Racconti

 

BREVE VIAGGIO

IL GLICINE

IL RITORNO

LA STANZA DI ALMA

 

 

BREVE VIAGGIO

  

           Il cartello segnalava traffico intenso e lunghe code, ma per fortuna tutto era fluito meglio del previsto e l’auto non aveva perso velocità.

  La pineta di Castelfusano le aveva riportato alla mente alcuni ricordi che credeva sepolti del tutto. Non muore mai niente del tutto, aveva pensato, non fino a quando la memoria riesce a tramandare le cose vissute. Ma tutto si trasforma. Fra i pini di Monte Pellegrino aveva fatto un giorno l’amore con Dino. Era un pomeriggio di marzo, la luce filtrava attraverso la fitta rete degli alberi e loro si erano accorti, dopo, di una figura che andava in giro spiando. Lei aveva provato disagio, si era sentita come frugata, violata, lui aveva riso: è un povero matto, non ci conosce nemmeno, cosa vuoi che gli importi. Questo ricordo era stato per lungo tempo motivo di fastidio, ma dopo le aveva procurato tenerezza e rimpianto. Ora provava solo indifferenza. Era solo un episodio fra altri. Il tempo aveva prosciugato tante emozioni. Si erano susseguite tante stagioni,  nella sua stanza si erano regolarmente alternati stufa e climatizzatore, innumerevoli volte sulla sua terrazza i cuscini colorati avevano ceduto il posto ai teli cerati.

            Aveva preso dei  biscotti dalla sacca posata ai suoi piedi e li aveva mangiati con avidità, poi aveva versato in un bicchiere di carta un’abbondante dose di succo di frutta. Ingurgitandolo aveva pensato che la sua dieta era andata a farsi benedire. Troppe trasgressioni, che però le  davano una specie di eccitazione, mentre si diceva che, appena  fosse stata a casa ,avrebbe ripreso le sue regole alimentari. Era come ritornare bambina, quando la sera ripassava i buoni propositi per il giorno dopo: niente bugie, studiare di più, andare più spesso in chiesa.

            Il tempo dell’infanzia era talmente remoto che le pareva appartenesse ad un’altra persona, pure le piaceva indugiare in qualche piccolo particolare insignificante e costruirvi sopra fino al punto di non capire più dove finiva il ricordo e dove incominciava la fantasia. Erano dell’infanzia anche la paura e l’insicurezza che non l’avevano mai abbandonata del tutto, il bisogno di una presenza fisica che colmasse la distanza fra sé e il mondo che la circondava. Questo l’aveva spesso condotta a scelte sbagliate. Ma forse era più giusto dire che non si era trattato proprio di scelte o perlomeno che erano state scelte subite: incontri, relazioni, amicizie, amanti. Tutto pur di vincere la paura dell’isolamento, pur di non perdere il legame, seppure effimero, con i suoi simili. Ed era un bisogno incontenibile riempire ogni ora di ogni giorno, sfuggire al silenzio anche di un solo momento, disertare la casa, accumulare indumenti su sedie e poltrone rinviando all’infinito la decisione di mettere ordine. Anche questo breve viaggio era il risultato della sua paura, una decisione presa per non patire la lontananza da Vanni e per cercare di rinsaldare quello che sperava si potesse trasformare in un vincolo duraturo.

 

            Era ancora tutto in gioco. Ancora due giorni, un tempo abbastanza lungo per recuperare il periodo della permanenza di Vanni a Milano. Erano stati quattro giorni insensati, lui dai suoi figli, lei dalla cugina Liliana. Quattro giorni di noia e di pensieri tristi. Il cielo sempre grigio,oscurato da intense nuvole che, di tanto in tanto, riversavano pioggia; i bambini di Liliana che litigavano urlando, le telefonate di Vanni che tardavano a giungere. A denti stretti attendeva di ritornare, faceva progetti rifiutandosi di tenere conto che oltre alla sua esisteva la manifestazione di un’altra volontà. Quattro giorni lunghissimi, insopportabili se non fosse stato per quel fine settimana in Valtellina dove Liliana aveva insistito per portarla. Là era riuscita a mettere da parte ogni cruccio. Tutto era nuovo e insospettato. Le case si rassomigliavano tutte, con i loro tetti di legno, le balconate infiorate di gerani multicolori, a ridosso dello Stelvio, superbo nella sua verde magnificenza. Un paesaggio da fiaba nordica, dal quale pareva dovessero apparire da un momento all’altro gnomi e folletti e tutte le ninfe dei boschi, così lontano e diverso da quelli della sua Sicilia, solari, bruciati dalla calura, circondati dal turchino delle acque mediterranee, soffusi di azzurro e di giallo.

            Nel silenzioso torpore generato dal monotono scorrere della strada le passavano sotto le palpebre socchiuse le immagini dei giorni trascorsi, ma tutto era confuso, ingarbugliato, gli eventi di ieri si intrecciavano con quelli di due giorni prima, quello che era già accaduto si mescolava con quello che pensava potesse accadere, il tempo passato le sembrava un nastro con tanti nodi ancora da sciogliere. Si sentiva come sotto l’effetto di un’anestesia.

