BELLEZZA E COMMOZIONE

Verso una definizione dell'estetica giapponese


La particolare sensibilità dei giapponesi nasce dalla compenetrazione delle due anime di questo popolo: da un lato le concezioni animistiche, risalenti all'antichissimo sciamanesimo di matrice uraloaltaica che costituisce il più profondo substrato della cultura nipponica e che solo in epoca storica ha trovato nello scintoismo la sua formulazione religiosa, dall'altro il pessimismo cosmico del buddhismo, religione giunta dalla Cina nel V secolo, che i giapponesi non trascurarono di adattare al loro genio ottenendo quella formidabile sintesi di opposti che è lo zen. Non vi potrebbe essere maggiore contrasto: mentre il buddhismo rifugge questo mondo di illusioni, lo scintoismo vi scorge invece un bagliore spirituale. Due anime tanto diverse si sono fuse armoniosamente nel cuore del popolo giapponese, illuminandosi l'una con l'altra e forgiando, nel corso dei secoli, il gusto estetico del Sol Levante.

Laddove l'occidente tende a distinguere, l'oriente tende ad unire. La mentalità occidentale è condizionata dalla logica razionale; quella orientale rifugge da qualsiasi struttura. Le nostre "verità" si escludono a vicenda, spesso con virulenza; quelle orientali tendono a coesistere in armonia l'una accanto all'altra. Nei giardini occidentali domina l'ordine geometrico e l'amore per la simmetria; nei giardini giapponesi ogni elemento, albero pietra canna o stagno, è disposto senza alcuno schema percepibile. Si cerca di ricreare la spontaneità della natura, poiché è proprio dalla spontaneità che sgorga il mistero dell'essere. Noi occidentali siamo abituati, in virtù di una logica che affonda le sue radici in Aristotele, a definire dettagliatamente termini e simboli, cercando di circoscriverne il significato in una continua ricerca di chiarezza semantica; al contrario, lo spirito orientale rifugge il pensiero analitico, tende a "sfumare" i propri simboli, a farli funzionare contemporaneamente su molti livelli, in una sorta di intreccio sinestetico.

L'esempio più eclatante lo troviamo forse nella scrittura, dove l'ideogramma [kanji] è il simbolo grafico di un concetto, di un'idea, di una cosa, e solo accessoriamente suono e pronuncia. Una poesia scritta in ideogrammi non è solo da leggere, ma anche da ammirare visivamente, come un quadro. Il kanji è contemporaneamente grafema e fonema, idea e parola, significato e significante. Bisognerebbe riflettere su questi punti allorché ci si chiede perché mai i giapponesi non rinuncino alla loro anacronistica scrittura per usare invece il praticissimo alfabeto latino... ma basta la semplice costatazione che i kanji sono elegantissimi, nella loro espressione di astratta bellezza, per indurci a prendere le distanze da qualunque idea di "praticità" occidentale. I giapponesi considerano la calligrafia una forma d'arte (se non addirittura religione, suggerisce Waley) e nel corso dei secoli hanno cercato di raggiungere la perfezione grafica proprio nella nervosa asimmetria dei kanji, in cui ogni tratto di pennello ha raggiunto una perfetta funzionalità estetica. È stato suggerito che la mancanza, in Estremo Oriente, di una tradizione musicale paragonabile a quella europea, sia dovuta al fatto che l'esigenza per l'arte astratta è stata appunto sublimata nella scrittura.

Ma quest'idea della polifunzionalità dei simboli, che ha trovato una così elegante rappresentazione nella scrittura, vale per molti altri aspetti della vita mentale dei giapponesi. Sembra che essi siano abituati ad "ascoltare" i suoni della natura con la stessa area del cervello utilizzata per la comprensione del linguaggio: se fosse davvero così, si potrebbe spiegare il vasto impiego delle onomatopee nella loro lingua. Strane sillabe rendono il fragore del tuono, lo scrosciare delle onde, il cozzo delle armi, il fruscio della penna sulla carta, il vento che soffia o addirittura... il silenzio. Difficile per noi capire quale piacere possa dare a un giapponese lo stridulare d'un grillo in una gabbietta... suono che noi troviamo così esasperante da indurci a uscire in giardino con una scarpa in mano. Si può forse immaginare quel cri-cri trasformarsi, alle orecchie di un giapponese, in una sorta di ideogramma sonoro di incomparabile bellezza.

