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Gli Arbëreshë della Calabria - FIRMO

SPAZIO A CURA DI MARIELLA CAPPARELLI

 

FIRMO E LE SUE TRADIZIONI

 

Firmo/Ferma. Nel ripristino delle tradizioni etniche e culturali di un popolo come quello arbëresh, non può mancare una rivisitazione di usi e costumi peculiari, che diano almeno un saggio delle variegate realtà albanofone, presenti in territorio calabrese fin dal Cinquecento.

A Firmo, nonostante le innumerevoli ed inevitabili ingerenze della lingua italiana, si conserva, ancora oggi, l’uso corrente dell’idioma Arbëresh. L’Arbëresh, com’è intuibile, è cosa ben diversa sia dalla lingua oggi parlata in Albania, sia dalla lingua parlata dai nostri avi al momento della fondazione dei nostri paesi. E’ chiaro, infatti, che entrambe le lingue hanno subito delle evoluzioni, venendo a contatto con culture e civiltà diverse.

La cosa, però, veramente singolare è che detto idioma si è tramandato ai giorni nostri soltanto in forma orale. Una tradizione, vale a dire, che si è tramandata di padre in figlio, prescindendo dalla comunicazione scritta. Ciò, ovviamente, ha determinato una più facile recezione di elementi esterni, che sono andati a soppiantare, invece, taluni termini originari.

Ma la nostra cultura Arbëresh, se è vero che manca di documenti scritti in lingua, è pur vero che per ciò è ricchissima di forme di comunicazione alternative rispetto alla scrittura.

Nelle vicende d’amore tra i nostri avi saranno mancate le lettere, ma è pur vero che non mancavano, invece, le serenate (Viershet), attraverso le quali si esternavano sentimenti benevoli e malevoli.

La serenata, infatti, non veniva effettuata soltanto per il corteggiamento, ma veniva eseguita anche al momento di esternare il proprio sdegno, in seguito, ad esempio, ad un tradimento.

Tralasciando, poi, queste forme comunicative, e passando ad altri aspetti, possiamo osservare che tra le diverse pietanze che caratterizzano la nostra cucina, un piatto che a Firmo viene ancora molto apprezzato è, senza dubbio, la “Shëtridhla”. Si tratta di una pasta casereccia, tra le più antiche, per altro di assai difficile realizzazione. E nel 1987, presso il celebre ristorante di Roma “Cecilia Metella”, in occasione di un Convivio organizzato dall’Accademia Italiana della Cucina, la Shëtridhla ha avuto il suo meritato momento di gloria. Oggi occorrerebbe farla conoscere e gustare anche nel circondario, pur tenendo in serbo, gelosamente, la tecnica di manifattura.

Un capitolo molto suggestivo è rappresentato, inoltre, dal Costume tradizionale. La non facile realizzazione e la difficile reperibilità dei tessuti rischia, oggi, di far scomparire completamente quegli abiti che ancora vengono indossati dalle donne molto anziane.

Il costume Arbëresh, di cui stiamo parlando, consta di quattro varianti: quello di Gala, quello Ordinario, quello di lutto e quello delle ragazze in attesa di marito.

Il costume di gala è quello più ricco, sia per i tessuti, che per la composizione. E’ costituito, infatti, da 14 pezzi: due sottogonne (dy sutavesta); una camicia lunga (linja), dal collo ampio e ricamato (miletti); una gonna lunga ed ampia, plissettata e bordata, con applicazioni ricamate in oro bianco (galluni); un’altra gonna azzurra, anch’essa plissettata e bordata in oro giallo, da raccogliere al braccio a forma di ventaglio (coha); un bolerino azzurro, intessuto con fili d’oro, formanti complicatissimi motivi floreali, ed applicazioni d’oro sui bordi delle maniche e sul dietro (xhipuni); le calze bianche (kalluciet t’bardha); le scarpe bianche (Kpuct t’bardha); i boccoli di tela bianca per l’acconciatura (miçet); una striscia di tessuto rigido decorato d’oro (Keza); ed infine un nastro di velluto nero, con un ciondolo (birlloku); una catenina d’oro (llaci); gli orecchini (riqintë) ed uno scialle rosso, ricamato con fili di seta gialla e nera (pani).

Il costume ordinario è, invece, meno sfarzoso. La bordatura della gonna, infatti, è verde piuttosto che d’oro, ed il corpetto è di panno nero, con decorazioni in corda bianca.

Il costume di lutto porta una gonna di lana verde, con bordatura in oro giallo, sopra la gonna rossa.

Kandush è, invece, il costume proprio delle ragazze nubili. L’estrema semplicità di questo abito lo rende quasi brutto: camicia bianca senza decorazioni al collo, gonna nera e bolerino nero.

E’ quasi come se la ragazza in cerca di marito dovesse preservarsi dalla vista degli uomini, per cui l’abito non doveva renderla appetibile. Lo sfarzo, infatti, che a diversi gradi è presente negli altri costumi, è completamente assente, invece, in quello delle ragazze “da marito”.

Mariella Capparelli

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