            E in quel vuoto pieno di tante sensazioni irreali le era giunta la voce preoccupata di Vanni che sospettava un guasto alla macchina.

 

            Alla prima area di servizio Vanni si era fermato per un controllo.  No, l’auto non era in condizioni di affrontare il lungo tragitto che ancora li aspettava, aveva detto il meccanico, bisognava fermarsi, un giorno o due, non era in grado di precisare, occorreva rivedere il motore se non volevano correre il rischio di restare bloccati in autostrada. Gli aveva dato l’indirizzo di un’officina e una guida degli alberghi. Vanni si era riseduto al posto di guida in silenzio, era pallido e nervoso, non si risolveva a niente, né a ripartire né a scendere dall’auto.

              "Prendiamo un caffè - aveva detto lei- e un po’ d’aria. E’ un banale guasto, risolveremo tutto entro domani"

            Dopo il caffè era andata alla toilette .Aveva guardato il suo viso riflesso sullo specchio appannato del lavabo: gli occhi erano cerchiati, i capelli in disordine, la pelle opaca, inaridita dalla polvere e dall’aria, le labbra screpolate. Aveva estratto il rossetto dalla borsa e se l’era passato più volte sulle labbra, aveva ravviato i capelli portandoli tutti indietro e si era spruzzata alcune gocce di profumo dietro le orecchie e sui polsi. Si sentiva un po’ rimessa a nuovo, in grado di affrontare il seguito.

 

              L’albergo sul lido di Ostia li aveva accolti con una folata di vento caldo che alzava la povere e le foglie cadute dagli alberi. Il litorale era disseminato di insegne luminose, un tripudio di luci colorate che pure non riuscivano a smorzare la malinconia della sera autunnale. Il mare brontolava sommessamente.

            Era una doccia la cosa che desiderava di più e per prima, aveva detto, deponendo la borsa da viaggio sulla sedia e iniziando a spogliarsi. Gli indumenti cadevano uno per uno disordinatamente sul letto, non si era neppure preoccupata di tirare le tende nell’ansia di guadagnare per prima la strada verso la stanza da bagno. L’acqua che le scorreva addosso le dava un senso di liberazione, si strofinava la pelle come se dovesse espellerne uno strato, come se da quella abluzione avesse dovuto venire fuori depurata, miracolata.

            Si era distesa sul letto avvolta nel telo di spugna, cedendo il posto a Vanni e aspettando che lui le si stendesse accanto. Dopotutto quella sosta forzata poteva risolversi in loro favore, aveva pensato, una pausa di distensione utile anche ad affrontare il discorso che li riguardava.

            Vanni si era messo a letto in pigiama, cupo in volto, gli occhi arrossati. Si era allungato sul materasso silenziosamente, con lo sguardo perso dentro il bianco del soffitto.

"E’ soltanto un guasto- aveva detto lei- domani lo faremo riparare e sarà tutto risolto" Lui si era agitato di più,si era coperto il viso con le mani che iniziavano a tremare. "Bisognerà sostituire parte del motore- aveva spiegato con la voce che si spezzava- non è roba da poco"

"Va bene aveva ribadito lei- è solo una questione di soldi"

Ma Vanni aveva un tremito per tutto il corpo, piangeva.

"Non ho soldi- aveva detto- ho lasciato a Lidia un assegno per tutta la scopertura del mio  conto. Era nei guai,confusa, avvilita, quasi disperata"

            Aveva capito tutto: i giorni trascorsi con Lidia e i ragazzi, le telefonate che non arrivavano e lui che andava sbandierando ai quattro venti come la sua ex fosse stata gentile e disponibile,quasi amabile, come si fossero intesi bene su tutto, tanto da aver preso anche in considerazione l’ipotesi di un’eventuale riconcialiazione. Tutto questo che le aveva procurato l’ansia dolorosa  di una possibile rottura fra lei e Vanni adesso le era apparso sotto una luce nuova, quella vera : Lidia  aveva soltanto circuito Vanni con l’intento di prosciugare le sue risorse economiche, lasciandolo in preda alla sua nevrosi e alla sua labilità emotiva.

            Il mio prossimo uomo, aveva pensato, saltando completamente la fase del compatimento, se mai ci sarà, dovrà essere ricco e senza problemi.

            Si era alzata. Il telo di spugna le era scivolato e lei si era ritrovata nuda davanti allo specchio. Aveva guardato il suo corpo con attenzione critica. Che cosa ho che non va, si era chiesta, per attirarmi sempre addosso le storie più impossibili. E aveva ripensato al passato, a tutte le sue storie d’amore senza lieto fine e a tutte le amarezze che le avevano lasciato. Per chiudere una storia, anche la più infelice, aveva avuto bisogno di iniziarne un’altra e per questo non aveva mai capito a tempo in cosa si imbarcava.  Andava avanti come nel gioco della mosca cieca, senza sapere mai di chi era la spalla che aveva sfiorato con le dita. Era stata una catena, un anello dentro l’altro. Un passaggio di testimone, una staffetta, ma al traguardo della serenità e della pienezza d’amore non l’aveva mai condotta nessuno. Tutti gli uomini che aveva conosciuto le avevano recato in dono i loro problemi, le loro situazioni pregresse, la loro instabilità, spesso la precarietà delle risorse finanziarie che aveva fatto di tutto per risanare. 