L'origine di questo modo di estendere l'esperienza sensoriale su vari livelli di significato va forse cercato nella visione animistica della realtà. In una concezione del mondo dove tutti gli elementi della natura circolano incessantemente di vita in vita e di forma in forma, la contemplazione estetica diventa qualcosa di sacro, come una preghiera. I templi scintoisti sono delle semplici costruzioni di legno, spesso poste in luoghi elevati, a stretto contatto con l'ambiente naturale, dove l'occhio ha spazio per vagare ma nulla su cui soffermarsi. Nei riti, sfilano sacerdoti vestiti di bianco, con neri copricapi e sandali di legno, si odono colpi di tamburelli e di gong, danzatori di entrambi i sessi si muovono come fossero in trance, e intanto le rocce, le foreste, le montagne e il mare si animano di misteriose energie kamiche. Quando il rito finisce e i danzatori scompaiono, tutto quanto intorno ritorna austero e silenzioso, com'era all'inizio. Ma a questo punto qualcosa è cambiato nell'occhio dello spettatore: egli è diventato consapevole della meraviglia del mondo. Lo scintoismo ha in sé qualcosa di essenzialmente estetico: questa religione non si muove nella direzione della salvezza o della liberazione, ma in quella della meraviglia e della gratitudine. È la rivelazione del mistero celato nel cuore delle cose.

Fatte queste premesse, è ovvio che le espressioni artistiche del Sol Levante seguano linee diverse, perseguano scopi diversi. Invano cercheremo nell'arte tradizionale orientale quel culto del corpo umano che è invece così popolare nel mondo occidentale, dagli antichi greci in poi. Mentre l'arte occidentale pone l'uomo al centro della sua ricerca espressiva, nelle arti orientali le figure umane sono trattate come semplici elementi di un paesaggio, così come gli alberi, le case, le rocce. In certa misura questo avviene anche nei "quadri del mondo impermanente", le famose stampe ukiyoe note anche in occidente, le quali, rivolte alla raffigurazione dell'uomo e delle sue attività, finiscono invece per mostrare scenari dove le persone appaiono in secondo piano. Nelle splendide stampe di Hokusai o Hiroshige vediamo spesso schiere di omini che laboriosamente costruiscono case o navi, o gettano reti in un mare in tempesta, o arrancano con i bastoni in pugno lungo sentieri battuti dal vento, mentre intorno a loro si stende una natura di travolgente, minacciosa bellezza. Non potrebbe esservi maggior contrasto tra l'esistenza faticosa ed effimera degli uomini e l'immota maestà del Fujiyama che tanto spesso ne sovrasta le piccole figure. L'oriente dà poca importanza all'individuo, ragion per cui vi manca quasi del tutto l'arte del ritratto (anche se troviamo delle eccezioni in pittori della tempra di Sharaku e Utamaro). Ne risulta una strana constatazione: una civiltà che ha studiato per secoli le proporzioni degli ideogrammi non ha mai stabilito canoni precisi per la raffigurazione del corpo umano.

Fosco Maraini nota che l'arte classica ha abituato l'occidente a certi ideali di bellezza, ragione per cui i nostri gusti estetici si rivolgono soprattutto ai corpi giovani e belli. Ma il Giappone non solo non ha mai conosciuto un'estetica alla Winckelmann, un'esaltazione del corpo umano còlto nel culmine della perfezione fisica, ma è stato anche condizionato dall'idea buddhista per cui il corpo è solo un'illusorio guscio di materia animato dalle misteriose leggi del karma. "Ragion per cui", avverte Maraini, "il corpo umano, anche quando è tutt'altro che giovane e fiorente, non è sentito come una deroga a valori estetici oggettivi, quindi viene accettato con la stessa semplicità con cui si accettano i corpi dei cavalli o i tronchi degli alberi." Si spiega così un diverso atteggiamento nei confronti del corpo umano, nell'arte o nella vita, nei confronti della nudità o della sessualità.

