Editoriale
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Davanti al dolore degli altri
Che cos’è, o cosa dovrebbe essere, un
editoriale lo sappiamo tutti. Che cosa ci si attende da un editoriale, beh,
questo lo sappiamo in pochi.
Probabilmente ci poniamo questa domanda
poiché, ormai, attraverso il telefono o l’e.mail, ci salutiamo con facilità
e ci aggiorniamo sulle ultime novità. Preferiamo, invece, affidare al nostro
giornale le considerazioni che hanno, o dovrebbero avere, un maggiore respiro,
che coinvolgono soci e amici, che raccolgono e rispondono alle loro attese,
che sono lette con più calma e divengono premessa d’ulteriori considerazioni.
In questo spazio cogliamo, quindi, l’opportunità
non solo per lanciare programmi o trasmettere notizie sul comune lavoro
fotografico ma per comunicare l’intercettazione di quanto succede in quell’altro
spazio “dentro e fuori di noi” e che andiamo misurando e confrontando con
quanto appreso nella nostra ANAF “societas, familia et officina”. E così
capire qual’è la nostra posizione, il nostro orizzonte, la nostra risoluzione.
Comprendere - e chiarire, ribadire, e tornarci ancora sopra -, il perché
del nostro essere fotografi e del nostro impegno artistico e civile.
E così esprimere la cosiddetta linea
del giornale.
Scusatemi allora se, seguendo uno stile
che ci siamo dati fin dal nostro primo NNF, proporrò alla vostra attenzione
alcuni episodi che “intercettano” l’uso della fotografia e la sua fenomenologia.
“Davanti al dolore degli altri” è il titolo dell’ultimo lavoro di Susan
Sontag. Un’opera che avevamo salutato nel nostro ultimo editoriale e che,
dopo la lettura, oggi ritorna, spinta dalla necessità di riconsiderare la
qualità percettiva degli eventi drammatici che la storia di questo pianeta
ci consegna e che la fotografia, anche la nostra fotografia, raccoglie.
L’autrice riprende i temi già affrontati
nel celebre saggio “Sulla fotografia” e riflettendo sugli esiti della mostra
fotografica “Here is New York”, realizzata proprio poco dopo la tragica
data del11 settembre 2001, affonda la sua indagine in quel conflitto tra
arte ed etica immanente nello statuto fotografico.
La fotografia, sostiene l’autrice, è
pur sempre l’arte in cui la realtà e la sua descrizione si trovano a confliggere
in modo decisivo, dove le intenzioni del fotografo non determinano il significato
della fotografia stessa che avrà vita propria, sostenuta dalle fantasie
e dalle convinzioni delle varie comunità che se ne serviranno. Ma la fotografia
sta diventando una sorta di lente d’ingrandimento che tutti noi, diventati
degli ossessionati voyeurs, utilizziamo per capire meglio una realtà che
pretendiamo sempre più ingrandita e ravvicinata. Ma, tanto più ci avviciniamo
a questa realtà tanto più ci accorgiamo di stare perdendo il contatto con
il vero valore del reale.
La violenza, allora, il dramma espresso
dall’immagine fotografica, in quale misura riflette ancora l’impegno del
fotografo? In quale misura provoca la nostra reazione? Il fotografo prende
coscienza mera del fatto o protesta? Le immagini di un’atrocità possono
suscitare reazioni opposte: appelli per la pace, proclami di vendetta, o
semplicemente la vaga consapevolezza, continuamente alimentata da informazioni
fotografiche, che accadono cose terribili.
Ringraziamo la Sontag per il suo appassionato contributo, ma tutti noi sapevamo
di questo stato di cose.
Il problema, infatti, ha aspetti di
carattere sociologico di cui nel tempo siamo diventati, anche grazie alla
scrittrice americana, sempre più consapevoli e che ancora hanno bisogno
di essere indagati e meditati.
Però, pensiamo pure a coloro che per
renderci conto di tutto questo ci hanno rimesso e ci rimettono la vita:
il nome di Zahara Kazemi, la notizia della sua uccisione in Iran, ha riempito
le cronache di televisioni e giornali. Poi il silenzio, la scomparsa delle
immagini. E Sontag ha ragione: parole ed immagini scompaiono dalla nostra
memoria senza averne potuto raccogliere il loro valore artistico e la verità
di documento.
Forse, qualcosa nel mezzo fotografico
non funziona più? Non riusciamo a far passare lo sdegno? Non riesce a passare
la denuncia? A volte, però, in assoluta buona fede, ci è chiesto di non
fotografare. Si, capita anche questo: nel martoriato paese di San Giuliano
di Puglia, qualcuno viene a pregare sulla tomba di quei disgraziati bambini.
Sulle tombe, amici e familiari hanno posto tanti piccoli cari oggetti (come
sempre ne sono stati riposti nei sepolcri d’ogni tempo). Appartengono ad
un dialogo che solo chi l’ha intessuto capisce. Ebbene, è stato chiesto
in un cartello di non fotografare perché le “fotografie rubano l’anima”.
Ritorna la vecchia idea, e ritorna con
forza?! Che contenuti dare al nostro modo di stare davanti al dolore degli
altri?!
Mi è parso di intravedere una risposta
in un sofferto lavoro di Oliviero Toscani che, ricordando l’eccidio compiuto
nell’agosto del 1944 a Sant’Anna di Stazzema (Lucca), ne ha raccontato e
“fotografato” la strage fotografando gli occhi dei superstiti allora bambini.
Trentanove volti, una sola memoria ed il coraggio, la sfida, di ritrarre
l’orrore chiuso nell’anima da tantissimi anni. Una sintesi, dovete convenirne,
straordinaria in forza e qualità. Riuscire a ricordare la morte con la vita,
con l’immagine nascosta dietro rughe e capelli grigi. Come a riprendersi
le immagini che quel giorno nessuno scattò, come a riprendersi la presenza
di una lunga assenza.
La Sontag ha ragione, parla bene e convince.
Ma ancor più ci convincono quei fotografi che danno peso e concretezza al
sentimento dell’uomo trovando la forma nuova, la poesia giusta, per riscattare
la fotografia, indizio e traccia del reale, e consegnarla purificata alla
nuova visione.
Maurizio Tanzi