Andrea de Lisio
IL DISTACCO DEL MOLISE DALL'ABRUZZO STORIA E PROBLEMI
da Rivista Abruzzese di Studi Storici, L'Aquila, 1981.
Nel giugno del 1980, intervistato da II Settimanale nell'ambito di un "processo alle regioni", Tullio De Mauro, rispondendo ad una domanda sulla legittimità etno-storica dei confini attuali delle regioni italiane, affermava:
"E nel centro-sud che i confini pensati nell'800 non hanno più senso comune... il Lazio, per esempio, è una Regione totalmente inventata, fatta con un pezzo di Toscana, un pezzo di Abruzzo e un pezzo di Campania (...) E" un fatto... che il Molise è una Regione del tutto artificiale".
L'opinione dell'illustre linguista è certo scioccante per molti molisani, soprattutto se ammalati di "molisità" e a poco gioverebbe (nella logica del "mal comune...") la considerazione che il Lazio è anch'esso parecchio inventato.
Ora, la direzione di questa rivista mi ha cortesemente incoraggiato ad affrontare il tema del distacco dall'Abruzzo del Molise, consumato definitivamente nel 1963, a sbocco d'un movimento che aveva preso l'aìre almeno quarant'anni prima. L'opinione del De Mauro ha perciò un peso notevole nel contesto dei problemi da aggredire e dipanare, perché essa darebbe ragione a quanti vedono nella rivendicazione dell'autonomia molisana non la forza della "necessità" geostorica, ma un'opportunità politica, un formidabile mezzo di captazione del consenso, insomma un comodo cavallo di battaglia foraggiato dalla retorica piuttosto che da obiettivi e inderogabili bisogni.
In realtà sebbene non sia per nulla scandaloso riconoscere che anche la retorica. i miti, muovono (e come!) la storia, va subito precisato che sembra eccessiva, almeno nella forma non argomentata dell'intervista, l'opinione del De Mauro. ma che altrettanto eccessiva e, sia consentito, un po' melodrammatica, è la sicurezza sdegnata di chi giura e spergiura sull'inattaccabilità delle ragioni che starebbero a pilastro dell'autonomia molisana e scomoda immagini degne... dell'indipendenza lombardo-veneta dall'Austria.
La verità, probabilmente, sta nel riconoscere che l'attuale regione Molise è una congregazione di territori non spiccatamente omogenei (che comunque non hanno tra di loro un'omogeneità superiore a quella che, singolarmente, hanno con regioni limitrofe) raccolti intorno ad un nucleo (l'antico contado di Molise) che godette, nei secoli, di una qualche individuale fisionomia.
Ma a parte il fatto che lendemica arretratezza sociale e politica ed economica del Mezzogiorno d'Italia ne livellò i territori attenuando le ragioni della differenziazione tra area ed area. questo contado di Molise, come si sa, nei secoli dipese amministrativamente da altri centri, più o meno lontani: e la circostanza, durata tanto tempo, non può non aver rafforzato tutte le spinte centrifughe fortissime in una regione oggettivamente debole e senza risentita personalità.
Gli "autonomisti", d'altronde, hanno uno dei loro punti di forza nel decreto murattiano con il quale, all'alba dell'Ottocento, nasceva la provincia di Molise.
Eppure non è dato sapere quanto abbia pesato, nella decisione sovrana, l'obbiettiva necessità storica e quanto invece le pressioni di quei molisani che ebbero cospicua capacità d'influenza nel decennio francese. (1)
Vedremo in seguito, e in dettaglio, dai primi decenni del Novecento fin quasi ai giorni nostri, lo sviluppo dell'"idea molisana", i pensieri, le contraddizioni gli slanci, le buone e le cattive azioni che condussero, alla fine, quell'idea al successo, a incarnarsi, cioè, in leggi ed istituzioni.
Ma preliminarmente credo si possa dir questo: quella non fu una battaglia tout-court "sbagliata", eppure è tempo che sia riconsiderata senza pregiudizi e senza che la doverosa carità di patria veli l'accertamento dei fatti.
E prima di tutto andrà detto che non fu, quella, la titanica lotta che alcuni vollero far credere sia stata. L'autonomia molisana ebbe pochi, mal agguerriti nemici (e forse più tra i molisani che non altrove), e se rischiò di naufragare, fu piuttosto per insipienza degli interessati e in un mare di indifferenza che per l'ostilità della classe politica nazionale, la quale comunque fu ad un passo dal-l'ingoiare il progetto autonomista nelle sabbie mobili della sua abituale lentocrazia. Niente di epico, dunque, anche se va riconosciuto ai Camposarcuno e ai Colitto (come ai Lussu) di essersi adoperati con zelo. acume, caparbietà. Ad essi va la nostra gratitudine. Ma nessun dubbio che i Camposarcuno e i Colitto pensassero all'autonomia molisana come degna cornice d'un quadro di rinascita. e di riscatto - oserei presumere - soprattutto morale, oltre che economico. E invece restano aperti due problemi, e un sospetto continua a sopravvivere.
Il primo problema è questo: il Molise è davvero riuscito ad essere una regione "compatta", nella quale, cioè, le spinte centrifughe siano sostanzialmente annullate da eguali e contrarie spinte centripete? E' divenuto, il Molise, polo che "attrae" dalle altre regioni? Ed ecco il secondo problema: è riuscita Campobasso ad unificare "concettualmente" il Molise, a risucchiare verso di sé, senza dispotismi e arroganza, i particolarismi settoriali per fonderli in una "idea del Molise" nella quale, senza sbavature retoriche (per carità!), ci si possa riconoscere tutti o quasi tutti?
Si può fondatamente riconoscere che esista qualcosa di separatamente "molisano" nell'economia, nella cultura, nellartigianato, magari nella gastronomia? C'è, insomma, un quid molisano, al di là dello stucchevole ritornello della "razza forte e gentile"? Dire che cè, è azzardato, dubitarne resta lecito. Il sospetto, allora, è questo: che la classe dirigente molisana (quella politica in particolar modo) abbia utilizzato il mito dell'autonomia molisana quasi esclusivamente come canalizzatore di consensi a buon mercato, per di più raccolti in vista di un palingenetico anno mille della rinascita. La palingenesi, inutile ribadirlo, non c'è stata.
Il Molise è certo in cammino, ma non sappiamo quanta è l'energia che ha in corpo, perché tutto il Meridione è in cammino, sebbene "in salita", e perché le massicce iniezioni di denaro pubblico (utilizzato Dio solo sa come) e l'assistenzialismo danno, forse, soltanto l'impressione di una vitalità, che in effetti andrebbe sottoposta ad esami più severi di autenticità. E forse gli esami sono vicini.
* * *
Prima di entrare nel vivo dell'argomento ritengo utile una precisazione: userò indifferentemente, sebbene consapevole della non-scientifìcità dell'uso, le espressioni "movimento autonomistico" e "movimento regionalistico", perché, in realtà, quello molisano fu un movimento che intendeva separare amministrativamente un'area geografica dall'altra e rendere, appunto, "autonoma" la regione minore, che si riteneva danneggiata dalla congiunzione amministrativa con quella maggiore.
Tuttavia "regionalismo" è termine che racchiude maggiore e più specifica somma di significati, relativi soprattutto al ruolo che la Regione ha assunto nell'ordinamento statuale italiano dal 1970, anno in cui, attuando la Costituzione, le Regioni si videro consegnata una somma notevole di poteri di natura anche squisitamente politica. La storia del movimento molisano s'arresta al 1963 e quindi questo più recente significato del termine "regionalismo" fu un po' fuori tiro rispetto alle mire dei molisani, tutti d'accordo (o quasi) nel volere il distacco dallAquila ma in disaccordo sull'attuazione in senso regionalistico della Costituzione (secondo le linee di disaccordo delle forze politiche nazionali).
Ripercorriamo, allora, a grandi tappe il cammino che l'idea autonomista fece tra il 1920, quando la Deputazione Provinciale molisana dibattè l'argomento, inaugurando - a giudizio di Michele Camposarcuno 12) - il movimento autonomistico, e il 1963 quando il voto definitivo del Parlamento sanzionò il distacco della provincia di Campobasso dallAbruzzo e la nascita della ventesima regione d'Italia.