Nella nostra concezione, la bellezza ha qualcosa di radioso, che va esibito e gridato. "Bellezza è Verità, e Verità è Bellezza!" esclama Keats alla fine di una sua celeberrima ode. La bellezza occidentale è artificiale, dialettica, matematica. Quella orientale sfugge invece allo sguardo, è elusiva e misteriosa. In Giappone la bellezza non è mai qualcosa di platealmente esibito, bensì è nascosta, recondita, iniziatica. Il bello che è subito bello ha qualcosa di volgare, mentre la vera bellezza bisogna riuscire a trovarla, magari alla fine di un lungo cammino spirituale, nel cuore stesso delle cose. C'è alla base l'idea buddhista dell'illuminazione per intuizione improvvisa, il satori, che non è comprensione del significato ma esperienza del significato. Mentre la nostra filosofia scolastica, da San Tommaso in poi, ha tentato di definire Dio con la logica razionale, i maestri zen preferiscono ancora oggi il paradosso e la contraddizione. Non si sfiora all'Assoluto tramite il ragionamento, bensì attraverso l'intuizione sovrarazionale. Non v'è spiegazione ma illuminazione.

L'arte giapponese si è mossa lungo la stessa strada, verso l'essenzialità, riducendo progressivamente la figurazione agli elementi indispensabili: un ciuffo di foglie, ali di oche selvatiche, cime che prendono forma dalla nebbia. In certi esempi, l'essenzialità delle linee è spinta all'estremo, basta un ghirigoro col pennino per suggerire un paesaggio o la figura di un bonzo. Un passo ancora e la figurazione dell'oggetto lascerebbe il posto al puro ideogramma, chiudendo un circolo perfetto dove immagine, simbolo e parola si confondono l'uno con l'altro. È lo stesso principio che ha anche progressivamente ridotto i versi delle poesie fino a giungere a quelle baluginanti intuizioni di tre versi che sono gli haiku:

Furu ike ya
Kawazu tobikomu
Mizu no oto
Un vecchio stagno
Si tuffa la rana
Rumore d'acqua!

Bashō Matsuo (1686)

Il profondo silenzio dello stagno, l'immutabile eternità spezzata d'un tratto dal suono lieve e dolce dell'acqua smossa dalla rana: si potrebbe pensare di nuovo al concetto del satori e non a caso Irene Iarocci rende l'ultimo verso con "risveglio d'acqua". Di nuovo una metafora buddhista. Stiamo andando verso un concetto-chiave dell'estetismo giapponese, l'aware.

L'odierno significato di questa parola, come aggettivo, è "compassionevole". Più precisamente, aware si riferisce alla qualità emotiva insita nelle cose, nella natura, nell'arte, ma anche, in senso più generico, alla reazione interiore di una persona dinanzi a uno stimolo estetico.

Il senso dell' aware ebbe la sua massima espressione in Giappone durante l'Epoca Heian, intorno l'anno 1000. Nell'allora capitale di Heiankyō, la corte imperiale dei Fujiwara viveva praticamente racchiusa in un mondo completamente artificiale, in un ambiente che in quanto ad eleganza formale, gusto per la bellezza, meticolosità, cura dei dettagli, ha avuto ben pochi uguali nella storia umana. A quell'epoca i gentiluomini, anche quando raggiungevano posizioni elevate, mostravano ben poco interesse per le responsabilità pubbliche e preferivano dedicare il loro tempo a vergare poesie su fogli di carta colorata, o a controllare i dettagli più minuti del loro abbigliamento. Le dame vivevano truccate come bambole dietro ai loro paraventi, dedicandosi alle lettere e all'amore. La civiltà heian tendeva alla ricerca della perfezione estetica. Un minimo errore di gusto poteva distruggere la reputazione di un gentiluomo.

