi mentre un senso di spossatezza sempre più opprimente rallentava anche i miei movimenti.
Sulla parete di fronte un arco immette in un piccolo andito dove si apre la porta del bagno.
Anche questo è bianco: i sanitari, le mattonelle, non c’è nessuno specchio sopra il lavandino.
Non ci sono finestre, solo un aeratore a ventola in un angolo in alto.
Nella stanza invece, quasi all’altezza del soffitto, un’apertura lunga e stretta percorre tutta la parete sopra il letto.
È protetta da una grata di ferro e da un vetro che rimane sempre chiuso.
Dalla porta di fronte alla libreria entrano Loro.
Non è chiusa a chiave, ma dall’interno non si apre, non ci sono maniglie, è completamente liscia.
La donna più anziana è piuttosto piccola e grassa, ha le mani deformate dall’artrite, ma è pulita, ha i capelli corti in ordine.
Mi porta il vassoio con il pranzo.
È un grande vassoio, rettangolare, di plastica, con dei grossi papaveri rossi stampati. Sopra i piatti  in plexiglas sono di un azzurro molto intenso, come l’impugnatura delle piccole posate, dalla forma insolita, molto stilizzata, molto moderna.
Posto sul tavolo bianchissimo crea una forte macchia di colore che mi affascina.
La donna rimane in piedi, incerta ed ha un impercettibile tremito nelle mani.
Mi parla con cortesia, mi invita a mangiare, si sforza di essere gentile raccontandomi come ha cucinato, gli ingredienti usati, ma intuisco che non si fida di me, mi osserva come aspettando una mossa improvvisa, un gesto di ribellione.
Invece io sono stanca, sto distesa sul letto, non dormo, ma ho gli occhi chiusi, non ho voglia di mangiare, non mi interessa leggere, non faccio niente e così lentamente smarrisco il senso del tempo, i giorni si perdono, uno dopo l’altro.
All’inizio, ho chiesto aiuto, ho pianto, la mia mente ha costruito le più strane ipotesi per capire che cosa era successo, ho urlato, sono stata vigile come un animale braccato per captare un rumore, una voce, un segnale che potesse spiegare.
Ma non giungono suoni, niente che possa associare a qualche cosa di conosciuto, nessuna voce umana, non il rumore di una macchina, o il quotidiano schiamazzo di una strada, di una bottega.
Solo qualche notte ho avuto la sensazione, ma non ne sono sicura, di un  vago, lontano gorgoglio d’acqua, come di un ruscello, forse di una piccola cascata.
La casa è sicuramente isolata, su un colle probabilmente, perché qualche volta ho sentito il vento fortissimo avvolgere i muri e il rumore di foglie scompigliate, però nessun verso di animale, non l’abbaiare di un cane, o il cinguettio di qualche uccello, solo, a momenti, quell’impercettibile, dolce mormorio dell’acqua.
Nel silenzio mi sorprendo tesa a cercarlo, mi tiene compagnia con le immagini di una campagna aperta che si dilata in uno spazio immenso, mentre sull’erba folta che attutisce i miei passi corro verso qualche cosa o qualcuno che ancora non riesco a vedere.
Ho cercato di avere una spiegazione da Loro, all’inizio ci ho provato, più volte.
Hanno sempre finto di non sentire, nessuna reazione, né la vecchia, né i due uomini, né la ragazza  che si alternano nel portarmi il cibo. Quello più anziano è sgarbato, si irrita subito, è impacciato nei movimenti e ogni volta rischia di far cadere il vassoio con i piatti e il bicchiere,  l’altro avrà circa quarant’anni e uno strano odore addosso.
Non mi piace questo odore, è la sua pelle ad emanarlo e non credo che dipenda da una scarsa pulizia.
Penso alla mia gatta Ida.
Riconosce le persone annusandole e se arriva un estraneo istintivamente gonfia il pelo del corpo e della coda pronta ad aggredire.
Vorrei fare la stessa cosa, vorrei che non entrasse più nella stanza perché quel tanfo disgustoso rimane sospeso nell’aria a lungo e mi sento avvolta in un vortice di nausea.
La ragazza viene raramente, è bionda, molto alta e mi mette a disagio.
Sembra distratta, ha lo sguardo perso, privo di intelligenza e si muove dondolando la testa, come se seguisse il ritmo di un auricolare. Ma non c’è nessun auricolare alle sue orecchie, forse è solo il suo modo di camminare o forse segue inconsciamente un suono rimasto nella sua mente.
Non si sforza nemmeno di parlarmi.
