IL RE FA RULLARE I TAMBURI

Il re fa rullare i tamburi
il re fa rullare i tamburi
vuol scegliere fra le dame
un nuovo e fresco amore
ed è la prima che ha veduto
che gli ha rapito il cuore

Marchese la conosci tu
marchese la conosci tu
chi e quella graziosa
ed il marchese disse al re:
"Maestà è la mia sposa"

Tu sei più felice di me
tu sei più felice di me
d'aver dama sì bella
signora sì compita
se tu vorrai cederla a me
sarà la favorita

Signore se non foste il re
signore se non foste il re
v'intimerei prudenza
ma siete il sire e siete il re
vi devo l'obbedienza

Marchese vedrai passerà
marchese vedrai passerà
d'amor la sofferenza
io ti farò nelle mie armate
maresciallo di Francia

Addio per sempre mia gioia
addio per sempre mia bella
addio dolce amore
devi lasciarmi per il re
ed io ti lascio il cuore

La regina ha raccolto dei fiori
la regina ha raccolto dei fiori
celando la sua offesa
ed il profumo di quei fiori
ha ucciso la marchesa


Testo: De Andrè - traduzione di una canzone popolare francese del XIV secolo
Anno di pubblicazione: 1969

IL RITORNO DI GIUSEPPE

Stelle, già dal tramonto,
si contendono il cielo a frotte,
luci meticolose
nell'insegnarti la notte.
Un asino dai passi uguali,
compagno del tuo ritorno,
scandisce la distanza
lungo il morire del giorno.

Ai tuoi occhi, il deserto,
una distesa di segatura,
minuscoli frammenti
della fatica della natura.
Gli uomini della sabbia
hanno profili da assassini,
rinchiusi nei silenzi
d'una prigione senza confini.

Odore di Gerusalemme,
la tua mano accarezza il disegno
d'una bambola magra,
intagliata del legno.
"La vestirai, Maria,
ritornerai a quei giochi
lasciati quando i tuoi anni
erano così pochi."

E lei volò fra le tue braccia
come una rondine,
e le sue dita come lacrime,
dal tuo ciglio alla gola,
suggerivano al viso,
una volta ignorato,
la tenerezza d'un sorriso,
un affetto quasi implorato.

E lo stupore nei tuoi occhi
salì dalle tue mani
che vuote intorno alle sue spalle,
si colmarono ai fianchi
della forma precisa
d'una vita recente,
di quel segreto che si svela
quando lievita il ventre.

E a te, che cercavi il motivo
d'un inganno inespresso dal volto,
lei propose l'inquieto ricordo
fra i resti d'un sogno raccolto.


Testo: Fabrizio De Andrè
Anno di pubblicazione: 1970

IL SOGNO DI MARIA

"Nel Grembo umido, scuro del tempio,
l'ombra era fredda, gonfia d'incenso;
l'angelo scese, come ogni sera,
ad insegnarmi una nuova preghiera:
poi, d'improvviso, mi sciolse le mani
e le mie braccia divennero ali,
quando mi chiese - Conosci l'estate -
io, per un giorno, per un momento,
corsi a vedere il colore del vento.
Volammo davvero sopra le case,
oltre i cancelli, gli orti, le strade,
poi scivolammo tra valli fiorite
dove all'ulivo si abbraccia la vite.
Scendemmo là, dove il giorno si perde
a cercarsi da solo nascosto tra il verde,
e lui parlò come quando si prega,
ed alla fine d'ogni preghiera
contava una vertebra della mia schiena.

(... e l' angelo disse: "Non
temere, Maria, infatti hai
trovato grazia presso il
Signore e per opera Sua
concepirai un figlio...)

Le ombre lunghe dei sacerdoti
costrinsero il sogno in un cerchio di voci.
Con le ali di prima pensai di scappare
ma il braccio era nudo e non seppe volare:
poi vidi l'angelo mutarsi in cometa
e i volti severi divennero pietra,
le loro braccia profili di rami,
nei gesti immobili d'un altra vita,
foglie le mani, spine le dita.

Voci di strada, rumori di gente,
mi rubarono al sogno per ridarmi al presente.
Sbiadì l'immagine, stinse il colore,
ma l'eco lontana di brevi parole
ripeteva d'un angelo la strana preghiera
dove forse era sogno ma sonno non era
- Lo chiameranno figlio di Dio -
Parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre."

E la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto,
ma la paura dalle labbra
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d'una quiete apparente
che si consuma nell'attesa
d'uno sguardo indulgente.