            Vanni guardava le sue nudità senza vederle, le mani strette al lenzuolo. Si era avvicinata a lui e si era accorta che i nervi lo stavano vincendo. Allora aveva aperto la valigetta di lui ed aveva cercato il Valium. Ne aveva versato otto gocce nel bicchiere che stava sul tavolo, vi aveva aggiunto dell’acqua e glielo aveva porto. Lui aveva seguito le sue mosse inebetito, aveva preso il bicchiere con tutte e due le mani e ne aveva inghiottito il contenuto tutto d’un fiato.

            Ora mi toccherà pure consolarlo, aveva pensato, e per un attimo aveva provato un moto di compassione. Si era chinata su di lui, lasciando che i suoi seni gli sfiorassero il petto. Cercava di stabilire un contatto fisico che allentasse la tensione e riportasse le cose ad una dimensione meno greve. Lui le si avvinghiò come ad un ceppo incontrato fortunosamente durante un naufragio. Non parlava ma si stringeva a lei e la guardava come se volesse dirle delle cose che non riuscivano a superare la soglia orale. Allora gli aveva accarezzato la guancia col dorso della mano e aveva detto: "Sta’ tranquillo, penserò io a tutto"

Quelle parole pareva lo avessero calmato, si era assopito e lei si era sentita irrimediabilmente sola in quella stanza estranea, in quell’ambiente anonimo che tutti gli effetti personali non riuscivano a personalizzare.

 

            Dalla finestra guardava il mare. Era scuro ed agitato per via del vento che sollevava tutt’intorno mulinelli di sabbia. Sulla spiaggia gli ombrelloni chiusi apparivano come piccoli alberi ischeletriti . Nel gazebo di sotto all’albergo le poltroncine bianche e rosse di resina erano poggiate ai tavoli in una posizione d’abbandono. Le giungeva, attraverso i vetri sporchi, un’atmosfera da sobborgo di periferia. Si era chiesta dove fosse finita la magia di quel luogo e se mai fosse esistita. Ora quel posto non era che un ammasso di costruzioni che avevano invaso ogni più piccola porzione di spazio. Restava solo il mare.

            Sono troppo stanca, aveva pensato, tutto mi appare in una luce triste. Ritornando ogni cosa riassumerà le giuste proporzioni. Anche il viaggio, con tutte le insofferenze ed i cattivi pensieri, le si sarebbe ripresentato come qualcosa di piacevole, un intermezzo del quale avrebbe ricordato le fasi migliori. Ma non riusciva ad immaginare il seguito, tutto era ipotetico, imprevedibile, solo la sua ansia, la solitudine di tanti, troppi giorni vissuti nell’altalena del sì e del no erano una realtà immaginabile.

            Il centralinista dell’albergo le aveva passato la telefonata di Vanni. Le diceva che ne avrebbe avuto per tutto il pomeriggio, ma che sarebbe ritornato per il pranzo, che prenotasse, sì, certo, al ristorante dell’albergo, era più comodo, se tutto andava bene si sarebbero rimessi in viaggio in serata. Sembrava non avere vissuto l’abbandono e lo scoraggiamento della sera prima, quella forma di muta disperazione che lo aveva consegnato al totale sconvolgimento dei nervi.

Si era alzato come rinvigorito, recuperato alla piena padronanza di sé ed aveva atteso alle consuete pratiche mattutine senza fare alcun riferimento ai fatti della sera prima. Era uscito come sgravato, senza mostrare segni di nervosismo o di preoccupazione. L’aveva abbracciata e nell’abbracciarla aveva cercato di stabilire un’intesa che preludesse ad un contatto più profondo. Come se avesse voluto aprirle la vestaglia e distenderla lì, nuda, su quel letto che lo aveva accolto per altro uso, e fissarvela come una farfalla imbalsamata, nell’attesa del suo ritorno.

             Il vento sbatteva alla finestra, fischiava attraverso le stecche delle tapparelle e passando per gli spifferi gonfiava la pesante tenda verde.

            Aveva tolto dalla borsa il libretto degli assegni, lo aveva firmato e, confidando per l’ultima volta nell’onestà e nella buonafede di lui, aveva lasciato in bianco le caselle della cifra. Lo aveva deposto sul tavolino da notte fermandolo con il pesante e dozzinale posacenere di vetro.

            Al tassista che l’aspettava sotto la cupoletta di plexiglas all’ingresso dell’albergo aveva detto, con voce sicura:

"Alla stazione, prego"      

 

                                                                   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL GLICINE

 

Stava con la fronte appoggiata al vetro della finestra, lo sguardo puntato oltre la rete metallica che cingeva il rettangolo di terra davanti alla casa. Al di là del cancello, sul nastro d'asfalto che scorreva lateralmente al giardino, i ragazzi del quartiere tiravano calci ad una palla. Il loro viso era infiammato dall'eccitazione di una gara che contribuiva ad alimentare i sogni di un'improbabile gloria futura. Le case, intorno, mostravano un volto grigio ed uguale, ravvivato soltanto da minuscole strisce di terra dove crescevano stentate macchie di fiori.