Opportunamente il Camposarcuno divide in due fasi la storia del movimento autonomistico.
La prima, dal 1920 al 1946, contrassegnata - egli scrive - da iniziative di popolo (ma la parola "popolo" se si allude, correttamente, alla gran massa della gente dei campi, va adoperata con cautela qui); la seconda, dal 1946 al 1963, illustrata soprattutto dall'attività politico-parlamentare entro cui si canalizzò lo sforzo dei leaders del movimento regionalistico, che "vinsero" nonostante fosse venuto meno, di tanto in tanto, il fiancheggiamento dell'opinione pubblica, non sempre unanimemente solidale e, ben più grave, fossero talvolta mancate coerenza e lealtà da parte delle élites dirigenti.
La prima fase è illuminata da un evento certamente "storico", per il Molise: il primo Congresso regionale, tenutosi a Campobasso nel 1922 e che vide veementi oratori, ascoltò dotte relazioni, raccolse plausi e consensi, ma non modificò, nei fatti, la situazione esistente. E tuttavia quel Congresso e l'eco di esso servirono a portare ad alte temperature la tensione "indipendentistica" di molti notabili molisani e perciò a quel 1922 ci si richiamò, nel 1946. quando nella cornice di un'Italia rinnovata e democratica fu ripresa la "battaglia".
La seconda fase, invece, ebbe i suoi punti di forza, forse, in due momenti, il primo dei quali si registrò quando l'inchiesta disposta dalla Presidenza dell'Assemblea Costituente accertò essere il Molise compattamente (tranne Agnone) favorevole al distacco e, soprattutto, essere tutto lAbruzzo (tranne Chieti) disposto a riconoscere fondato il desiderio dei molisani.
Il risultato dell'inchiesta appare tanto più rilevante se si pensa che analoghe richieste di scorporo di province (per esempio, Taranto mirava alla regione di Salento), presentate alla Costituente, ovvero proposte di nuovi accorpamenti (Benevento chiedeva di unirsi a Campobasso ed Avellino in una novella regione del Sannio) incontrarono ostacoli insormontabili proprio nella difformità d'intenti delle popolazioni interessate ai progetti.
L'altro punto di forza fu certamente l'approvazione della Disposizione XI - tra quelle transitorie e finali della carta costituzionale (4) che, approvata dopo una vivace schermaglia parlamentare, in una seduta sostanzialmente dedicata al Molise, consentì ai molisani di ancorare su un solido terreno giuridico le loro attese.
Ma al di là di questi momenti, drammatici ed entusiasmanti per i rappresentanti molisani che personahnente li patirono, si può dire che il vero punto di forza di tutta l'azione che menò al successo del '63 fu proprio la determinazione, la tenacia con cui soprattutto i Camposarcuno e i Colitto (non del tutto isolati tuttavia) si batterono (5). L'on. Colitto - oggi ottantenne ma sorretto da operosa alacrità di studi - a me che gli domandavo come mai, di tante richieste avanzate alla Costituente in merito alla creazione di nuove Regioni, solo quella del Molise avesse ottenuto consensi, rispondeva: "II Molise, alla fine, è uscito vittorioso perché noi ci battemmo, alla Costituente, con vigore, con ostinazione. Le altre richieste caddero perché sostenute con troppa tiepidezza dai loro presentatori".
Vero, ma non si dimentichi mai che difficilmente l'Abruzzo avrebbe potuto trovar conveniente tener legato a sé il territorio molisano così povero e arretrato.
A fondamento dell'azione dei rappresentanti molisani c'era un intero corredo di convinzioni, soprattutto, ma non solo, di origine storica, frutto dell'elaborazione di diversi studiosi locali, passati e più recenti, dai quali si ricavava linoppugnabilità di un'idea: che il Molise aveva avuto sempre, nel passato, una sua fisionomia territoriale e culturale, geografica e storica, così marcata e riconoscibile, che l'aggregazione della provincia campobassana al corpo abruzzese (come in precedenza simili accorpamenti con altre regioni per varie materie amministrative) era un non senso scandaloso.
Gli elementi essenziali per fondare sullautorità della stona la richiesta di autonomia per il Molise sono già in larga misura presenti, ben ordinati, nella relazione che G.B. Masciotta scrisse per la Deputazione provinciale molisana sessant'anni fa.
Il Consiglio Provinciale del Molise, proprio su proposta del consigliere Masciotta, nella seduta del 23 febbraio 1920, si era occupato del problema concernente il possibile distacco del Molise dall'Abruzzo (i due territori erano uniti fin dal 1861) e aveva dato incarico al medesimo Masciotta, buon conoscitore del passato e del presente molisano, di stendere una relazione (6).
La relazione di Masciotta si snoda lungo quest'ordine di riflessioni: il contado di Molise (cioè l'area comprendente, oltre alla contea di Molise, le piccole contee di Boiano, Isernia, Pietrabbondante, Sesto e Venafro) fu via via, nel corso dei secoli, aggregato ora al Principato (con i Normanni), ora a Terra di Lavoro (con gli Svevi), ora alla Capitanata (dal viceregno fino al 1807). Ciò nonostante il Molise non fu mai "confuso" con altra regione, tanto che il nome di contado di Molise figura sempre nelle intestazioni, in aggiunta alla provincia principale. Cosa dedurne? Che solo "l'esiguità dei bilanci poteva non consentire il trattamento d'autonomia", ma che "questo era virtuale". Perciò - proseguiva Masciotta - l'unione con lAbruzzo era quanto mai arbitraria, anche perché, oltre alla separatezza geografica, economica, sociale e culturale, mai il Molise, nel passato, era stato congiunto a quella regione. Certo, ritiene il relatore, il forzato connubio non ha intaccato la mutua simpatia che collega le due popolazioni. ma non ha nemmeno creato premesse almeno di "un qualsiasi scambio di vedute. una qualsiasi intesa... una qualunque collaborazione e sodalità pel progresso rispettivo e collettivo".
La verità è che "fra il blocco degli Abruzzi... e il Molise, non esiste nessuna comunanza d'interessi: esiste invece una dissonanza fondamentale... e talora un vero antagonismo, dovuti principalmente alle differenti condizioni dell'industria agraria, della viabilità e dell'ordinamento giudiziario". Per appoggiare alle cifre la tesi di un "profondo divario esistente fra le due zone in campo agrario" Ma-sciotta cita dati, che in verità, quella tesi sostengono solo relativamente; negli Abruzzi egli afferma - la superficie agraria coltivata a grano è il 18.81% con una resa di 8.65 q.li per ettaro; nel Molise le cifre sono rispettivamente del 28.2% e di 9.65 q.li per ettaro. Divario, sì - ma profondo? Più convincenti l'osservazione che la viabilità abruzzese tende a Roma e quella molisana a Napoli e la constatazione che alle due metropoli, rispettivamente, fan capo giudiziariamente i due territori. Finora, prosegue Masciotta. l'unione è stata tollerata perché la gente comune non trova disagio evidente. Ma da quando la Regione è divenuta "unità amministrativa operante" il disagio ha preso a colpire anche le classi popolari: esempio, gli emigranti costretti ora ad andare a Roma, non alla più vicina Napoli, per il passaporto.
Ed alla Campania, disordinatamente, il Molise è unito per le Camere di agricoltura, così come al collegio elettorale di Benevento è congiunto quello di Campobasso.
Ecco, conclude il relatore, la "condizione inceppata e travagliosa che aduggia il Molise e lede i suoi diritti" e "tarpa ogni sua libera iniziativa".
E a questo punto Masciotta è costretto ad una concessione a quanti dubitano dell'individuale fisionomia del Molise. Infatti egli riconosce che lo Stato non vuole piccole entità (regionali) economiche e suggerisce che il Molise "pur d'essere staccato dagli Abruzzi, esprime in linea del tutto subordinata il desiderio della restaurazione della Regione Sannio. Il Molise costituiva la parte centrale e metropolitana del Sannio... e l'attuale provincia di Benevento era in gran parte una sua propaggine". Tra Campobasso e Benevento, afferma il relatore, v'è "maggiore affinità etnica, perfetta analogia dei costumi e degli interessi agricoli. identità degli interessi giudiziari e commerciali...". E s'invocano, qui, non solo la storia pre-romana, ma anche otto secoli di storia ecclesiastica.