Nell'Epoca Heian tutti gli uomini colti scrivevano in cinese, lingua della burocrazia e della cultura, e dunque furono le donne a creare i grandi capolavori della letteratura giapponese. Dame di corte come Murasaki Shikibu o Sei Shōnagon si sforzarono di analizzare la percezione infinitesimale dei sentimenti, riuscendo a rasentare limiti assoluti di delicatezza stilistica. Gli ideali di bellezza che contrassegnarono il gusto di quest'epoca possiamo appunto incontrarli negli scritti di queste dame, nelle loro lunghe contemplazioni e riflessioni. Leggiamo ad esempio nel diario di Izumi Shikibu:

Voglio aprire le imposte a guardare la luna che scende verso l'orizzonte occidentale. Sembra lontana e serenamente diafana (c'è una nebbiolina sopra la terra) e arrivano insieme il suono di una campana e il canto dei galli. Non ci sarà mai più un momento come questo né nel passato né nel futuro...

Izumi Shikibu no Nikki

Infinite frasi come queste si rintracciano nella letteratura heian: c'è la contemplazione della bellezza unita all'idea della sua irripetibilità e caducità. Izumi Shikibu la tratta con dolcezza e melanconia, Sei Shōnagon col suo spirito beffardo. Nel Libro del Guanciale, quest'ultima procede mescolando il dato autobiografico a baluginanti elencazioni di immagini.

Particolari eleganti e graziosi. Un'ampia sopravveste candida gettata su una veste rossa. Le uova di anatra. Un dolce di zucchero conservato nel ghiaccio e presentato in una piccola coppa di metallo. Un rosario dai grani di cristallo. I fiori di glicine. I fiori di prugno con la neve che cade. Un bambino graziosissimo intento a mangiar fragole...

Sei Shōnagon: Makura no Sōshi

"Lo spirito dell'aware pervade tutta la letteratura Heian" scrive Hisamatsu Senichi. "Si manifesta nei sentimenti che ci ispira una lucente mattina di primavera, ma anche nella tristezza che ci sopraffà in una sera d'autunno. Il suo significato primario, comunque, è una delicata melanconia, che può diventare una vera sofferenza."

Gli esempi più significativi li ritroviamo però nella Storia di Genji, il diluviale romanzo di Murasaki Shikibu, primo romanzo della letteratura giapponese e capolavoro assoluto della letteratura mondiale. Ci sarebbe moltissimo da dire su questo romanzo ricco di personaggi e privo di trama, che, in quello che potrebbero essere additati come difetti formali, rasenta invece la perfezione. L'autrice ne domina i mille rivoli con un'attenzione e una sensibilità assolute, e sembra che nel romanzo la parola aware sia ripetuta più di mille volte. I giapponesi hanno dato origine a innumerevoli ed erudite disquisizioni sull'esatto significato diella parola nei vari contesti in cui viene a cadere ed è ben comprensibile l'imbarazzo dei traduttori occidentali che ogni volta che si trovano a definirne l'esatta sfumatura.

Il protagonista del romanzo, Hikaru Genji, è figlio dell'imperatore e di una concubina, ragion per cui non è destinato al trono. È un giovane avvenente, dal gusto ricercato, lo spirito brillante e l'umore velato da una melanconia un po' decadente. È l'immagine di tutto ciò che una donna potrebbe chiedere a un uomo, alla corte dei Fujiwara e nell'epoca Heian. L'autrice stessa è evidentemente innamorata del suo personaggio, il quale "nessuno poteva guardarlo senza provarne piacere".