Non mi alzo più dal letto, rimango distesa a fissare il soffitto, la mia pelle sta diventando giallastra, faccio fatica a muovermi, ho anche smesso di farmi domande, non ho più la lucidità per pensare.
Da qualche giorno rifiuto il cibo, non ho fame, non riesco a masticare.
La vecchia ora rimane più a lungo, forse rassicurata dalla mia debolezza si siede vicino al letto, mi racconta delle strane storie che non mi interessa ascoltare, mi guarda sorridendo, sembra quasi compiaciuta di dedicarmi il suo tempo.
Ma io aspetto la notte.
Allora non viene nessuno, non devo nemmeno sforzarmi di guardare, mi abbandono completamente al nulla della mia inerzia.
Non percepisco più il mio corpo, posso vagare completamente smaterializzata, mi sollevo e mi muovo con il flusso di un’onda che si allunga stancamente sulla battigia, un lento calore mi avvolge mentre mi diffondo nell’aria senza peso.
Stanotte sono agitata, stranamente vigile, come in attesa di un evento.
All’improvviso un rumore, un sibilo prolungato, sento una contrazione allo stomaco, una fitta acuta alla testa come per una ferita con qualche cosa di acuminato, di tagliente.
Cerco di sollevarmi, mi passo una mano sulla faccia e la ritraggo bagnata : sto sudando e ho il respiro accelerato, lentamente apro gli occhi e nella penombra emergono i mobili della mia camera, l’armadio di legno chiaro, il canterano con la ribaltina aperta ingombra del mio disordine di sempre, il comodino con la grossa lampada di seta celeste, i libri accumulati uno sull’altro  e la sveglia che sta suonando sempre più forte.
Chiudo ancora gli occhi, poi torno ad aprirli incredula, ho bisogno di guardare intorno, di rassicurarmi con le immagini note.
Mi sento stordita, sono agitata come se avessi corso ansimando, non mi decido ad alzarmi, rimango ancora seduta sulla sponda del letto con i piedi sospesi, mentre con lo sguardo cerco le ciabatte che, come al solito, saranno fine sotto qualche mobile.
Lentamente assaporo la rassicurante sensazione di essere a casa, accendo la luce e afferrando la vestaglia dalla poltrona mi dirigo verso la cucina per accendere la macchina del caffè.
Entro nella stanza dove tengo un armadio con la biancheria per prendere gli asciugamani puliti, ordinati uno sull’altro e mi piace affondarci la faccia per respirarne il profumo morbido.
Ripensando all’incubo che mi ha angosciato durante il sonno  mi viene da sorridere immaginando i significati reconditi che qualche psicologo vi potrebbe scoprire, ma all’improvviso mi blocco, paralizzata:
sul divano letto accostato al muro c’è il mio troller rosso aperto e ancora da svuotare.
Mi avvicino con le gambe divenute pesanti, come pietrificate, sposto un reggiseno di pizzo nero in bilico sul bordo della valigia e sotto, in un sacchetto di plastica trasparente, vedo apparire le piccole posate dalla forma stilizzata con l’impugnatura di plexiglas azzurro.

Settembre 2001

MARA "

"  Una rosa, anche se non si chiamasse rosa, profumerebbe come una rosa "

 

LA CHIAVE

Mi avrebbe lasciato la chiave di casa perché le annaffiassi i fiori, tanto io sarei rimasta in città, e poi non sarebbe stato un impegno pressante, bastava farlo ogni due o tre giorni.
Non mi aspettavo questa richiesta, e, mentre stavo lì incerta, a cercare una risposta che giustificasse un rifiuto, Mara mi stava già porgendo la chiave.
Avrei potuto dire che abitavo molto lontano, che avevo deciso di andare da qualche parte all’ultimo momento, ma la verità era che mi metteva a disagio l’idea di entrare nell’appartamento di una persona che conoscevo appena, mi sembrava una responsabilità troppo grossa, quasi una profanazione.
Mara abitava sopra Tele-GRM, una televisione privata alla cui gestione collaboravo a tempo perso con altri volontari entusiasti e non pagati.
I nostri “studi” erano tutti in un appartamento di quattro stanze che uno dei soci-fondatori aveva messo a disposizione in un vecchio palazzo del centro.
Ci eravamo dati un gran da fare per ridare vita a quei muri dai colori spenti che tradivano gli anni e la solitudine.
Non c’è niente di più desolato di una vecchia casa disabitata.