Gli argomenti del Masciotta meriterebbero più d'una precisazione, ma al di là dogni particolare forse il limite del suo discorso sta nell'assumere il Molise (dico il Molise del 1920, con tutto il Larinate e il Termolese e l'area pendente verso la Capitanata, non l'antico e ristretto "contado") come un'entità territoriale fortemente omogenea e compatta. Egli, nel delineare troppo sommariamente il profilo delle realtà economiche e sociali molisane tien poco conto delle differenze (e quindi dei non coincidenti interessi) correnti per esempio tra il Venafrano e l'Agnonese, tra l'Alto e il Basso Molise. Ma il limite forse era necessario, perché, ove si reclami l'autonomia di qualcosa, si è indotti a sottolineare tutti gli elementi di coesione della cosa stessa e a sottacerne comunque le disarmonie, e d'altronde l'attrezzatura culturale di uno studioso come Masciotta (e in genere di uno studioso proveniente da quella borghesia meridionale) non poteva produrre frutti molto diversi. Ma la relazione di Masciotta contiene ancora rilevanti spunti di discussione, perché se è vero che il Molise ed il Beneventano hanno una spiccata affinità, ne risulta annacquata l'individualità della fisionomia molisana (cavallo di battaglia dei 'molisisti'"; così pure, il richiamo al Sannio e alla storia ecclesiastica pone il problema - qui accennato - della corretta utilizzazione della tradizione storica (7), sulla quale Masciotta (ma meno che l'Amoroso nel 1945 e il D'Amico nel 1946) fonda la più gran parte dei suoi argomenti in difesa dell'autonomia molisana (8).
Manca invece un esame attento e dettagliato delle possibilità che il Molise avrebbe avuto come area geo-economica dotata di una eventuale vocazione particolare. E se questo limite non è forse imputabile a che scriveva nel 1920 lo sarà, eccome!, per chi ragionerà del Molise "regione-a-sé-stante" intorno agli anni 60.
Però, se è vero che Vincenzo D'Amico concludeva la relazione introduttiva al secondo Congresso Regionale molisano (9) (era il 1946) così: "Noi fummo stato sovrano, noi fummo impero. I Sanniti diedero all'Urbe modelli di leggi... In tutte le branche dello scibile, in ogni tempo su queste alture brillarono i fari: Celestino, Andrea, Caldora, Zurlo, Cuoco, Cardarelli, Petrone ecc.": se è vero, dunque, che si possono ancorare alla retorica da convito le ragioni dell'autonomia, è anche vero che già nei primissimi anni Cinquanta in uno studio statistico che Camposarcuno allega al suo volume (10), compare una cartina assai eloquente, dalla quale emerge come ben altro fondamento potesse darsi all'autonomia regionale, quando si fosse insistito sul fatto che i molisani avevano, all'epoca, gli uffici amministrativi che li riguardavano sparpagliati tra ben otto diverse città (Napoli. L'Aquila. Pescara, Ancona, Chieti, Foggia, Benevento e Bari.
* * *
Si arrivò, comunque, alla discussione intorno a questa separazione amministrativa, nella sede della Costituente, dopo che sul tavolo della seconda sottocommissione, che ebbe cura delle autonomie locali, approdò la richiesta di Camposarcuno - sottoscritta dai molisani Ciampitti (Democrazia Cristiana), Colitto (11) (Uomo Qualunque) e Morelli (Partito Liberale) - di separare il Molise dallAbruzzo ed "elevarlo" a regione autonoma.
La discussione che si apri, e che coinvolgeva anche la richiesta di una regione Umbro-Sabina (bocciata, però, molto presto) e di una regione Sannio (avrebbe dovuto comprendere le province di Benevento, Campobasso ed Avellino), vide lon. Lussu - non molisano - dire no all'ipotesi di una regione Umbro-Sabina, no anche alla richiesta di una regione Sannio (sostenuta da una relazione che metteva in rilievo, tra l'altro, l'altissima percentuale di popolazione agricola in tutte e tre le province interessate: 72% Benevento, 75 Avelline, 77 Campobasso), perché era soltanto Benevento a volerla ma Avellino e Campobasso recalcitravano.
Lussu invece dice sì al Molise (12).
La sua posizione, ancora oggi, mi pare la più equilibrata e tale da poter essere condivisa da chi avesse pur voluto rivendicare l'autonomia del Molise evitando le declamazioni che friggono l'aria.
Disse dunque Lussu, alla Costituente, nella seduta del 10 novembre 1946: la denominazione ufficiale della regione, che lega con una "e" Abruzzi e Molise già riconosce nel fatto che due entità sono state giustapposte; l'Aquila non può essere il capoluogo d'una regione nella quale c'è una provincia (Campobasso) separata da casa da due giorni di viaggio (nella buona stagione); (13) il Molise gravita piuttosto verso Napoli per tutti gli interessi culturali e verso Foggia e Bari per sbocchi industriali e commerciali.
Lussu, prudentemente, non dà peso alle cosiddette ragioni storiche e sentimentali e fa leva sulle considerazioni di stretta attualità: egli si rende conto che come regione a sé il Molise avrebbe lhandicap dell'esiguità territoriale e di popolazione, ma accredita - con un po' di ottimismo - all'economia e alla gente molisana sufficienti potenzialità di rinascita e di sviluppo (specialmente - e mette conto rilevarlo - nell'ambito dello sfruttamento dell'energia idrica); conclude, poi, che non essendo sostenibile l'unione del Molise con gli Abruzzi per le precedenti ragioni, né con la Campania perché "la parte preponderante dei suoi interessi va verso l'Adriatico", il Molise stesso legittimamente chiede il distacco dagli Abruzzi e la costituzione della ventcsima regione d'Italia.
La discussione vide un orientamento generalmente favorevole alla richiesta molisana, ma registrò anche l'intervento dell'on. Vanoni, il quale chiese, opportunamente, che prima di arrivare al momento della decisione, si potesse disporre di maggior copia di elementi di giudizio, poiché, sostenne Vanoni, "non bastano i precedenti storici... ma occorre messe d'informazioni su economia, finanze locali, movimenti di popolazioni, etnie, lingua, risorse energetiche (14)".
In definitiva, messa ai voti la richiesta dei rappresentanti molisani, la seconda sottocommissione approvò la richiesta. Immediata - testimonia il Camposarcuno nel volume citato - ne fu l'eco sulla stampa, dall'Avanti a Il Tempo. (15)
Ma il cammino del movimento regionalistico non fu in discesa da quel momento, anzi.
Senza rievocare nei dettagli tutta la vicenda parlamentare e le schermaglie giuridiche (talora dotte ed eleganti, ma per il profano un po' bizantine) e la guerra degli emendamenti (raccontate d'altronde con puntigliosa larghezza di documentazione nel libro di Camposarcuno), basterà ricordare che verso la fine del 1947, nella sessione autunnale dei lavori della Costituente, il parere espresso l'anno prima dalla seconda sottocommissione per le autonomie locali venne ignorato: il testo dell'articolo comprendente l'elenco delle regioni italiane posto in discussione presentava la dicitura "Abruzzi e Molise" (16).
Da parte di Colitto, di Camposarcuno, di Ciampitti e di Morelli, i "costituenti molisani, a quel punto si alzò un nutrito fuoco di sbarramento con raffiche di emendamenti. Il solito Lussu appoggiava questa azione dei molisani. Ma ripresero fiato, inserendosi nella contesa, (era il 29 ottobre 1947), anche i sostenitori della regione Sannio.
L'on. Moro, evidentemente preoccupato, con la Democrazia Cristiana, di aprire la stura ad un proliferare di regioni "nuove", generatesi dallo smembrarsi e riaggregarsi più o meno disordinato delle "vecchie", sostenne, con ragione, che non si era ancora in possesso di elementi di giudizio inoppugnabili (egli ritenne superficiale un'inchiesta tra le popolazioni interessate effettuata qualche mese prima e promossa dalla presidenza stessa della Costituente) e propose di prendere per buono, così com'era, l'articolo in discussione, salvo il diritto della Legislativa "dopo attenta e più seria consultazione delle popolazioni interessate", di approvare mutamenti nel numero e nell'estensione delle regioni.