E tu, piano, posati le dita
all'orlo della sua fronte:
i vicini quando accarezzano
hanno il timore di far troppo forte.


Testo: Fabrizio De Andrè
Anno di pubblicazione: 1970

IL SUONATORE JONES

In un vortice di polvere
gli altri vedevan siccità,
a me ricordava
la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa

Sentivo la mia terra
vibrare di suoni, era il mio cuore
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore

Libertà l'ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato

Libertà l'ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco

E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare

Finii con i campi alle ortiche
finii con un flauto spezzato
e un ridere rauco
e ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto

Testo: Giuseppe Bentivoglio e Fabrizio De Andrè
Anno di pubblicazione: 1971

 

IL TESTAMENTO

Quando la morte mi chiamerà
forse qualcuno protesterà
dopo aver letto nel testamento
quel che gli lascio in eredità
non maleditemi non serve a niente
tanto all'inferno ci sarò già

Ai protettori delle battone
lascio un impiego da ragioniere
perché provetti nel loro mestiere
rendano edotta la popolazione
ad ogni fine di settimana
sopra la rendita di una puttana
ad ogni fine di settimana
sopra la rendita di una puttana

Voglio lasciare a Biancamaria
che se ne sfrega della decenza,
un attestato di benemerenza
che al matrimonio le spiani la via
con tanti auguri per chi c'è caduto
di conservarsi felice e cornuto
con tanti auguri per chi c'è caduto
di conservarsi felice cornuto

Sorella Morte lasciami il tempo
di terminare il mio testamento
lasciami il tempo di salutare
di riverire di ringraziare
tutti gli artefici del girotondo
intorno al letto di un moribondo

Signor Becchino mi ascolti un poco
il suo lavoro a tutti non piace
non lo considerano tanto un bel gioco
coprir di terra chi riposa in pace
ed è per questo che io mi onoro
nel consegnare le la vanga d'oro
ed è per questo che io mi onoro
nel consegnare la vanga d'oro

Per quella candida vecchia Contessa
che non si muove più dal mio letto
per estirparmi l'insana promessa
di riservarle i miei numeri al lotto
non vedo l'ora d'andar fra i dannati
per riferirglieli tutti sbagliati
non vedo l'ora d'andar fra i dannati
per riferirglieli tutti sbagliati

Quando la morte mi chiederà
di restituirle la libertà
forse una lacrima forse una sola
sulla mia tomba si spenderà
forse un sorriso forse uno solo
dal mio ricordo germoglierà

Se dalla carne mia già corrosa
dove il mio cuore ha battuto il tempo
dovesse nascere un giorno una rosa
la do alla donna che m'offrì il suo pianto
per ogni palpito del suo cuore
le rendo un petalo rosso d'amore
per ogni palpito del suo cuore
le rendo un petalo rosso d'amore

A te che fosti la più contesa
la cortigiana che non si dà a tutti
ed ora all'angolo di quella chiesa
offri le immagini ai belli ed ai brutti
lascio le note di questa canzone
canto il dolore della tua illusione
a te che sei per tirare avanti
costretta a vendere Cristo e i santi

Quando la morte mi chiamerà
nessuno al mondo s'accorgerà
che un uomo è morto senza parlare
senza sapere la verità
che un uomo è morto senza pregare
fuggendo il peso della pietà

Cari fratelli dell'altra sponda
cantammo in coro giù sulla terra
amammo in cento l'identica donna
partimmo in mille per la stessa guerra
questo ricordo non vi consoli
quando si muore, si muore soli
questo ricordo non vi consoli
quando si muore si muore soli

Testo: De Andrè
Anno di pubblicazione: 1963

IL TESTAMENTO DI TITO

Tito:
"Non avrai altro Dio all'infuori di me,
spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.

Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.

Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone,
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:
quando a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.
Quanto a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.

Ricorda di santificare le feste.
Facile per noi ladroni
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni
senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.
Senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.

Il quinto dice "Non devi rubare"
e forse io l'ho rispettato
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.
Ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.

Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme.
Feconda una donna ogni volta che l'ami
così sarai uomo di fede:
poi la voglia svanisce e il figlio rimane
e tanti ne uccide la fame.
Io, forse, ho confuso il piacere e l'amore:
ma non ho creato dolore.

Il settimo dice non ammazzare
se del cielo vuoi essere degno.
Guardatela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno:
guardate la fine di quel nazareno
e un ladro non muore di meno.
Guardate la fine di quel nazareno
e un ladro non muore di meno.

