Nicolas Guillén e le sue poesie d’amore

Tra i poeti del Novecento, e dèntro la generazione di Auden e di Alberti, Nicolas Guillén nel suo ambito particolare, è forse colui che assomma la più vasta gamma di esperienze individuali, sociali e civili. Mulatto di nascita, reca nella sua poesia l’espressione autentica della negritudine cubana, o meglio traduce in canto dolente e irato quasi negli stessi anni della affermazione di Langston Hughes, negli Stati Uniti la condizione discriminata e degradata degli afroamericani delle Antille. E anticipa, anche al di là dell’opera poetica, uno stato di coscienza che solo gli anni sessanta renderanno esp1icito e contundente. Cittadino di uno stato che tarda molto a conquistare la sua vera indipendenza Cuba è l’unico paese che non conosce la più piccola soluzione di continuità tra imperialismo spagnolo e nordamericano manifesta con parole schiette e senza retorica la volontà di emancipazione del suo popolo. Antifascista, militante, accorre nella Spagna dilaniata dalla guerra civile e con altri intellettuali e letterati di tutto il mondo si mette a disposizione del governo repubblicano aggredito dalle forze congiunte della reazione interna e del fascismo internazionale. Come altri scrittori della diaspora comunista del tempo del predominio fascista e poi della guerra fredda, percorre le lunghe e travagliate vie dell’esilio. Ma più di ogni altra sua esperienza conta quella di aver sperimentato in prima persona, come intellettuale e come scrittore, l’esaltante e insieme arduo passaggio da un genere di società a un altro, cioè di aver vissuto direttamente e superato positivamente un processo rivoluzionario, giunto a maturazione e ben consolidato.

Non solo per tutto questo, però, egli è stato chiamato "il poeta della sintesi." La definizione gli si attaglia anche per la speciale sua capacità di cogliere nel giro di pochi versi una condizione vitale o una situazione collettiva, un sentimento radicato nell’intimo e uno stato d’animo diffuso, un grido o una protesta, un attimo di felicità o di cupo dolore. Fin dai tempi del libro che lo ha rivelato (Motivos de son, 1931) e dal libro che ha confermato nettamente il suo singolare estro poetico (Sòngoro cosongo, 1931), Nicolas Gullién tutto immerso nel mondo musicale degli afrocubani e riuscito a dire in uno squarcio di poesia cose precise, fatti incontestabili, verità verticali, che s’immaginano sottolineate dal suono parco di uno dei numerosi tipi di tamburo esistenti a Cuba o al ritmo del ballo afrocubano detto son. Si pensi alla breve composizione dal titolo "Caña" (Canna da zucchero):

Ei negro
junto al cañaveral.
EI yanki
sobre e1 cañaveral.
La tierra
bajo el cañaveral.
!Sangre
que se nos va!

Che è sintesi storica dello sfruttamento nordamericano della principale ricchezza della terra cubana.

Oppure all’attacco della "Balada de los dos abuelos" (Ballata dei due avi), che appartiene al terzo libro, West Indies, Ltd. (1934):

Sombras que sòlo yo veo
me escoltan mis dos abuèlos.

Lanza con punta de hueso,

tambor de cuero y madera:

mi abuelo negro.

Gorguera en el cuello ancho,

gris armadura guerrera;

mi abuelo blanco...

Ombre che io solo vedo,
i due avi mi fanno scorta.

Lancia con punta d’osso,

tamburo di legno e cuoio:

il mio nonno nero.

Gorgiera sul largo collo,

grigia armatura guerriera:

il mio nonno bianco…

 

Dove la condizione mulatta è insieme incontro storico e realtà presente, tradizione accettata e ragione di insistito contrasto.

O si guardi a certi temi che, trattati nei lontani anni trenta, sono sempre di bruciante attualità, e nella loro espressione sintetica ugualmente o ancor più significativi. Come, ad esempio, la contraddizione tra la funzione repressiva dei soldati, in epoca di dittatura machadiana, e il loro status sociale di figli di contadini e di povera gente:

No sé por qué piensas tu,

soldado, que te odio yo,

si somos la misma cosa,

yo,

tù.

Tù eres pobre, lo soy yo..

 

Soldato, non so perchè tu,

credi che ti odio io,

se siamo la stessa cosa,

io

te.

Sei povero, lo sono anch’io...

 

 

 

 

(Che è una delle poesie dei Cantos para soldados, del 1937, che reca questa dedica: "A mio padre, ucciso dai soldati.")

E come, secondo esempio, l’esaltazione dell’orgoglio dei neri nella "Pequeña oda a un negro boxeador cubano" (Piccola ode a un pugile negro cubano), che fa pensare, per analogia, agli atteggiamenti recenti di un Cassius Clay:

 

Y ahora que Europa se desnuda

para tostar su carne al sol

y busca en Harlem y en La Habana

jazz y son,

lucirse negro mientras aplaude el bulevar,

y frente a la envidia de los blancos

hablar en negro de verdad.

E ora che l’Europa si denuda

per abbrustolire la sua carne al sole

e cerca ad Harlem e all’Avana

jazz e son,

vantarsi negro mentre applaude il boulevard,

e di fronte all’invidia dei bianchi,

parlare negro in modo vero.