Così pure, benché Camposarcuno, pressato dalla prospettiva ideale e politica che lo condiziona, non vi dia rilievo nel suo studio, di una certa efficacia fu, in quella seduta, la considerazione dell'on.Vito Mario Stampacchia, salentino, vecchio ed autorevole socialista riformista, il quale osservò che il fondare sulla storia e sulla tradizione la richiesta della costituzione di una nuova regione recava con sé dei rischi, dal momento che "ogni settore italiano (vien voglia di dire ogni quartiere di città italiana n.d.A.} può dire di avere una storia e una tradizione".
Colitto, tuttavia, intervenendo nella discussione, senza affidarsi alla retorica, prima minacciò di battere tutte le piazze a denunciare il "voltafaccia" della Democrazia Cristiana, che aveva agito in un modo nella sottocommissione ed ora pareva rimangiarsi il precedente atteggiamento, poi ebbe mano felice nello scegliere un argomento semplice e persuasivo: perché - egli si chiese - oggi ci troviamo a discutere di una "e" che congiunge due regioni? Perché nel 1861 i legislatori accorparono le due entità territoriali. Ma perché lo fecero? Perché ne avessero riconosciuta l'omogeneità, l'interdipendenza? No. solo per ragioni statistiche. E finché l'unione con gli Abruzzi si ridusse a sommar cifre poco male, proseguì Colitto, ma quando cominciarono a crearsi certi distaccamenti amministrativi, come il Provveditorato alle Opere Pubbliche, o agli Studi e simili, il Molise o ottenne un proprio distaccamento o fece capo a Napoli (come per il Provveditorato alle OO.PP.).
Concludeva Colitto: come sostenere, alla luce di queste realtà, la utilità di conservare la "e" tra Abruzzo e Molise?
Comunque i molisani dovettero registrare una sconfitta e nella notte del 30 ottobre 1947 fu approvato l'o.d.g. Targetti, che elencava le regioni in base "alle pubblicazioni ufficiali statistiche".
La Democrazia Cristiana, per bocca di Moro, fu larga di promesse verso i molisani, Camposarcuno in particolare: la questione, stesse tranquillo il parlamentare molisano, sarebbe stata ripresa e riesaminata in senso favorevole al Molise.
Queste promesse si concretizzarono presto. Nel dicembre del 1947 fu approvato dalla Costituente l'articolo nel quale venivano elencate le condizioni necessarie e sufficienti per procedere alla fusione di Regioni o alla creazione di nuove Regioni. Ma quelle condizioni mettevano seccamente il Molise fuori gioco, già nel fissare a 500.000 il numero minimo degli abitanti di una nuova regione.
Sembrava avviarsi mestamente al fallimento tutta la battaglia dei molisani (sebbene non si potesse dar torto ai costituenti, giustamente timorosi - viste le tradizioni municipaliste e il campanilismo sfrenato di certe zone d'Italia - di scoraggiare la corsa alle micro-regioni).
Però lon. Mortati, democristiano, propose che "fino cinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione, si potrà procedere, con leggi costituzionali, alla modifica delle circoscrizioni regionali... anche senza il concorso delle condizioni" previste dall'articolo su ricordato. Inutile sottolineare la pressione sotterranea effettuata specialmente da Camposarcuno presso i vertici del suo partito. Fatto sta che la proposta Mortati fu approvata senza contrasti.
Essa divenne la XI delle Disposizioni transitorie e finali della Carta Costituzionale.
Intanto, proprio intorno al 1947, in Benevento si costituì un comitato per la creazione della Regione Sannio, che si rivolse pressantemente a tutti i costituenti affinché ostacolassero la nascita del "Molise", separato dallAbruzzo.
Ma energica fu, secondo la testimonianza di Camposarcuno, la reazione dei deputati molisani di tutti i partiti. D'altronde, come già Lussu aveva messo in evidenza tempo prima, Benevento ricominciava a fare i conti... senza l'oste, cioè senza Avellino. Infatti il Comitato Provinciale della D.C. di Avellino, in risposta all'iniziativa "sannitica" emanava un documento in cui ribadiva la sua contrarietà all'azione intrapresa da Benevento (17).
Un altro parziale successo, la pattuglia dei costituenti molisani l'ottenne quando l'iniziativa pressoché congiunta di Camposarcuno e di Colitto approdò all'approvazione della IV Disposizione tra quelle transitorie e finali del testo costituzionale" per la quale Molise ed Abruzzo avrebbero eletto i loro senatori come distinte regioni. Parimenti, in una seduta successiva, allo scadere dell'anno 1947 fu stabilito che i molisani avrebbero eletto i loro deputati non più nell'ambito della circoscrizione Campobasso-Benevento ma nell'ambito di una circoscrizione esclusivamente molisana.
Era un'altra tappa.
Ma ad un certo punto il traguardo definitivo sembrò allontanarsi pericolosamente, per un'altra complicazione.
La Disposizione XI, come si sa, prescriveva che la deroga alle condizioni previste dallarticolo 132, era limitata a cinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione e che, comunque, restava obbligo - per la modifica in un senso qualsiasi dell'elenco delle Regioni già fissato - di sentire le popolazioni interessate. E intanto si avvicinava inesorabilmente l'anno 1953 e nessun passo avanti aveva registrato, nei fatti, il movimento autonomistico molisano, soprattutto perché nessuna legge era intervenuta a disciplinare "l'obbligo di sentire le popolazioni interessate".
L'on. Camposarcuno, allora, nel luglio del 1952, presentò alla Camera una proposta di proroga quinquennale della Disposizione XI. La Camera approvò nell'ottobre dello stesso anno la proposta di Camposarcuno.
Ma il Senato fu meno sollecito e quando le Camere furono sciolte per le elezioni del 1953 gli archivi di Palazzo Madama inghiottirono quella proposta di proroga della Disposizione XI.
All'aprirsi della nuova legislatura, che a ragione Camposarcuno considerava decisiva per le sorti della lotta intrapresa ben trent'anni prima, la questione aveva trovato elementi di rasserenamento. L'on. Colitto, infatti, si era dato da fare perché, finalmente, una legge disciplinasse l "obbligo di sentire le popolazioni interessate" fissandone il come e il quando.
* * *
Ma siamo, ormai, nella seconda metà degli anni Cinquanta.
Le vicende, tra il 1957 (quando fu approvata dopo vivace e sottile disputa parlamentare la proroga quinquennale alla DisposizioneXI) (18) e il 1963 sono in parte "parlamentari" e in parte (la più interessante) "locali".
Su queste varrà la pena di soffermarsi.
Per l'ultimo decennio della battaglia autonomista m'è parso utile scegliere come principale punto d'osservazione quel tanto di stampa locale che la Biblioteca provinciale di Campobasso ancora conserva sul periodo in questione, per ricostruire, con il riverbero emanato dal calore della cronaca, gli avvenimenti, nella loro traballante drammaticità. Drammatici, cioè, talvolta, quei fatti ma talvolta, contemporaneamente - e italianamente, a dirla con gli inglesi drammatici ma non seri.
Accanto alle pagine quasi sempre pigre e notarili (ad eccezione dei non frequenti pezzi firmati da Annibale Orlando) de II Messaggero del Molise (la pagina dedicata dal quotidiano romano alla cronaca regionale), nel 1949 irruppe, con giovanile e un po' sfrontata vivacità (si pensi a certe foto di ragazze in bikini "dedicate" al timorato establishment democristiano di allora) nello stagno della pubblicistica campobassana, il periodico liberale Molise Nuovo, presto diretto da un giovanissimo Federico Orlando - oggi autorevole editorialista de II Giornale nuovo di Montanelli.
Molise Nuovo, a dire il vero, non inforcò risolutamente il cavallo di battaglia dell'autonomismo.