Il suo giardino si distingueva per una siepe di glicine che, attorcigliandosi ai quadrati dell'inferriata, conferiva alla modesta abitazione un'aria leggiadra, un segno di distinzione fra lo squallore dell'uniformità circostante.

La luce s'attardava sui tetti. Dalle finestre delle case le voci delle madri richiamarono i figli recalcitranti e la strada echeggiò di nomi e di minacce. Anche sua madre la chiamò, invitandola bruscamente a ritornare alle faccende domestiche, sebbene ella non avesse che indagato la strada con lo sguardo. Resistette al richiamo, continuando a scrutare dalla finestra il ristretto orizzonte.

"Cosa aspetti? L'innamorato che ti rapisce?"

Il tono di voce della madre,che voleva essere ironico e risultava invece soltanto sgradevole, la fece avvampare e la indusse a trattenersi ancora alla finestra per non mostrare il suo rossore. E intanto pregava dentro di sé perché sua madre si allontanasse, perché non stesse lì a spiare, ad accertarsi. Respirò di sollievo quando sentì i suoi passi perdersi all'interno della casa. Indugiò ancora dietro i vetri e, in un impeto di audacia, si spinse ad aprire le imposte e a sporgere il busto oltre il davanzale.

In quel momento,dal fondo della strada, lui comparve. Pedalava vigorosamente sulla bicicletta e la sua testa bionda rifulgeva agli ultimi raggi del sole estivo. Quando fu all'altezza del suo cancello, staccò una mano dal manubrio e la agitò verso di lei, in un segno di saluto che poteva sembrare convenuto ma che tale non era. Lei abbassò lo sguardo e, potenziando al massimo le sue facoltà uditive, riuscì ad individuare le note di quella ballata che lui, come ogni giorno, fischiettava.

Passava sempre alla stessa ora ed ogni volta, giunto all'altezza del glicine, alzava la testa, che nella luce del tramonto si cospargeva di polviglio dorato, e sollevava un braccio, aprendo e chiudendo le dita della mano in un ciao muto ma carico di sottintesi. Poi spariva nel nulla.

 

Da qualche giorno aveva cominciato a studiare un piano per spingersi in strada, ma stentava a trovare un espediente che le permettesse di sfuggire alla vigilanza materna. La sua natura di donna veniva custodita con estrema rigidità, una rigidezza esagerata che sua madre giustificava con l'apprensione per ciò che di "male" le potesse capitare. E per radicare in lei i preconcetti le ripeteva che i maschi erano tutti uguali, che il loro unico scopo era quello di portarsi a letto una ragazza e che a fidarsi di loro si finiva dritti all'inferno. Era tanta l'acrimonia che metteva in quei discorsi, tanta la rugosità della voce, tanto l'accanimento a difendere il suo postulato che Core aveva finito col convincersi che nella giovinezza sua madre doveva avere avuto qualche esperienza traumatica. Forse era stata vittima di uno stupro, forse era stata l'oggetto dei desideri di un maniaco, ma quando tentava di aprire un discorso per capire quale fosse la ragione della sua androfobia sua madre serrava le labbra e le rispondeva che non erano discorsi da fare.

Si arrovellava cercando un motivo convincente per evadere il rigore materno, per riuscire a superare la soglia di quell' ingiusta ed immotivata clausura oltre la quale doveva esserci la vita.

L'unico pretesto che riuscì a rendere verosimile fu quello di occuparsi del giardino.

"Il glicine appassirà -disse- se continueremo a trascurarlo. Scenderò io in giardino per innaffiarlo. Ho letto che va fatto al tramonto"

"Se lo dice la signorina sotutto…" fu il commento della madre. Dopotutto era sotterraneamente orgogliosa di quella figlia che si nutriva più di libri che di cibo. Però non resisteva alla tentazione di polemizzare e mettere sempre in discussione le posizioni di Core.

"Tutti quei libri finiranno col guastarti la testa. Dovresti occupare il tuo tempo in maniera più produttiva"

"Allora dammi la possibilità di cercarmi un lavoro"

"Sei ancora troppo giovane, devi imparare a diffidare, a difenderti…"

"Questa tua protezione finirà per soffocarmi"

"Ce n'è di tempo per affondare nella melma della vita"

Era il solo argomento che sapesse opporre ai timidi tentativi della figlia di affrancarsi dal suo giogo.
Core intuiva che non c'era malanimo né tirannia nella condotta della madre, solo una distorta visione della realtà, ma ciò non le impediva di soffrire e di covare del risentimento sia nei confronti di lei sia nei confronti di se stessa che nella ribellione non riusciva ad andare oltre un certo limite.

 

Scendendo in giardino le parve di avere guadagnato una posizione sulla scacchiera dove si disputava la difficile partita fra madre e figlia.

Sgrovigliò il tubo di gomma e ne attaccò un'estremità al rubinetto, con l'estremità opposta fra le mani si avvicinò al glicine. La posò sulla terra arida e si spostò per aprire l'acqua. Poi ritornò su suoi passi e si assicurò che il flusso bagnasse bene la pianta.