Nel corso del romanzo, Genji si sofferma spesso a contemplare un giardino inargentato dalla luna, ad ammirare la danza di un mimo dinanzi alla tormenta, ad ascoltare le note di un koto vibrare nel crepuscolo. C'è una scena bellissima in cui il principe, recandosi da una delle sue amanti, avverte, nel buio della notte, il profumo di un fiore appena sbocciato. Fa fermare la portantina e rimane a lungo ad assaporare quella fragranza che la brezza già sta sbriciolando e disperdendo. Questo è il gusto che sorregge l'intero romanzo: la finzione narrativa si fonde con quello che era l'effettivo ideale di vita dell'Epoca Heian. Quando Genji viene esiliato a Suma, a metà romanzo, la contemplazione della bellezza si fonde a una nostalgia totale, struggente:

In una tranquilla notte di luna, in cui un limpido cielo s'inarcava sul vasto mare, Genji se ne stava a guardare la baia. Pensava ai laghi e ai fiumi del suo paese natio. L'uniforme distesa del mare non destava in lui che una vaga e generica nostalgia. Non c'era un segno familiare intorno a cui si potessero concentrare le sue associazioni, non un punto preciso in cui i suoi occhi si volgessero. Davanti a lui, in tutto lo spazio deserto, solo l'isola di Awaji si stagliava fermamente e attirava l'attenzione. - Awaji, grano di spuma allo sguardo lontano - citò egli e recitò il verso: - Oh, isola maculata di spuma che per me non eri niente, persino un dolore come il mio in questa notte di meravigliosa bellezza tu hai il potere di guarire!

Murasaki Shikibu: Genji Monogatari

E per impulso Genji afferra il suo koto e comincia a provare una melodia cinese: il suono, mescolato coi sospiri dei pini e il sussurro delle onde, si ode lungo il pendio, fin nelle case vicine. Il governatore è straziato da quel canto e dalla nostalgia che lo riporta ai giorni in cui si trovava nella corte di Heiankyō, arriva alle stanze di Genji e geme: - L'incanto di una musica come questa non è unicamente terreno! Non dirige forse i nostri pensieri verso quelle melodie celesti che ci accoglieranno quando finalmente raggiungeremo la mèta dei nostri desideri?

Nel senso principale dell'aware c'è infatti una nota malinconica. È sì, l'emozione suscitata dalla bellezza del mondo, ma senza dimenticare che questa bellezza è destinata a svanire, come chi la osserva. È "compassione" nel senso etimologico della parola, dal latino cum-patire, e dunque un condividere il nostro sentire con ciò che ci circonda, di cui facciamo parte e con cui condividiamo il destino. All'amore per la contemplazione della natura, di stampo scintoista, si fonde l'idea dell'impermanenza del mondo affermata dalle dottrine buddhiste. Come nota Anesaki Masaharu, la convinzione della continuità delle esistenze nel ciclo delle morti e delle rinascite approfondisce la nota sentimentale ed amplia infinitamente l'ambito simpatetico dell'aware.

Mono no aware, "l'emozione delle cose". Ci si commoveva percependo la relazione fra bellezza e tristezza del mondo, relazione che l'animo sensibile avvertiva nella bellezza della natura o nel suo materializzarsi nell'arte, non solo perché ne subiva l'impatto estetico, ma anche perché essa gli faceva prender più che mai coscienza della natura effimera di ogni cosa. Aware non era dunque soltanto emozione dovuta a contemplazione, ma addirittura dolore. Dolore perché quest'attimo di assoluta perfezione che stiamo sperimentando è destinato a scomparire nel volgere di un battito di cuore, così come ogni altra cosa del nostro mondo temporale. Nell'aware, nota Joseph Campbell, arriva un eco, molto lontana, della pena del giovane principe Siddharta, il futuro Buddha, che uscendo per la prima volta dal suo splendido palazzo scoprì la realtà del dolore e della morte. Ma i cavalieri e le dame di corte giapponesi non amavano soffermarsi su argomenti funerei, così ritornano nelle loro prigioni dorate e sublimarono tale dolorosa consapevolezza cantando piuttosto la bellezza dei fiori che cadono.