Il mondo liberale, sia nella sfera nazionale, sia, evidentemente, nella microsfera provinciale, guardava infatti con qualche cautela e qualche diffidenza alla battaglia autonomista. Perché? Perché se è vero che Colitto, il leader del liberalismo molisano, era stato in prima fila alla Costituente e dopo, nel sostenere le ragioni del distacco (distacco dal quale, per altro, le sue fortune elettorali riuscirono, se non compromesse, almeno vulnerate), è pur vero che dagli anni cinquanta in poi andò gradatamente montando, sostenuta da uno schieramento massiccio (ancorché qua e là incrinato), la richiesta di attuare la Costituzione per ciò che concerneva l'istituzione dell'Ente Regione. Ora le sinistre, dopo anni di tiepidezza, battevano la grancassa e la D.C. faceva eco. I liberali, invece, temevano fortemente che si arrivasse ad un'articolazione regionale delle strutture politico - amministrative dello stato unitario. Questo è noto e non vale la pena d'insistervi.
Nel Molise, però, i liberali occupavano una scomoda posizione, a cavalcioni di un crinale dal quale si protendevano due pendii ambedue sdrucciolevoli e insidiosi: da un lato non potevano acriticamente unirsi al coro maggioritario degli osanna al Molise-Regione, perché avrebbero finito col portare acqua al mulino che macinava insieme la richiesta del distacco e la richiesta (in tempi lunghi) dell'ordinamento regionalistico dello stato. D'altro canto i liberali non potevano nemmeno prendere troppo le distanze dagli "autonomisti" più sbracciati e chiassosi perché avrebbero prestato il fianco all'accusa (ingiusta) di essere tiepidi amanti del Molise e, magari, servi di chissà chi.
Si nota, infatti, in Molise Nuovo, già nel 1949, un atteggiamento guardingo di fronte al tema dell'autonomismo molisano. Sebbene pressati da avvenimenti che imponevano risoluti interventi (come vedremo) i liberali molisani, tramite Gaetano Giampaolo, consigliere nazionale del partito, scrissero a chiare lettere, sul loro organo, "Regione sì, regionalismo no."
Ma, intanto, tra il 1956 e il 1957 si gonfiò ed esplose clamorosamente e un po' beceramente il caso-Isernia, che deflagrò, come una mina. su un cammino già accidentato e percorso, con verbose fughe in avanti o passettini da minuetto, dallo staff dirigenziale democristiano del Molise.
Il caso-Isernia merita anch'esso una separata ricostruzione più dettagliata e "storicizzata" e ormai sine ira et studio, ma nell'ambito di questo saggio è indispensabile lumeggiare i tratti fondamentali della vicenda, perché alcuni risvolti di essa si incastrano alla perfezione nei quesiti che stanno a fondamento di questa indagine.
Federico Orlando, su Nord e Sud del 1955 - era neonata la prestigiosa pubblicazione di F. Compagna - cosi riassumeva la questione, in una nota intitolata Tra Isemia e Campobasso (19) : egli ricordava come il Comitato per la Regione Molise fosse naufragato nelle sabbie mobili della routine e declinato fino a volatilizzarsi insieme alle ambizioni politiche dei suoi maggiori componenti (era un comitato insediato a Campobasso subito dopo la caduta del fascismo); ma che non era naufragato un altro comitato, quello sorto per rivendicare a Isemia il diritto di raccogliere intorno a sé la seconda provincia molisana. (20) Orlando nega che esistano ragioni obiettive a sostegno dell'aspirazione di Isernia, le cui vere ragioni vanno collocate "nel quadro delle tradizionali forze centrifughe operanti nel Mezzogiorgno", forze che derivano dall'ordinamento statale, così centralistico da far scaricare tutte le colpe dell'arretratezza sul "governo" e sul "centro", sia esso Roma e Campobasso.
"E' sorto così - prosegue Orlando - il mito di Campobasso ostile allo sviluppo di ogni altra cittadina della Regione". Consultate le cifre, Orlando conclude osservando che, essendo passivo abbondantemente il bilancio della provincia di Campobasso ed essendo il Molise più povero (losso del Molise, diremmo, se mai nel Molise vi fosse veramente una "polpa") quello rivendicato da Isernia, a Campobasso converrebbe alquanto la "secessione" isernina, da questo punto di vista; ma è pur vero -argomenta Orlando - che i paesi destinati alla seconda provincia, costretti a "edificare" le strutture appunto della seconda provincia, dovrebbero accollarsi un peso fiscale sensibilmente più cospicuo - a meno di non scaricarlo su Campobasso. L'argomento è robusto, e, secondo l'articolista, è sostenuto da un'indagine ufficiale effettuata dalla prefettura di Campobasso. Perciò Orlando legittimamente ammonisce:
" Pensiamo che l'empito delle classi dirigenti non sia quello di secondare le popolazioni nella loro ingenua tendenza ali esaltazione retorica, ma quella di tenersi entro i termini di una visione politica attuale e realistica"
In realtà a me pare che il vizio di fondo delle rivendicazioni isernine sia il medesimo che s'annidava nell'autonomismo molisano: appelli appassionati al passato (oggi, in quel di Isernia è di moda addirittura il "pentrismo"), spreco di "diritti sacrosanti" e, sotto sotto, la speranza di veder impinguare soprattutto la dimensione burocratico-amministrativa delle risorse occupazionali (fecondo terreno di caccia ai voti, d'altronde). Almeno, è questa l'impressione che ricava chi ripercorre queste vicende e non trova nessun progetto realistico, fondato su precise coordinate geo-economiche, su agguerrite indagini socioeconomiche, da offrire come modello di riscatto per un Molise "indipendente" e un'Isernia "libera". (21)
Ma al di là delle molteplici riflessioni sul costume, sulla mentalità collettiva, sullo spessore secolare (e perciò foriero d'indulgenza) di alcuni vizi che la storia aveva consegnato al Mezzogiorno (non al Molise soltanto), la questione isernina cominciava a lacerare la bella favola su cui fondava alcuni dei suoi argomenti-cardine il movimento autonomistico molisano. Dal tempo del Masciotta s'era sostenuto che il Molise era un'area territorialmente definita, etnicamente riconoscibile, storicamente individuata e perciò compatta e cementata, (intorno a Campobasso, è lecito presumere).
Cosa stava avvenendo, invece, in quel lontano (ma non tanto) 1957?
Corrado Caluori, corrispondente da Campobasso per II Messaggero del Mezzogiorno, il 6 gennaio del '57 denunciava che alcune cittadine come Isernia e Larino e Termoli "tradivano" il movimento autonomistico molisano e chiedendo di dar vita ad altre province, obiettivamente sfaldavano l'unità dei molisani. (22) E le notizie che fioccavano erano davvero una beffa per i molisisti di granito: il 21 febbraio 1957 era posto in discussione alla Camera, ed approvato, un disegno di legge, presentato dal tandem Di Giacomo-Colitto e corroborato dal consenso di ben 253 parlamentari di ogni partito (23), con il quale veniva richiesta l'istituzione della seconda provincia molisana, quella di Isemia.
Era un gran giorno per Isernia, ma non per tutto il resto del Molise (almeno a livello di "gente-che-conta").
Come era presentata, infatti, da Isemia, questa prima "vittoria"? Qualche mese prima di quel 21 febbraio, sul finire dell'ottobre 1956, a Isernia un'imponente manifestazione popolare, cui non mancò la presenza dei deputati presentatori del suddetto disegno di legge, si chiuse con l'approvazione di un o.d.g. in cui si poteva leggere: "II popolo isernino... rilevato che la proposta di legge per la creazione immediata della provincia di Isernia, premessa necessaria della regione Molise... ecc.". Era evidente che da Isernia partiva, con queste parole, un chiaro avvertimento a Campobasso: l'istituzione della provincia nuova è da farsi "prima", non "dopo" il conseguimento dell'autonomia regionale. Quindi: se Campobasso, gelosa, pesta i piedi a Isernia, Isernia, per ritorsione, mette i bastoni tra le ruote del disegno autonomista. D'altronde, una corrispondenza da Isernia su II Messaggero del Molise del 23 febbraio 1957, nel dare notizia dell'evento parlamentare legato al nome di Di Giacomo, così si concludeva: "... solamente quando avrà le due provincie di Campobasso e di Isernia, il Molise potrà veramente aspirare a diventare Regione".
Ma a fine febbraio Venafro sciopera "contro" Isernia e, anzi. chiede ufficialmente di passare alla provincia di Caserta, mentre parecchi paesi destinati alla targa automobilistica "IS" vanno in delegazione a Campobasao, proclamando la loro fedeltà al castello Monfortc.