Consultò l'orologio e di seguito alzò lo sguardo per controllare la posizione del sole: era coperto per tre quarti dalla collinetta. Allora si accostò alla rete alla quale si attorceva il glicine e,separandone i grappoli, ottenne uno spazio sufficiente a guardare la strada senza essere vista.

Dalla siepe i fiori violacei che pendevano in tenere cascate emanavano un profumo dolcissimo ed estenuante, un invito a chiudere gli occhi e a lasciare andare la fantasia verso i sogni più arditi. Quel profumo la stordiva e la eccitava. Le sembrava di udirlo mormorare: fuggi, oltre la siepe c'è la vita, c'è il tuo ciclista che ti aspetta per farti provare l'ebbrezza sconosciuta dell'amore.

Una molle indolenza le fiaccava il corpo. Il profumo del glicine era una curiosa droga capace di farle intravedere il paradiso ed allo stesso tempo di gettarla in uno stato di assoluta debolezza.

Cercò di vincere quella anomala forma di torpore e sbirciò la strada dal punto in cui iniziava, dopo la curva, la visibilità. Come evocata, la sagoma della bicicletta emerse dal gomito della curva e, nitida ed arrancante, i muscoli contratti nello sforzo della salita, si stagliò la figura del biondo ciclista.

Core sporse la testa per evidenziare la sua presenza e si accorse che nell'avvicinarsi la bicicletta rallentava fino ad arrestarsi a qualche metro dalla siepe di glicine. Sentì come un pugno allo stomaco. Tutto ciò che di pulsante era in lei scoppiò in un tumulto: le tempie, i polsi, la gola pareva volessero esplodere e le sembrava di avere, proprio al centro del petto, un uccello impazzito che frullava le ali.

Eretto sulla sua bicicletta, il ragazzo si passava una mano sulla nuca, lisciando i biondi capelli. Ed era un gesto che tradiva attesa ed impazienza, turbamento ed imbarazzo.

Core mosse un braccio sperando di catturare la sua attenzione, ma egli non sembrò accorgersi di nulla. Si maledisse per la sua timidezza e tentò ancora di segnalare la sua presenza. Pensava che la sua strategia si era rivelata inutile quando lo sguardo azzurro di lui incrociò il suo. Due sorrisi diversamente sorpresi illuminarono i due volti.

In quello stesso momento, dalla parte opposta della strada, una figura dentro una gonna a fiori si affrettava a discendere, ondeggiando fra le spume turchesi della sottana, verso la siepe di glicine. Si affiancò alla bicicletta e, gettando senza alcuna reticenza le braccia nude e tintinnanti di catenelle al collo del ragazzo, posò le sue labbra su quelle di lui. Parve, a Core, lo stesso atto, innocente ed impudico, che compie la farfalla quando si posa sulla corolla di un fiore. Un fatto segreto che tutti conoscono, il contatto attraverso il quale si compie il miracolo sacro e profano della congiunzione.

La mano del ragazzo sfiorò delicatamente il collo di lei e scivolò lungo l'apertura della camicetta, fino al solco dei seni. La ragazza scosse la massa bruna e ricciuta dei capelli e coprì con le sue mani la mano di lui che indugiava nella carezza.

Poi fu un attimo. Egli se la mise in sella e con un leggero colpo ai pedali si avviò per la discesa, fischiettando il solito motivo. Si allontanarono lasciando sull'asfalto arido un'impronta colorata e allegra.

                                                                                                                                                      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL RITORNO

 

Sono ancora qui, fra queste case scolorite e questi muri screpolati, a risentire l'assordante cinguettio dei rondoni che si affollano fra le foglie degli alberi piantati a bordura lungo il  marciapiedi davanti alla chiesa. Il sole di aprile si riflette in barbagli sul vetro colorato del rosone della Matrice. Il pomeriggio è di una bellezza da togliere il fiato, da far salire le lacrime agli occhi senza ragione. O per mille ragioni. Tutte nascoste negli anfratti dell'anima, così profonde ed invisibili da sembrare assenti.

            Chi ha detto che partire è un po' morire? Morire è ritornare. Ritrovarsi immersi di colpo in luoghi che sono stati tuoi e che non ti appartengono più perché hanno vissuto senza di te, senza di te hanno visto le ombre della notte e le luci del giorno, si sono ricoperti di fatti e parole che tu non conosci, hanno subito gli attacchi di un tempo che non è stato il tuo. Nel rivederli ti sembra che siano gli stessi di prima, ma in realtà non è così. Il tempo ha lavorato su di essi e tu non puoi accorgertene, non ne sei stato partecipe; puoi trovarli più vecchi, più logori, migliorati o peggiorati, ma il processo che li ha resi tali ti è estraneo come una sofferenza patita da altri.

            Anche le voci sono cambiate. La parlata dura e cadenzata è rimasta, ma i suoni non sono più gli stessi, le parole sono state oggetto di mutamenti, non sono più solo quelle del dialetto, hanno assorbito termini lessicali mutuati dai mezzi di comunicazione.

            Eppure ritornare è necessario. E' un bisogno che cerchi di soffocare, ma che ti cresce dentro e si diffonde come una metastasi.