Non ci sono odori, solo tanfo di muffa, di polvere, di abbandono, le tinte delle pareti impallidiscono come la pelle di un malato confinato nel letto e che, giorno dopo giorno, perde di tono, perché manca l’aria, il calore. Rimangono i segni dei quadri che sono stati rimossi, la ruggine nel lavello sbiadito di un acquaio, le striature di un mobile pesante sul pavimento, tracce troppo esili e lontane per recuperare anche piccoli frammenti di vita.
A pensarci bene è così per tutti gli oggetti che smettiamo di usare: una borsa svuotata del suo contenuto e che si affloscia come un burattino dai fili spezzati, un paio di scarpe dimenticate in fondo ad un armadio.
Anche per le persone è così.
I muri, che avevamo tinteggiato di bianco, con le intense macchie di colore dei poster e delle fotografie, avevano ripreso a respirare nelle stanze che risuonavano di voci, di musiche, di progetti.
La nostra era una televisione sperimentale o meglio “artigianale”, basata su tanta buona volontà, pochi soldi e scarsissima tecnologia.
Solo Paola, segretaria, ma anche fotografo e speaker all’occorrenza, e Massimo, cameramen ed elettricista, erano stati regolarmente assunti e venivano retribuiti, tutti gli altri “offrivano” gratuitamente il loro tempo libero e le loro competenze “professionali”.
A me spettava il compito di mettere insieme le notizie fornite dalle redazioni dei quotidiani locali per il tg della sera ed il sabato avevo anche il compito di leggerlo.
Tele-GRM era  un punto di riferimento, un’occasione per incontrarci, per discutere, per fare amicizia e ci divertivamo da matti nel commentare gli articoli di cronaca, veri e propri pettegolezzi di quartiere, opera di qualche cronista con lacune sintattiche.
“La provincia addormentata” si poteva definire l’ambiente in cui vivevamo, e ancora faceva scalpore un ciclista investito, uno scippo, l’intervento dei pompieri per permettere di rientrare in casa a chi, per distrazione, era rimasto chiuso fuori.
Non facevo neppure più caso al vecchio atrio poco illuminato, ai gradini consumati dagli anni che portavano alla nostra “oasi” rumorosa e colorata.
Mara l’avevo incontrata per le scale, la prima volta un saluto meccanico, un gesto di cortesia, guardando senza vedere, poi qualche parola, il tempo, lo stress, preambolo a qualche passeggiata o anche solo ad un tratto di strada da fare insieme quando uscivo da Tele-GRM.
Sembrava che mi aspettasse.
I vecchi palazzi in stato di semiabbandono si assomigliano tutti e questo sembrava la fotocopia di quello in cui avevo abitato a Firenze quando frequentavo l’università.
Palazzi con un passato illustre offerti a un’utenza senza pretese in attesa di essere restaurati.
Ricordavo ancora la paura che mi metteva la penombra quando si richiudeva l’imponente e pesantissimo portone e la foga con cui salivo le vecchie scale mal illuminate, quasi sfuggendo alle insidie di un agguato, specialmente se avevo visto un film noir o se rientravo tardi  e l’aria tetra dell’interno era più cupa di quella della notte.
Mara era scolorita, come il palazzo in cui viveva.
Omologata al basso.
Ordinata nel vestire, ma senza fantasia, abiti dai colori opachi e dalle forme antiquate, quasi portasse una specie di divisa a cui non fosse concesso aggiungere niente di personale.
Capelli di media lunghezza le ricadevano lungo il viso, ordinati anche quelli, troppo ordinati, come messi in fila da un comandante pignolo a cui non sfuggiva nemmeno un centimetro di troppo fuori delle righe.
Unico vezzo, un piccolissimo cerchietto d’oro giallo all’anulare sinistro.
Mentre rigiravo tra le mani la chiave che mi aveva lasciato, mi rendevo conto che non mi aveva mai detto  niente di preciso su di sé.
Abitava lì da pochi mesi  e lavorava all’archivio.
Ma quale? L’archivio ce l’ hanno le scuole, le associazioni, gli uffici e poi che si fa in un archivio?
Di sicuro viveva sola e in città non aveva amici, altrimenti non avrebbe chiesto il mio aiuto, ma da dove veniva, aveva parenti, era innamorata, partiva da sola, dove andava, da chi?
Se cercavo di ricostruire i nostri frequenti e casuali incontri mi veniva in mente che avevamo parlato di cucina, di ricette a base di pesce, di giardinaggio, di tasse, di bollette da pagare, sempre più care, quelle della nettezza urbana, del telefono, del gas, insomma di niente, tanto per non restare in silenzio, imitazione di un dialogo.
Misi la chiave nella borsa e scrollai le spalle, mi sembravano assurdi tutti i ripensamenti in cui mi stavo perdendo, si trattava di fare un favore che avrebbe richiesto pochi minuti e nessuna fatica.