Termoli non tace, ma spezza gli indugi e costituisce un comitato (se i molisani avessero amore per l'intrapresa economica come per i comitati!) mirante a congiungere la cittadina a Foggia. Riccia non vuoi essere da meno e ventila la minaccia di rifugiarsi tra le braccia di Benevento (24).
Si levano, da parte dei saggi, o dei campobassani (saggi... interessati) accuse di campanilismo sfrenato. Ma talvolta il pulpito...
In realtà era la storia, quella antica e quella più recente, unita all'impreparazione sconcertante della classe dirigente, a riempire di contenuti purtroppo concreti quel generico ed endemico "campanilismo". Tuttavia, di simili responsabilità certa carta stampata ossequiosamente taceva, mentre su Molise Nuovo Federico Orlando, gobettianamente, metteva sotto accusa le tare del borboni-smo e il fiorire del neo-borbonismo municipale e notabilare.
Come ho accennato, la vicenda della polemica tra Campobasso ed Isernia si presta a più ampie riflessioni; qui, però, essa interessa non poco, non di striscio, perché dalla guerriglia verbale emergono concetti, asprezze, pregiudizi, rancori, furori che sbriciolano pericolosamente il cemento su cui si edifica il mito della molisità, della compattezza di genti che "tutte insieme appassionatamente" volevano la stessa cosa, l'autonomia.
A Campobasso dilagava l'isteria. Ma v'erano pure isole di "ragione". Per esempio l'on. Colitto, in un discorso tenuto al Teatro Savoia in occasione del V Congresso regionale della Gioventù Liberale (25) ricordava il cammino percorse per giungere alla meta dell'autonomia regionale. Tra le tappe egli ricordava appunto l'istituzione (allora in fieri) della provincia isernina, perché uno degli impedimenti di maggior consistenza al traguardo dell'autonomia del Molise (26) era proprio il fatto che sarebbe stata una regione con una sola provincia: e qui egli aveva rammentato essere stato Tambroni, ministro degli Interni, a dichiarare il 21 febbraio 1957 che "quando il Molise avrà le sue due provincie, potrà allora veramente aspirare a diventar regione". Pragmatismo o comprensione verso gli isernini? Quale che fosse il movente, Colitto tendeva a sgonfiare la contesa montante (27).
Diversamente, la stampa locale campobassana (Il Messaggero del Molise, per esser precisi), sempre per bocca del Caluori, batteva il tasto dell'ostilità di Venafro e Frosolone a Isernia e tendeva a presentare una eventuale "vittoria" di Isernia come ottenuta "contro" Campobasso.
Sull'onda dell'irrazionalità dilagante (talvolta becera in misura sconcertante) si costituisce a Campobasso un Comitato (l'ennesimo!) "per la difesa di Campobasso". Difesa da chi? Da Isernia, naturalmente. Il prof. Adolfo Colagiovanni, nell'ottobre del '57, in una piazza di Campobasso arringa pittorescamente la folla con una dura requisitoria contro Isernia; preconizza lo sfascio dell'unità territoriale molisana se Isernia diverrà provincia, sì che il Molise ne resterebbe "smembrato" e annuncia l'intenzione di battersi perché il Parlamento non approvi, definitivamente (in uno dei due rami la legge per la provincia di Isernia era già passata) il provvedimento istitutivo della odiata provincia.
Naturalmente da Isernia non vengono voci di conciliazione (sebbene non tutte puzzino di municipalismo stantìo), e tra gli attacchi di vario genere e di varia caratura intellettuale rivolti all "imperialisrno" di Campobasso, spicca questo frammento, datato 13 novembre 1957 e comparso su II Messaggero del Molise: "Campobasso ha dichiarato il suo livore nei confronti di Isernia... Campo-basso non aveva certo nel 1806 più meriti di Isernia né di Larino per essere designato a capoluogo... Tutto... dimostra come Campobasso sia un capoluogo creato a forza" (non per necessità storica, quindi, n.d.A.). L'anonimo polemista prosegue denunciando che Campobasso, con avida volontà colonialista diremmo noi, si è potenziato a spese di tutto il resto del Molise (ben magro limone da spremere, comunque). Il quale Molise, ahilui, non è una regione che "naturalmente" ha trovato coi secoli il suo assetto territoriale intorno al suo capoluogo (come la maggior parte delle regioni "storiche"), ma anzi - secondo il polemista anonimo - dovrebbe tornare alla sua storica e naturale ripartizione amministrativa lasciando che l'Alto e il Basso Molise, "forzatamente legati a Campubasso" si costituiscano in province a sé, "naturalmente con la soppressione della provincia di Campobasso che non ha nessuna ragione di esistere" (la sottolineatura è nostra). Veniva così inficiato, sebbene senza argomenti, l'unico vero aggancio concretamente storico cui gli autonomisti potevano con qualche ragione affidarsi.
Quasi a far eco a sì tonante offensiva, il 22 novembre 1957 veniva iscritta all'o.d.g. del Senato la proposta di legge Magliano per l'istituzione della provincia Larino-Termoli. A rincarare la dose, qualche giorno dopo, Sabino D'Acunto, da Isernia, sprezzatamente riconosceva che "i commercianti di Isernia, con Napoli ad un tiro di fucile... non si sono mai sognati di recarsi nel capoluogo". E. insomma, "Isernia non ha bisogno di Campobasso" (28). Bene. Risparmio al lettore la guerriglia, non più soltanto verbale, che scoppiò tra molisani d'Isernia e molisani di Campobasso quando il Senato, tra la disperazione dei primi e il plauso strafottente dei secondi, bloccò il sogno d'Isernia (29).
Daltronde chi conosca "La secchia rapita" può farsi un'idea dell'eroicomico conflitto che "insanguinò" la nostra già per sé inguaiata regione.
E veniamo al punto. Chi s'ostinasse, a petto di questo pandemonio campanilistico, testé riassunto, a credere nel cemento spirituale, etnico, culturale, d'interessi e d'intenti che avrebbe dovuto giustificare la richiesta cosiddetta "sacrosanta" del distacco del Molise dall'Aquila, ebbene, costui sarebbe maturo per giurare sull'esistenza dell'ippogrifo.
Cos'era accaduto? Era accaduto che nel dicembre del 1957 Isernia aveva visto sul punto di realizzarsi quel suo grande sogno di farsi provincia, nutrito e rivendicato fin dal 1946 (anzi, a testimonianza di Longobardi, addirittura fin dai tempi di Gioacchino Murat), essendo in discussione al Senato la proposta di legge sulla costituzione della suddetta provincia, proposta già "passata" alla Camera nel febbraio. Ma qualche nube s'addensava all'orizzonte. Il 21 novembre, la Commissione Finanze e Tesoro del senato esprimeva parere contrario circa l'opportunità di creare nuove provincie ritenendo troppo gravoso l'onere per lo Stato. La proposta, comunque, era arrivata in aula e a Palazzo Madama prima o poi doveva essere votata. A Isernia la tensione era altissima e la convinzione di aver ormai raggiunto il traguardo fermissima: circolavano già le targhe di cartone con la IS agognata, una bambina era stata battezzata Provincia (sarebbe stata, però, chiamata Etra), l'eccitazione coinvolgeva tutti spingendo ad abbracci fraterni e guareschiani preti e comunisti. Campobasso vigilava, protestava, faceva pressioni su Roma perché il Senato dicesse "no" ad Isernia. Le ragioni accampate erano economiche: Isernia graverà sulle nostre spalle, dovremo essere noi a pagare questo sfizio degli i-sernini si vociferava e si scriveva nelle risoluzioni ufficiali. Ma il timore di veder compromesse personali fortune politiche e ristrette certe aree di potere era ugualmente determinante, ancorché taciuto, o rivelato solo agli intimi. La notte del 13 dicembre, infine. alle ore 23 circa, il sen, Magliano, telefona a Campobasso, con voce rotta dalla commozione (così nella cronaca di De Monte del 14 dicembre) e annunzia: "E fatta, siamo riusciti a spuntarla; diciotto voti, soltanto diciotto voti, ci danno partita vinta". A Campobasso vola qualche tappo di spumante. A Isernia, invece, (è Longobardi che scrive) "sono corse parole e frasi grosse; qualcuno aveva le tasche piene di sassi aguzzi; altri minacciavano il finimondo". Ma la cittadina è presidiata. "La tramontana fischia sulle canne dei mitra delle forze dell'ordine, che pattugliano la città".