            Non posso contenere l'ondata greve dei ricordi, eppure non riesco a fissarne nessuno in modo particolare, come se tutto il tempo vissuto qui si condensasse in una massa unica da cui si staglia il volto delicato, racchiuso in una cornice di capelli biondi e ricci, di Milia.

Il mio ritorno non è quel trionfo che spesso viene raffigurato, sono povero come quando sono partito, solo alla stessa maniera, con la medesima rabbia per una realtà che è cambiata solo nelle apparenze, ma che nella sostanza rimane un grumo di circostanze destinate a privilegiare pochi eletti. Sono sempre l'Ales che suona la chitarra nelle notti di luna, che scrive poesie d'amore che non saranno mai lette, quello che "non potrà mai darti quello che è necessario nella vita", come ripeteva la madre a Milia, cercando di sradicare dal cuore della figlia l'immagine che ella si intestardiva a idealizzare. E' per tutto ciò che il mio ritorno mi si rivela come una forma di autopunizione. Voglio conficcare fino alla radice la lama della mia ostinazione; ripercorrere le mie stazioni di disagio e di dolore per cercare di uscire da questo male che mi opprime. Voglio rivedere Milia.

 

Sono andato al molo. Una volta era la nostra passeggiata preferita. Quanti discorsi percorrendo le banchine dove saliva l'odore carico di sale del mare, o appoggiati alle bitte di fronte al vasto orizzonte marino. Nella caletta, che accoglieva i pescherecci e le modeste motobarche di chi viveva di pesca, i topi saltellavano da un'imbarcazione all'altra, rosicchiando il sartiame o infessurandosi fra il legno marcio. Di notte venivo da solo, la chitarra e un po' di carta per trascrivere le parole che mi nascevano dal silenzio, guardando l'acqua sporca di catrame. Luci e reti ad intrappolarmi gli occhi e il cuore. Stelle azzurre che mi chiedevano di restare, suoni perentori di navi che m' invitavano a partire. Le mani di Milia, i suoi fianchi di anfora e i suoi seni di creta, il suo ventre di luna e le sue pupille d'ambra.

Milia non era per me. Ed io ne facevo un sogno, un mito, la fanciulla per la quale l'eroe parte alla ventura. Ma non si conquista il mondo con una chitarra ed una poesia.

Un giorno tornerò. Mi basterà sapere che sei viva, oltre questo silenzio di agavi lontane, oltre questo mare che sorride e non risponde se gli chiedi di me. Ritornerò, ulisse milionario di parole, per uccidere le ragnatele del passato.

 

Sta attraccando la nave che viene da Lampedusa e un mucchio di turisti affolla il ponte di coperta per assistere alla manovra d' attracco.

Forse è l'idea del ritorno che spinge alla partenza. Il ritorno è la pace, la consacrazione delle antiche abitudini. Ritornando l'anima si rasserena, si pervade di certezze. Ritornare è rivivere, riannodare un filo che è stato spezzato, chiudere un circuito. Sarà per questo che abbiamo bisogno di radici, di luoghi e di affetti.

Ora la nave ha scaricato i suoi passeggeri che sciamano per il porto. Una confusione di saluti e di abbracci e una solitudine maggiore per chi non è atteso da nessuno. Ales non l'ha portato il mare. Ha preferito un treno anonimo che attutisse la malinconia di uno sbarco solitario.

Mi aspettavano i muri, le rondini che da questo paese non migrano mai, le parole di mio padre, eco prigioniera nei vicoli maleodoranti, il puzzo del pesce attaccato alle pietre del selciato, la voce di mia madre racchiusa nel rintocco del vespro.

 

Ho incontrato Elio. Fra tanti volti ormai sconosciuti finalmente un'immagine viva e reale del passato. Ha il volto segnato da tante piccole rughe, impercettibili solchi dove il tempo ha seminato la vita.

"Ales, quale vento ha sospinto la tua zattera fino al nostro umile approdo?" Sorride felice e le sue rughe diventano una rete gettata sul volto adusto. Le nostre mani si stringono.

"Richiamo del passato, nostalgia, pellegrinaggio, non so, decidi tu" Rispondo. Perché lasciarsi irretire dai luoghi comuni e dai rimpianti per un tempo che non ci era stato amico? Un tempo dal quale avevamo voluto fuggire, io per ansia di cose nuove, lui per studiare e riscattare la sua condizione di figlio di pescatore.

"Faccio il professore- mi dice- ma qui non c'è da stare allegri, penso ad altri luoghi, ad altre occasioni, ad un altro futuro"

La nostra è un'eterna lotta con il tempo per catturare un futuro che non esiste e che si riduce ad un presente sempre negato.

"Voglio rivedere Milia" Mi sorprendo a dire. Ho tradotto in parole reali il mio segreto proposito, fino a quel punto raggrumato nelle mie intenzioni. Rivedere Milia perché? Cosa può cambiare, ora che i ruoli sono definiti e ciascuno ha avuto la sua parte? Ma gli anni, anzicché ammorbidire l'oscuro rancore per una speranza che si ostinava a sopravvivere a dispetto di ogni ragione, avevano cullato il desiderio di provare, di tentare una verifica, forse tardiva ma necessaria ad uccidere l'orgoglio residuo. Milia era stata un chiodo conficcato nella carne, un'ossessione dalla quale non avevo voluto guarire. Milia, canzone della mia giovinezza, nodo di alghe che mi stringeva il cuore, ambrosia della mia lontananza.