 

 

In effetti, Guillen ha continuato a "parlare negro in modo vero," o meglio mulatto autentico, in tutta la sua carriera di poeta, non dimenticando che ciò significava, a Cuba come negli altri paesi dell’America Latina, usare anche un linguaggio di chiare rivendicazioni sociali, patriottiche e antimperialiste. E questo è rimasto il senso e l’orientamento dei suoi libri fino alla rivoluzione guidata da Fidel Castro: España (1937), El son entero (1947), e La paloma de vuelo popular (1958) — in cui sono incluse anche le Elegìas — e anche dopo la rivoluzione: Tengo (1964), El Gran Zoo (1967), La rueda dentada (1972) e EI diario que a diario (1972). Davvero un cammino diretto e limpido e, nello stesso tempo, esemplare: sul quale, in altra occasione ho avuto l’opportunità di discorrere compiuta-niente.

All’inizio osservavo però che l’esperienza più interessante di Nicolàs Guillén è pur sempre quella di aver vissuto in prima persona il passaggio da una società a un’altra e di essere oggi il testimone e interprete d’una rivoluzione in cammino. Si sa che una delle insidie più gravi per il poeta rivoluzionario e uno dei motivi più pesanti di logoramento della funzione del produttore artistico in epoca di socialismo affermato sono proprio quelli di diventare "il piffero della rivoluzione," come ebbe a dire una volta Vittorini. Una funzione meramente celebrativa rischia di tarpare le ali al più consumato e robusto scrittore (è questa una storia arcinota). Ebbene Nicolàs Guilién è riuscito a superare sostanzialmente questa impasse, grazie a certe sue qualità indubitate e a tre ragioni precise. La prima è che egli non ha mutato affatto le caratteristiche della sua

poesia, già da tempo vitalizzata e arricchita da una vena surrealista e da una molteplicità di apporti insieme tradizionali e innovativi. La seconda ragione come ha osservato José Antonio Portuondo6 è che i caratteri di estrema comunicabilità del suo poetare, ai quali egli aveva abituato il suo pubblico, non lo hanno costretto, nel momento in cui è passato a esprimere i contenuti positivi della società cui appartiene, ad "abbassare" né il tono né il linguaggio dei suoi versi. Ad esempio, l’uso della tradizionale forma del "romance," per narrare le gesta iniziali della lotta nella Sierra, gli è servita a dare intonazione di leggenda a quelle gesta. La terza ragione è che nessuno dei motivi della sua poesia lo scherno, l’invettiva, la stessa celebrazione, il discorso sulla emancipazione razziale, il canto e il riso, il pianto e lo scherzo è caduto o è stato omesso o trascurato dalla sua pagina. Le prove più eloquenti di questa continuità di motivi, di accenti e di forme sono offerte, mi pare, da El Gran Zoo folto bestiario satirico e umoresco, dove invenzione e parodia si dànno la mano a comporre un mosaico svariatissimo e da El diario que a diario sorta di collage nel quale è narrata la storia dei fatti grandi e piccoli e dei costumi di Cuba dai tempi della schiavitù a oggi.

Ma un’altra prova è costituita da questa breve antologia di poesie d’amore: essa infatti nasce da una scelta

dello stesso autore, che ha suggerito anche l’attuale titolo che risale al primo libro pubblicato da Guillén, Cerebro y coraz6n (1922), da cui è tratta la "Ballata azzurra," e a un gruppo di poesie quasi tutte inedite dell’epoca 1927-1930 ("Il tuo ricordo"), e giunge alla più recente produzione del poeta ("Se m’avessero detto" è del 1971). Ciò significa che la vena erotica e sensuale spesso velata di toni dolenti e di nostalgia ha continuato a prosperare per l’intero arco della lunga opera di Nicolàs Guillèn, conferendo ad essa completezza e sfericità. E credo sia anche da sottolineare che questa antologia, nella sua prima versione ridotta, sia stata pubblicata, a cura del giovane poeta Fayad Jamis, nel 1964, appunto nei primi anni della rivoluzione castrista.

In queste poesie predomina il senso della estrema fragilità e caducità dell’atto amoroso: che tuttavia viene celebrato con una sana ironia, con una quasi pagana concretezza e positività, e con una ingenua e palpitante freschezza. Il robusto tronco erotico della sensualità mulatta chiuso nel circolo ristretto dei tre "Madrigali" e il ricordo ancestrale dell’amore come rito primigenio e purissimo sono forse i momenti più sensibili di questa nuda e singolarissima poesia d’amore.

E si comprende che Nicolà Guillén di cui sono stati celebrati nel 1972 i settant’anni, con la pubblicazione fastosa in due volumi delle sue Obras completas serbi per questo filone della sua vasta esperienza poetica un affetto speciale, quasi a dimostrazione della sua inesausta sete di vita e di umanità.

6 "Canta a la revolucion con toda la voz que tiene," in Recapilaciòn de textos sobre Nicolas Guillén, Casa de las Americas, La Habana, 1974. (Cfr. pp. 303-309.)

 

DARIO PUCCINI

In qualche punto della primavera