Perché il Senato aveva detto "no", dopo che la Camera, mesi addietro, aveva detto "sì" alla medesima richiesta?
Credo per tre ragioni: primo, perché la lista delle cittadine in attesa di diventar provincia si allungava quasi ogni giorno e il Senato era preoccupato della rovinosa probabile proliferazione: (F. Orlando, su Molise Nuovo 15 marzo 1957 conta almeno quattordici richieste); secondo, perché il peso politico-parlamentare di Campobasso, per quanto effimero al momento di chiedere la Regione era pur sempre sufficiente a vincere il braccio di ferro con Isernia, la cui vittoria avrebbe nuociuto a non pochi interessi clientelari; terzo, perché certi conti obiettivamente dimostravano essere un onere di qualche rilievo per lo Stato e di notevole impegno per Campobasso l'istituzione e il funzionamento della novella provincia.
A onor del vero, però, le acque si calmarono presto e i gesti distensivi da tutti e due i "fronti" cominciarono subito dopo quel fatidico 13 dicembre.
Si scopriva invece, in quel tormentato scorcio del 1957, che quel Molise il quale voleva, in nome della sua storica ed individua fisionomia, separarsi dallAbruzzo, per "risorgere a nuova vita" (mancavano solo Garibaldi e Cavour a suonar le trombe), era in realtà una gabbia dalle malferme inferriate entro cui quattro o cinque clan di litigiosi animali si disputavano ad alte grida qualche brandello di carne penzolante da ossa già rosicchiate.
E invece, che il senno dei molisani non fosse del tutto fuggito sulla luna insieme a quello d'Orlando paladino, ce lo testimonia un altro... Orlando, Annibale questa volta, che il 20 di dicembre di quell'anno quasi suggellava l'irreale batracomiomachia con queste parole:
"II furore che sconvolge in questi giorni l'animo degli isernini è la riprova che nel Molise 1957 la sola speranza di avere un Prefetto o un Questore... è riguardata come la possibilità d'integrare il magro bilancio dei singoli e di risollevare l'economia".
Orlando chiamava, cioè, in causa i veri responsabili. Perché, certamente, di quella gazzarra grottesca gli isernini qualsiasi e i campobassani qualsiasi, i molisani qualunque voglio dire, erano meno responsabili di coloro i quali li aizzavano e li galvanizzavano e avrebbero invece dovuto spendere ben prima le loro energie e le loro intelligenze a costruire per i molisani tutti una realtà di sviluppo economico e di dignità sociale meno medievali.
D'altronde, che i molisani capissero che razza di baruffa operettistica li stava dilaniando, lo dice quell'ignoto signore di Termoli, che, intervistato da Luciano Chitarrini de II Messaggero (30) alla domanda: la polemica è alimentata forse da ristretti gruppi?, risponde, breve e profondo: i nostri problemi sono altri, il porto, l'autostrada, l'elettrificazione delle ferrovie.
L'ignoto passante termolese diceva, in altre parole, che era inutile accapigliarsi intorno agli orpelli amministrativi, se le condizioni delle "cose" non venivano discusse e comunque restavano tali quali erano.
Si dirà: ma dalle nuove creazioni amministrative, dal "distacco", giovane linfa di progresso sarebbe stata immessa nella sclerotica circolazione sanguigna dell'economia molisana. Questa, tuttavia, restava una speranza non sostenuta. come s'è detto più volte, da nessuna concreta "idea del Molise" intorno alla quale far ruotare un serio e realistico programma di rilancio.
Perché, a dirla franca, facile è dire: dobbiamo sviluppare l'agricoltura, ammodernarla, impiantare le industrie, costruire scuole e case e ospedali, aprire strade ecc, ecc. Tutti son buoni (e furon buoni) a scrivere libri dei sogni e cahiers des doléances: ma pochi sono (e furon) capaci di dire "come", "quando", con quali forze, nell'ambito dì quali politiche economiche ecc. ecc. ***
Con il 1958 siamo già quasi fuori del recinto cronologico entro cui questa rivista che mi ospita "segnò li suoi riguardi" e debbo vincere la tentazione di forzare ulteriormente i confini.
Tra il '58 e il '63, con lentezza esasperante, la navicella dell'autonomìa molisana toccò terra, ma l'equipaggio non cessò di essere rissoso e i nocchieri (specialmente i Sedati, i Lapenna, i Sammartino ecc.) non furono al riparo da pesanti accuse (31), di varia provenienza.
Né si può dire che a quelle accuse la D.C. rispondesse con i fatti (con le parole ci pensavano certe note de Il Messaggero del Molise, per lo più non firmate, a parare i colpi, almeno per alcuni dei grossi notabili attaccati).
Per la verità, perfino il giornale che ci serve qui da traccia, alla fine di settembre del 1963 (mancavano pochissimi mesi a quel 31 dicembre, giorno dopo il quale, scadendo l'estrema proroga della Disposizione XI, sarebbe sfumata ogni speranza degli autonomisti) usciva con un titolo ammonitore "Immobilismo del Comitato pro-Regione" e l'occhiello aggiungeva "L'on. Lapenna, eletto presidente il 31 agosto scorso, non ha ancora convocato il comitato".
Comunque, seppur tra soffocanti rigurgiti di "isernismo", la navicella andò in porto e il 18 dicembre 1963, su un'intera pagina, dedicata all'avvenimento Il Messaggero del Molise annunciava che il giorno prima 17 dicembre, la legge Magliano era stata approvata in seconda e definitiva lettura alla Camera. Era nata la ventesima regione d'Italia.
L'on. Sedati dettava un convenzionale articolo (il consueto programma-enciclopedia a metà tra la platonica dichiarazione d'intenti e l'asettico elenco telefono delle esigenze meno controverse), mentre più a fondo nel bilancio-prospettiva andavano sia Annibale Orlando, sia l'inviato speciale del Messaggero Giuseppe Columba.
Quest'ultimo, in una corrispondenza da Campobasso del 18 dicembre 1963 riconosceva i vantaggi dell'autonomia e coglieva nel segno ("La situazione abnorme di questo territorio era la sua dipendenza da sette diverse regioni, per trentatré diversi uffici..." ma coglieva nel segno anche quando segnalava che i contadini, di fronte al tripudio di Campobasso "si chiederanno cosa sia mai accaduto e se per caso non si tratta di una nuova guerra. Quando si dirà loro che il Molise è divenuto Regione, scuoteranno la testa e chiederanno quanto più grano questo farà crescere nei campi, quanti trattori vi farà arrivare. Il Molise è ancora al punto di partenza... ha bisogno di costruirsi un'economia, di trovare la chiave per lo sviluppo". Ma questa chiave il politico avrebbe dovuto trovarla già prima, farsi trovare preparato all'appuntamento: se no, a che serve avere una classe che si autodefinisce "dirigente"?
Annibale Orlando, infatti, (32) apriva un consuntivo della "battaglia regionale" così: "Benché preparato da decenni di attesa e da diciassette anni di azione parlamentare, l'evento regionale ha colto di sorpresa la classe dirigente molisana. Se così non fosse non si spiegherebbe il tono generico e anodino delle dichiarazioni rilasciate all'indomani del voto".
Orlando, con sereno coraggio, nel bel mezzo della "festa", continuava ribadendo l'immagine del popolo molisano come "di un popolo afflitto, disamorato, scettico, reso estraneo ai problemi dello Stato dal diaframma dell'omertà ufficiale. Un quadro nel quale non [devono avere] asilo le stupidità della razza forte e gentile e delle bellezze sempre da scoprire e mai scoperte".
E affondando ancora la lama, il giornalista preannunciava che "gli assertori della linea del progresso dovranno prepararsi ... all'ostilità di quanti hanno trovato la saldatura tra l'arretratezza del Molise e i loro personali interessi" (133), sicché, d'ora in poi. la lotta sarà "all'interno di ogni partito, tra quanti aspirano a dare alla conquistata autonomia un contenuto di rinnovamento economie e morale e quanti invece pretendono di ridurre quarant'anni di lotte nel cerchio asfittico delle ambizioni campanilistiche appagate". Perché, infatti, il pericolo più grave che Orlando paventava per il futuro molisano era che "la ventesima Regione... dovesse limitarsi a dar lavoro ad alcune centinaia di disoccupati di Campobasso... e dovesse incarnarsi nell'elefantiasi del corpo burocratico del Ca-poluogo".