Salii le scale imponendomi una determinazione che in realtà non avevo.
Sul tetto del palazzo c’era un grande lucernario e, nonostante le incrostazioni e la polvere sui vetri,il pianerottolo davanti all’appartamento di Mara era molto luminoso, in netto contrasto con la penombra dei piani sottostanti.
Sul pavimento dell’ingresso un tappeto scuro copriva le vecchie piastrelle consumate, appoggiato al muro un piccolo tavolo di legno con alcuni libri, alle pareti qualche stampa con i fiori e, in un angolo un attaccapanni di ferro battuto.
Seguendo le istruzioni, entrai nel soggiorno per accedere alla terrazza dove avrei trovato le piante da annaffiare.
Il vecchio divano di pelle con grande centro ricamato sulla spalliera, la vetrina con le tazzine e i piatti pazientemente ordinati, le tendine lavorate ad uncinetto facevano pensare ad una persona anziana, metodica, affezionata ai piccoli oggetti, unico tramite ormai con un passato sempre più labile e lontano. Non potevo fare a meno di confrontare quella stanza con il mio studio perennemente in disordine, con i libri accatastati per terra, le fotografie alle pareti, le maschere di legno, le stampe coloratissime di Salvatore Fiume, le candele dalle forme strane, i gatti di porcellana, i piccoli oggetti raccolti qua e là, ricordi di viaggi, di persone care.
La terrazza era lunga e stretta, i vasi allineati lungo la ringhiera dipinta di vernice marron e divisa in due parti da un pilastrino in muratura.
La luce che all’improvviso invase il salotto ne mise ancor più in evidenza la tristezza.
In quell’ambiente c’era qualche cosa di insolito che non riuscivo ad individuare, poi mi resi conto che mancava il televisore e non c’era nemmeno in cucina dove ero entrata per riempire l’annaffiatoio.
Anche qui tutto in ordine e tutto vecchio.
I pensili e il tavolo di un colore verde anemico erano di formica, come si usava tanti anni prima, l’acquaio di graniglia e molto consumato.
Tutto era pulito e anonimo, alle pareti nemmeno un calendario, una fotografia, nessun oggetto che rimandasse ad un episodio, che permettesse di mettere a fuoco uno stato d’animo, un gesto.
Non era stato fatto niente per dare un po’ di vivacità, un’impronta personale, una parvenza di vita.
La curiosità prevaleva ormai sull’imbarazzo e, con cautela, quasi per timore di farmi sentire, aprii la porta della camera.
Mi ricordava quella dei miei nonni: un armadio di legno scuro con l’anta a specchio, il letto di ferro battuto e in mezzo alla testata un medaglione con l’immagine di una madonna.
Non capivo come una persona giovane potesse vivere in un ambiente come quello, senza colori, senza un’identità.
Sentii il bisogno di aprire le persiane, di far entrare aria; sulla scrivania vicino alla finestra c’era un album di fotografie rimasto aperto.
Era di cuoio marrone con arabeschi stampati sulla copertina e vecchie fotografie in bianco e nero ormai ingiallite, trattenute da piccoli angoli di carta incollati, riempivano le pagine di cartoncino grigio scuro.
Quasi tutte ritraevano una bambina, avrà avuto quattro o cinque anni, con i capelli ricci e un grande fiocco sulla testa.
Evidentemente erano state scattate in un solo giorno, perché appariva sempre vestita allo stesso modo: una gonnellina a pieghe, una camicetta ricamata  e in mano un panierino di vimini, di quelli che una volta si usavano in campagna.
Poi una festa di carnevale diversi anni dopo, Mara era ormai riconoscibile con una gonna lunga sino ai piedi e i capelli pieni di coriandoli: ballava con un’altra ragazzina in uno stanzone con dei festoni di carta attaccati alle pareti. Triste, come lei.
In una foto incollata nell’ultima pagina, sicuramente ingrandita, Mara era seduta su un muretto, sembrava un parco pubblico, e sorreggeva una bambina di pochi mesi, aiutandola a sostenersi sulle gambe.
Non so quanto tempo rimasi seduta a guardare quell’immagine.
Era la donna che avevo salutato pochi giorni prima anche se la foto sembrava vecchia di anni, ma la sua espressione era diversa, appariva sorridente, viva.
Tornai in cucina a prendere l’annaffiatoio e dopo aver bagnato i vasi del terrazzo con qualche stento geranio, prima di uscire, richiusi  tutte le finestre.