Non dire falsa testimonianza
e aiutali a uccidere un uomo.
Lo sanno a memoria il diritto divino,
e scordano sempre il perdono:
ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.

Non desiderare la roba degli altri
non desiderarne la sposa.
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa:
nei letti degli altri già caldi d'amore
non ho provato dolore.
L'invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.

Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:
io nel vedere quest'uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l'amore".


Testo: Fabrizio De Andrè
Anno di pubblicazione: 1970

INVERNO

Sale la nebbia sui prati bianchi
come un cipresso nei camposanti
un campanile che non sembra vero
segna il confine fra la terra e il cielo

Ma tu che vai, ma tu rimani
vedrai la neve se ne andrà domani
rifioriranno le gioie passate
col vento caldo di un'altra estate

Anche la luce sembra morire
nell'ombra incerta di un divenire
dove anche l'alba diventa sera
e i volti sembrano teschi di cera

Ma tu che vai, ma tu rimani
anche la neve morirà domani
l'amore ancora ci passerà vicino
nella stagione del biancospino

La terra stanca sotto la neve
dorme il silenzio di un sonno greve
l'inverno raccoglie la sua fatica
di mille secoli, da un'alba antica

Ma tu che stai, perché rimani?
Un altro inverno tornerà domani
cadrà altra neve a consolare i campi
cadrà altra neve sui camposanti


Testo: Fabrizio De Andrè
Anno di pubblicazione: 1968

JAMIN-A

Traduzione

Lengua 'nfeuga Jamin-a
lua de pelle scûa
cu'a bucca spalancà
morsciu de carne dûa
stella neigra ch'a lûxe
me veuggiu demuâ
'nte l'ûmidu duçe
de l'amë dû teu arveà

Ma seu Jamin-a
ti me perdunié
se nu riûsciò a ésse porcu
cumme i teu pensë

Destacchete Jamin-a
lerfe de ûga spin-a
fatt'ammiâ Jamin-a
roggiu de mussa pin-a
e u muru 'ntu sûù
sûgu de sä de cheusce
duve gh'è pei gh'è amù sultan-a de e bagasce
dagghe cianìn Jamin-a
nu navegâ de spunda
primma ch'à cuæ ch'à munta e a chin-a
nu me se desfe 'nte l'unda
e l'ûrtimu respiu Jamin-a
regin-a muaé de e sambe
me u tegnu pe sciurtï vivu
da u gruppu de e teu gambe


Testo: Fabrizio De Andrè e Mauro Pagani
Anno di pubblicazione: 1984

Traduzione:

JAMINA

Lingua infuocata Jamina
lupa di pelle scura
con la bocca spalancata
morso di carne soda
stella nera che brilla
mi voglio divertire
nell'umido dolce
del miele del tuo alveare
sorella mia Jamina
mi perdonerai
se non riuscirò a essere porco
come i tuoi pensieri
staccati Jamina
labbra di uva spina
fatti guardare Jamina
getto di fica sazia
e la faccia nel sudore
sugo di sale di cosce
dove c'è pelo c'è amore
sultana delle troie
dacci piano Jamina
non navigare di sponda
prima che la voglia che sale e scende
non mi si disfi nell'onda
e l'ultimo respiro Jamina
regina madre delle sambe
me lo tengo per uscire vivo
dal nodo delle tue gambe

KHORAKHANE' *
(A forza di essere vento)

Il cuore rallenta la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento

Porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare

Il cuore rallenta la testa cammina
in un buio di giostre in disuso
qualche rom sì è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro

Saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace

I figli cadevano dal calendario
Yugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via

E poi Mirka a San Giorgio** di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere

Ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare

E se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e fortuna
allo specchio di questa kampina***
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio

****
Cvava sero po tute (poserò la testa sulla tua spalla)
i kerava (e farò)
jek sano ot mon (un sogno di mare)
i taha jek iak kon kasta (e domani un fuoco di legna)
vasu ti baro nebo (perché l'aria azzurra)
avi ker (diventi casa)

Kon ovla so mutavla (chi sarà a raccontare)
kon ovla (chi sarà)
ovla kon ascovi (sarà chi rimane)
me gava palan ladi (io seguirò questo migrare)
me gava (seguirò)
palan bura ot croiuti (questa corrente di ali)


* Tribù rom di provenienza serbo-montenegrina
** Festa annuale del popolo rom nel sud della Francia
*** Baracca da campo dei rom
**** Traduzione in romanes di Giorgio Bozzecchi (rom harvato)


Testo: Fabrizio De Andrè e Ivano Fossati
Anno di pubblicazione: 1996