"Certo, Milia - dice Elio- dovevo immaginarlo. Le ferite dell'orgoglio sono le più difficili da sanare"

"L'orgoglio non c'entra più. Non ho niente da offrirle, proprio come quindici anni fa' "

E allora perché ritornare, cercarla? Per umiliare me stesso? Per convincermi che era stata lei a decidere per il meglio? Per rivivere ancora una volta, l'ultima, le emozioni mai dimenticate?

"Vai- Elio mi fissa con uno sguardo improvvisamente consapevole- Ci sono cose che neanche il tempo riesce a cancellare. Milia ha sempre creduto che un giorno o l'altro saresti tornato"

 

Ora la guardo, mentre prende gli appuntamenti per il marito e li segna su di una agenda. E' precisa, quasi pignola, tutta compresa nel suo ruolo di segretaria perfetta. Sta seduta dietro una scrivania massicia, invasa da carte, cartelle, opuscoli.

"Ancora un attimo di pazienza ed ho finito- dice- Il lavoro è tanto, per fortuna" Sorride.

Quando ha finito si alza e viene verso di me. Poi ci ripensa, va al telefono ed ordina due caffè. Finalmente si siede sulla poltrona accanto alla mia.

"Tua madre sarà contenta- non posso fare a meno di commentare- hai sposato il professionista serio ed equilibrato che sognava per te"

"Ales, la tua amarezza mi addolora. Non è come tu pensi. Ho sposato Giovanni perché lo amavo" Si zittisce per un attimo. Una pausa che mi imbarazza, che mi fa pentire delle mie parole. Forse pensa di avermi ferito.

"Ales, la felicità eterna non esiste. Forse non esiste nemmeno la felicità. Si vive, semplicemente. Credi che assieme avremmo avuto maggiori o migliori possibilità di quelle che hanno tutti gli altri?"

"Forse no, ma sarebbe valsa la pena di rischiare"

"Non è successo, ecco tutto. Qualche volta ho avuto voglia anch'io di andarmene, proprio come hai fatto tu. Cambiare aria, mutare pelle. Ma non si poteva. Tante cose, piccole e grandi, mi hanno trattenuta. Ecco, forse è di questo che abbiamo bisogno: un legame, un ceppo che ci tenga stretti mani e piedi per impedirci di fuggire. Ho sempre aspettato di vederti tornare"

Il ragazzo del bar ha portato i due caffè. Li beviamo in silenzio. Milia, vestale di un tempio profanato, presiede al rito del ristoro.

"Cosa ti ha spinto a tornare?"

"Niente e tutto. Forse c'è un'Itaca nel cuore di ognuno. Un'isola di sole nel solco buio della lontananza. Un punto da raggiungere, un tempo da recuperare. Non puoi vivere senza la prospettiva, anche remota, di risalire al ventre della tua origine. Mi porto dentro le pietre e le spine del mio passato. Mi porto dentro la sabbia e il mare, l'odore del pesce, la luce che filtrava fra i canneti quando facevamo l'amore"

"Tutto quello che abbiamo vissuto è nostro. I ricordi sono un'isola alla quale non può accedere nessun altro all'infuori di noi stessi. E' per questo che cerchiamo di ucciderli, ci rendono veramente soli"

"Perché hai aspettato che tornassi?"

"Forse per avere la certezza di avere vissuto il passato, per non sentirmi completamente sola nella mia isola di ricordi"

"E invece bisognerebbe avere la forza di non tornare. E' inutile e straziante accorgersi delle rughe che il tempo ha scavato nell'anima"

"Non importa, sono contenta che la mia attesa non sia stata vana. Non puoi vivere senza attendere qualcosa. Quando i miei figli sono stati sufficientemente autonomi per non pesare più sulle mie forze fisiche, quando fra me e Giovanni si è affievolito l'entusiasmo della vita in comune, allora ho cominciato ad attenderti. Tu non avresti spento quella luce che mi perveniva da tutto ciò che non avevo vissuto"

Milia-Penelope aveva atteso il mio ritorno tessendo la tela dei ricordi. Ma, di notte, aveva dimenticato di scucirla per impedire al tempo di compiere il destino.

 

                                                                                                                                                       

                                                                       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA STANZA DI ALMA

 