* * *
Nell'ottobre del 1967, su Nord e Sud, un giovanissimo discepolo di Francesco Compagna, Luigi Picardi - molisano - tracciò un primo bilancio degli anni intercorsi tra il tripudiante dicembre del '63 e il '67. L'occasione la fornì il primo Piano Economico di Sviluppo per la Regione Molise, elaborato dal neonato Comitato regionale per la Programmazione e pubblicato qualche mese avanti. Piacerebbe citare largamente dal saggio di Picardi (che aveva un titolo provocatorio Il Molise centrifugo} ma qui basterà ridisegnarne il filo conduttore (34).
Premesso che "la lotta per il riconoscimento regionale non aveva ottenuto... la partecipazione di tutti i molisani, ma solo di una ristretta minoranza di essi" e che quella del dicembre '63 fu la vittoria dei cultori di storia patria e di quei politici che avevano legato alla soluzione del problema il rialzo delle proprie quotazioni politiche, Picardi denunciava che dal problema del riconoscimento regionale era "scaturito un vero e proprio mito alimentato da una classe politica quasi sempre sfornita di attitudini tecniche e imprenditoriali" che utilizzava quella bandiera "forse per nascondere la propria incapacità di risolvere i problemi nella sostanza". Ed il problema sostanziale, che dopo quattro anni di autonomia, restava ancora al grado zero di risoluzione, era quello non di sviluppare una regione già esistente, ma di "costruire sostanzialmente una regione dopo averla formalmente individuata" ed aver assodato che il Molise è "di difficile configurazione come regione, qualora ci si attenga ad un punto di vista strettamente economico, demografico, urbanistico" (35).
Picardi - erano gli anni in cui prosperava la fiducia nella programmazione - individuava la soluzione del problema nell'assunzione, da parte della classe dirigente molisana, del concetto moderno di regione-programma, intorno a cui far ruotare una vasta e scrupolosa strategia di comportamenti e interventi coerenti. Ma questo traguardo esigeva (ed esige) uno svecchiamento dell'attrezzatura culturale (quando ci sia) dei politici che "schiacciano i bottoni" e la rinuncia a concepire le regioni come entità monolitiche consegnate al presente dalla storia passata: inconsistenti entità, per il vero, che, per esempio, l'apertura di una rete stradale nuova basta a sgretolare.
Il giovane studioso campobassano, forte ancora di un Errico Presutti che aveva giudicato il Molise "discentrato e disperso in borgate incomprensibili e isolate" e senza "la sapienza dell'organismo che raccolga" gli elementi individuali pur pregevoli, riconosceva prevalenti nel Molise le forze centrifughe, non bilanciate dal magnetismo centripeto di un centro urbano animatore, coordinatore e propulsore.
Certo, Picardi non giungeva a condividere l'estremismo illuministico di Compagna, favorevole addirittura ad uno smembramento del Molise tra le regioni confinanti, ma ammetteva che fino ad allora si era "posto l'accento più sul fatto che il Molise non era l'Abruzzo, non era la Puglia, non era la Campania... che non sul fatto che fosse appunto il Molise" (a parte i cultori di storia patria e, Dio ne scampi, i "pentristi"). Ciò nonostante, concludeva Picardi, "una politica per il Molise è oggi una politica della città... nello spirito della geografia volontaria".
Oggi, dopo tredici anni da quell'articolo, è legittimo chiedersi: i timori di Picardi, simili a quelli di Orlando nel '63. furono esagerati, sono oggi vanificati dalla realtà?
Un luogo comune vuole che non si debba scrivere la storia con i "se". Max Weber, invece, trova legittimo chiedersi che cosa sarebbe accaduto "se" Milziade non avesse sconfitto i Persiani a Maratona. Non vorrei tuttavia far mostra di confondere Milziade con Camposarcuno - ancorché il tono epico sia stato scomodato più volte durante la "battaglia" per l'autonomia molisana.
Il nome di Weber serve a trovar conforto nel porsi una domanda: che cosa sarebbe accaduto se la battaglia per l'autonomia regionale fosse stata condotta in modo diverso, con altri contenuti e altri fini? Questo, naturalmente, non per istruire un processo (l'illuministico tribunale della Ragione ha chiuso da tempo i battenti) agli uomini che condussero, allora, quella battaglia: ma per capire meglio il Molise oggi qual è, cosa gli manca. Daltronde, non è per questo che si fa storia?
Quali idee, dunque sorressero (a parte gli interessi) il movimento autonomistico? Sostanzialmente due:
(1) la convinzione che il Molise avesse avuta una storia "unitaria", la quale avrebbe disegnato, nei secoli, una fisionomia di spiccata individualità per la provincia di Campobasso rispetto a quelle confinanti. Questa convinzione ringalluzziva molto tutto il ceto medio locale (cioè l'opinione pubblica che "contava") e combaciava perfettamente con la sua media e mediocre cultura umanistico-retorica, trovando compimento nella perentoria asserzione che il Molise aveva diritto (sempre "sacrosanto") a non confondersi con lAbruzzo;
(2) l'altro convincimento, spesso intrecciato al primo, era che lo sparpagliamento degli uffici amministrativi da cui dipendevano i molisani, nuoceva loro grandemente, era fonte di lungaggini, diseguaglianze, dispendi ingiustificati di tempo e di denaro.
Ora, se la prima tendenza si muoveva nell'alta sfera delle enunciazioni ideali, con il rischio di... elevarsi a tal punto da perdere i contatti con la realtà e il buon senso storiografici, l'altra tendenza, piuttosto sanciopanzescamente efficace, pareva ridurre tutto il battage ad una brutale ingiunzione: siamo stanchi di girare come trottole da Napoli a Roma, dall'Aquila a Foggia. Dateci i nostri sportelli, e un po' di scrivanie per i nostri disoccupati.
In verità ancor oggi l'eredità dì queste due tendenze prospera nel Molise: la prima, nei donchisciotte molisisti (e, per carità, pentristi) che s'ostinano a dare, che so, la patente di "molisista" alla cultura tutt'affatto napoletana di un Galanti e di un Cuoco.
D'altronde in Molise, come in tanto Mezzogiorno, se l'uomo della strada vive nel migliore dei mondi possibili quando la squadra di calcio vince (meglio se in trasferta), parimenti l'uomo della biblioteca ha adempiuto ad ogni suo dovere quando ha scoperto che il tale illustre sconosciuto è nato all'ombra del suo campanile e non dell'odiato campanile vicino (36).
Che cosa dunque avrebbe giovato, rimpolpato e dato respiro all'esito e al significato del movimento regionalistico molisano? Che la prima "idea" si depurasse del suo astrattismo e della sua retorica e che "quagliasse" su un progetto culturale ed economico-sociale tagliato su misura per una piccola regione, derelitta arretratissima porzione dell'Italia, costretta dalle cose ad integrarsi con le aree vicine e non a differenziarsene più o meno capricciosamente; e che l'altra "idea" fornisse a quel progetto tutta una carica di sano buon senso e il contributo di realismo di cui era capace.
Ma questi "se" non si sono appunto verifìcati. E così Picardi, nel 1967, poteva lamentare la mancanza di un progetto-regione. di una regione-programma nel quadro di quella programmazione cui allora si affidavano le speranze dei progressisti, veri e mascherati.
E così oggi, mentre l'autonomia regionale ha acquisito un rilevante significato politico, esorbitando dai confini amministrativi per l'attuazione della Costituzione in senso regionalistico, si deve ancora lamentare che la cultura "molisana" sia ancora stretta parente della metastasiana araba fenice, e che l'idea-regione sia stata soffocata, silenziosamente, da un grigio manto di scrivanie, senza perché ma con molti "per chi" e avvolta in un triste sudario di promesse mancate e slogans elettorali, mentre più in basso la rissa delle fazioni faceva baccano, duole dirlo, non per i programmi ma intorno alle poltrone e ai pacchetti di voti.
Andrea de Lisio
NOTE