C'è una bella frase di Virgilio che rappresenta molto bene questa sensazione. Enea, giunto alla reggia di Didone, osserva i dipinti che rappresentano gli eventi dinanzi alla piana di Troia, le gesta eroiche dei guerrieri e il dolore degli sconfitti, e commenta:

- Quale luogo ormai, quale parte del mondo non conosce le nostre pene! Guarda Priamo: qui c'è ancora un premio alla virtù, gli affanni muovono il pianto e la miseria umana desta pietà.

Virgilio: Eneide [I: 462]

Isolato dal suo contesto, quest'ultimo celebre verso s'illumina di un significato assoluto. Sunt lacrymæ rerum et mentem mortalia tangunt. "Queste sono le lacrime delle cose e la mortalità ci taglia fino al cuore". Quant'è vicino Virgilio al senso dell'aware! Se dovessimo tradurre mono no aware in latino, lacrymæ rerum sarebbe l'espressione più vicina all'originale. La percezione delle cose connaturata alla consapevolezza della loro mortalità!

Tuttavia non si pensi che il rapimento estetico dell'aware fosse qualcosa di travolgente come lo sturm und drang dei nostri romantici. La sensibilità heian era contenuta entro i limiti di un gusto estremamente controllato. Raramente degenerava in sentimentalismo; mai varcava i limiti del patetico. Si trattava di una calma rassegnazione, di uno spirito che potremmo definire, prese le dovute distanze, più stoico che epicureo. I gentiluomini finivano per sublimare nell'estetismo le loro emozioni più strazianti: nella letteratura assistiamo a scene dove persino il dolore per la morte dell'amata viene trasformato in eleganti tanka di trentun sillabe imperniate su immagini tratte dal più trito repertorio stilistico.

Se si può imputare un difetto alla letteratura dell'epoca, che della civiltà Heian fu fedele specchio e ritratto, è che questa tendenza all'appagamento estetico tendeva a cancellare dal proprio orizzonte mentale tutto ciò che non vi si adeguava. Il Giappone dell'anno 1000, al di là della corte dei Fujiwara, era povertà e squallore. Eppure, la letteratura non fa il minimo accenno al mondo esterno. Sei Shōnagon, che delle scrittrici fu la più anticonformista, si limita una sola volta ad annotare di aver visto dei villani... ma avevano un aspetto così sgradevole!

Ne consegue un'ultima annotazione. L'eleganza e la raffinatezza erano considerate qualcosa di aristocratico. La percezione della bellezza dipendeva dal gusto [shumi] o dal cuore [kokoro], o comunque dalla sensibilità della persona che riusciva a coglierla. Ed era proprio questa capacità di lasciarsi "folgorare" dall'esperienza estetica a definire la misura del vero gentiluomo. L'attitudine di provare un tal genere di emozione estetica [mono no aware o shiru] equivaleva alla virtù morale, era il segno distintivo delle persone di qualità. La gente delle classi inferiori mai avrebbero potuto sperare di possederla. In questo, il senso dell'aware aveva alcuni punti in comune, ancora una volta notati da Campbell, con gli ideali dei trovatori che frequentavano le corti europee nel XII secolo. Anche qui si parlava di un "cor gentile" capace di elevarsi spiritualmente attraverso l'amore per una donna. Ma l'aware giapponese era un sentimento assai più vasto, perché avvolgeva nel suo manto l'intero universo, la natura e le cose.

In seguito le guerre civili e l'avvento dei samurai avrebbero cancellato la ricercata e fragile civiltà Heian, ma quest'ideale di aristocratica bellezza, che era insieme rapimento e tormento, contemplazione e commozione, e quindi illuminazione istantanea e sovrarazionale, rimase fissato nella mentalità giapponese fino ai nostri giorni, per oggi suggerire al mondo intero nuovi codici espressivi ed estetici, certo diversi dai nostri... ugualmente profondi, però, e altrettanto validi.

 


BIBLIOGRAFIA

 


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