La stanza ha un mobilio severo,di un colore biondo con ghirigori marrone scuro. Ha una toletta con tre specchi dove non si specchia mai nessuno,sulla toletta una scatola piena di bottoni,spilli,mollette,pezzi di merletto avanzato dalla confezione di qualche abito. Ha un armadio ad un'anta che la nonna chiama armoir ed attaccato all'armadio un mobile con un vetro a disegni colorati di fiori e foglie. Sul cassettone un quadro grandissimo che raffigura Gesù nell'atto dell'eucarestia. Ad Alma pare che Gesù la guardi, con i suoi occhi dolci e severi, quando la sera,sotto le coperte del lettone che divide con la nonna e la sorella,cerca di esplorare il suo corpo. I suoi piccoli seni sono due minuscole pesche con un picciòlo roseo quasi invisibile. Anna li tocca, quei picciòli, sperando che diventino un po' più grandi sotto le carezze delle sue mani. E sente che il suo corpo si tende come un arco e che un calore la invade. Ma Gesù guarda e lei si rannicchia fra le lenzuola sperando di non essere vista. Gesù l'ha punita. Oggi,mentre se ne stava accovacciata sul terrazzo,ha sentito che qualcosa di umido colava fra le sue gambe,ha guardato ed ha scoperto che un rivolo rosso scorreva sulle sue cosce. Ha cercato di individuare il luogo della ferita che le procurava quel sangue,ma non ha visto nessun taglio, neppure il minimo graffio. Allora ha capito di essere malata. Gesù le aveva mandato quella malattia per castigarla, per farle capire che il suo corpo non deve provare gioia. Che farà adesso? Dovrà andare in ospedale,forse morirà. Dovrà pur dire a qualcuno di quella malattia. Ma a chi? Con la nonna non va molto d'accordo, la nonna è severa, non le permette di giocare nel cortile con i cugini, non le consente di frequentare un'amica ed ogni mattina le impone un'insulsa colazione con latte e biscotti. Lei detesta il latte, le fa venire il vomito,ogni giorno è una guerra. Potrebbe parlare con la mamma, ma la mamma non c'è, l'ha lasciata dai nonni per seguire papà in un'altra città. Alma si sente sola e abbandonata e fa dispetti a tutti. Adesso però si pente, si sente triste. Decide di non parlare con nessuno della sua malattia. Morirà in silenzio,offrirà a Gesù la sua sofferenza per ottenerne il perdono.

 

Ora la stanza di Alma é un ambiente largo e luminoso, lei dorme su di un divano che la sera diventa letto. Accanto c'é una modesta scrivania sulla quale sta la vecchia Remington di suo padre. Che magica presenza,quella macchina da scrivere. Su di essa piovono le parole che mulinano in testa ad Alma. Stanno tutte racchiuse nella sua mente e nel suo cuore, parole di dolore,parole di speranza,parole bagnate di quel pianto che la notte le rompe la gola nello sforzo di non farsi sentire. Quelle parole diventano cose,persone,fatti,emozioni;si inanellano fra di loro fino a formare una catena, una catena che la legherà per sempre,che la farà vivere come in uno specchio. I fogli si riempiono di segni e lei li nasconde, vuole che nessuno si accorga che esistono,sono i suoi fantasmi,le sue mute presenze, la sua vita "altra".

 

Finalmente Alma ha una stanza tutta sua. L'ha voluta rosa, il rosa é un colore augurale, é,assieme all'azzurro, il colore che non le é stato mai concesso. A lei sono toccati tutti i grigi e tutti i marrone,colori che non permettono di sognare, colori che nascondono,che imprigionano, che annullano.

Ora si é regalata un bel rosa, perché non vuole più celarsi, ed ha messo di fronte al suo bel letto d'ottone griffato un grande armadio tutto specchi. Perché vuole vedersi vivere quando Dino verrà e assieme rotoleranno sul materasso rigido. Non ci sono quadri di santi adesso a spiarla. Ci sono solo quegli specchi che le rimandano immagini moltiplicate di lei e di Dino.  Di loro due che si abbracciano,si baciano,si strofinano,si toccano. Lui la fa girare e rigirare come uno spiedino e la unge,la bagna,la lecca,la fa rosolare beatamente al suo fuoco. Lei lo stringe,contrae le sue pareti vaginali per stritolarlo,ma non per punirlo,no,solo per farlo gemere un poco, per spezzare il suo assorto silenzio. Alma invece parla,emette dei gridolini smaniosi e lui le dice che gli piace sentirla,che le sembra una tortorella che tuba. Quante notti passa Alma a sognare il momento in cui Dino la prenderà. E la sua immaginazione galoppa,lo sente dentro di sé, gli parla sottovoce, lo tocca, lo accarezza, lo eccita. E la coglie una smania che non riesce a controllare. Allora prende un foglio ed una penna e scrive tutto quello che le passa per la mente. E quello che scrive le scorre sopra il corpo come una mano tenera e rapace ed anche le sue di mani sono prese dalla smania:si muovono su di lei, l'accarezzano, percorrono il suo corpo. Un cerchio sopra i seni, le dita che stringono, che scivolano verso il ventre e arrivano al suo piccolo bottone di carne. E' una frenesia, una vertigine, un vortice che la conduce allo sfinimento. 

Ora la vita é là, riflessa su quello specchio a confermarle la sua presenza.

 

La stanza rosa é vuota e triste, gli oggetti non hanno più valore, sono stelle spente disseminate a gloria del ricordo, sono l'anima del nulla. Persiste un'eco solitaria che chiede una presenza, ma nessuno risponde al suo sofferto richiamo. Il tempo è un lungo serpente che si arrotola su se stesso, dagli specchi fuggono i sorrisi e il silenzio è intriso di veleno. Un'altra donna ha preteso quella presenza e la ostenta come un vessillo riconquistato. Dice di possederne anima e corpo. Non sa che una parte di quell'esistenza é rimasta nella stanza di Alma e forse non ne uscirà mai più.