Sarebbe tornata tra due giorni ed io le avrei riportato la chiave, ma sembravano un’eternità, non passavano mai.
Ogni volta che ero salita nell’appartamento non avevo potuto trattenermi dal rientrare in camera per tornare a sfogliare l’album con le fotografie, guardando e riguardando soprattutto quell’ultima immagine con la bambina.
La curiosità, le domande che si moltiplicavano alimentavano dentro di me una tensione sempre più coinvolgente ed era sempre più difficile tenere a freno la mia impulsività.
È il lato fragile del mio carattere l’impulsività che spesso mi ha coinvolto in situazioni difficili e non ho mai imparato a dominarla.
Ora che non sono più una ragazzina continuo a subirne gli attacchi, ma ho imparato ad apprezzarla, perché, se mi ha procurato qualche antipatia, mi ha anche impedito di scivolare nelle convenzioni di un conformismo ipocrita e mieloso.
Questa volta non dovevo farmi forza per salire le scale, anzi quasi mi trattenevo per non avventarmi sugli scalini.
Mara era sicuramente tornata, perché sentivo dei rumori provenire dall’interno.
Suonai il campanello di ottone incastonato nel muro.
Alcuni  passi veloci, quasi di corsa e finalmente la porta venne aperta.
Appoggiata all’ingresso, una ragazza molto giovane mi guardava sorridendo con l’espressione interrogativa di chi si trova davanti ad una sconosciuta.
Dopo qualche momento di disorientato mutismo nel tentativo di capire chi fosse, mi decisi a chiedere di Mara mentre rovistavo inutilmente nella borsa alla ricerca della chiave da restituire.
“Vivo qui sola, da quasi un anno, non c’è la persona che stai cercando, non l’ ho mai vista, mi dispiace, forse ti hanno dato un indirizzo sbagliato. Lavoro in banca e mi sono dovuta trasferire: non ho molte conoscenze ancora e quindi mi fa piacere incontrare gente nuova”, intanto si faceva da parte per farmi passare,  “ti ho visto più volte entrare e uscire da Tele-GRM. Quest’appartamento l’ ho trovato per caso, era in vendita da tanto tempo e tutto da ristrutturare. Io sono Laura”.
L’interno era accogliente e allegro, sul pavimento un parquet ricoperto da tappeti moderni e colorati, alle pareti alcuni poster incorniciati “a giorno” che riproducevano “La cantante” e “ La chiesa a Murnau” di Kandinsky, “La donna in camicia” di Picasso.
La cucina, dove mi aveva fatto entrare per offrirmi un caffè, era moderna e luminosa, con gli elettrodomestici, tostapane, robot, forno a microonde, spremiagrumi collocati su una lunga asse di acciaio lungo la parete e pronti per l’uso.
Insomma una casa moderna, funzionale, che dava la sensazione della vivacità, della voglia di vivere, come la ragazza che avevo di fronte, sorridente e gentile, con i capelli cortissimi e la minigonna gialla.
Mi guardavo intorno alla ricerca di una traccia qualsiasi che mi permettesse di ritrovare qualche cosa di Mara, ma non c’era niente, anche la distribuzione delle stanze era diversa e non poteva essere il lavoro di due giorni.
L’angoscia mi stringeva lo stomaco come, quando, durante il sonno, si ha la sensazione di precipitare e la gola si contrae, quasi impedendo la respirazione fino a provocare un brusco risveglio.
Non riuscivo a capire e non avevo il coraggio di chiedere più niente, mi avrebbe preso per una visionaria, una pazza.
Anche della chiave nessuna traccia, nonostante avessi rovesciato sul tavolo di cucina tutto il contenuto della mia borsa.
Laura sembrava contenta della mia presenza, aveva voglia di parlare e si era accesa una sigaretta mentre mi raccontava dei salti mortali che aveva fatto per sistemare l’appartamento e renderlo più vivibile, più somigliante a lei. Ora che ci eravamo incontrate le sarei stata sicuramente di aiuto, anche per fornirle qualche indicazione su negozi e servizi di cui poteva aver bisogno:
“ Non è facile orientarsi in una città dove non si conosce nessuno, oggi è un giorno fortunato”.
Mi accompagnò alla porta e, prima di richiudere invitandomi a tornare presto, mi mostrò la stringa di cuoio che portava al collo e nella quale era inserito un piccolo cerchietto d’oro giallo, identico a quello che avevo visto all’anulare di Mara:” Era di mia nonna, anche lei si chiamava Mara, come la persona che eri venuta a cercare qui, ma io non l’ ho mai conosciuta, questo è l’unico ricordo che mi rimane di lei”.

Ottobre 2001