I
RITI PASQUALI
A SAN
DEMETRIO
CORONE
In
questa comunità della diaspora italo-albanese, come del resto nelle
altre ancora legate al rito greco-bizantino, in occasione della “Java
e madhe”, la Grande e Santa settimana di Pasqua, vengono puntualmente
e intensamente rievocate usanze e tradizioni dalle radici molto
profonde, ricche di fascino arcaico e di suggestivi significati, testimoni del forte sentimento religioso vissuto dalla
popolazione locale che da
cinque secoli preserva la lingua materna, l’arbrisht, e la liturgia
orientale.
E’
opportuno soffermarci su un aspetto peculiare delle funzioni pasquali
del rito bizantino.
Esse,
proprio perché non sono legate agli orari stabiliti dalle norme
ecclesiastiche latine, li anticipano di dodici ore. E così, la
Resurrezione inizia la notte di sabato, notte in cui in questo centro,
come anche in altri adagiati nelle colline presilane, quali S. Cosmo
Albanese, Vaccarizzo Albanese e S. Giorgio Albanese,
vige la consuetudine, ancora molto radicata , secondo la quale i
fedeli di ogni età si recano a piedi presso una fontana posta fuori del
centro abitato, in assoluto silenzio. Qui giunti, una volta sorseggiata
l’acqua (in questo centro l’usanza si rinnova nella ‘fontana dei
monaci’ posta in prossimità dell’antico ex monastero di
Sant’Adriano), ritornano in paese tra gli echi del “Kristos anesti”
(Cristo è risorto) e dei canti popolari albanesi. Per non essere
indotte a trasgredire la
regola che impone il silenzio ed
essere così spinte a parlare, spesso le donne
si muniscono delle “dokaniqje”, lunghi bastoni dalla estremità
biforcuta, che non esitano a tirare addosso a chi le induce a infrangere
la regola !
Sul
significato di tale rito la risposta più attendibile si potrebbe
trovare nel passo del
Vangelo in cui le pie donne, recatesi sul luogo di sepoltura di Gesù,
osservarono il più cauto silenzio nel timore di essere scorte dai
soldati di guardia. Una volta giunte sul posto,
solo quando un angelo appare loro annunciando la Resurrezione,
esse riprendono a parlare. Ricollegandosi ad una arcaica credenza
popolare, il rito legato all’andare a bere (oppure ‘rubare’)
l’acqua il Sabato Santo potrebbe anche
trovare spiegazione nella
diffusa e antica convinzione
secondo la quale al momento del Gloria il prezioso elemento che
sgorga dalle fontane è benedetto.
Giunti
davanti il sagrato della chiesa parrocchiale, a mezzanotte dello stesso
giorno i presenti danno fuoco al tradizionale falò pasquale (qerradonula),
attorno al quale elevano
canti e pregano insieme, per poi ritrovarsi nelle prime ore del giorno
seguente, Domenica di Pasqua, chiamati a raccolta dalle campane, dinanzi
la porta principale della chiesa dove si svolge una tra le più
peculiari e significative cerimonie delle festività pasquali; una di
quelle che rimangono maggiormente nei cuori di chi le ha vissute,
specialmente dall’infanzia. Il rito è quello della ‘Fjala e mire’
, (la buona parola), e simboleggia l’ingresso di Gesù negli inferi,
la Risurrezione dalla morte e la riconquista del Paradiso. Protagonista
il sacerdote, che
munito di una grossa croce bussa sulla porta della chiesa chiusa
all’interno dal sacrestano (che ‘interpreta’ la parte del demonio
il quale ‘provoca’ sinistri suoni agitando una lunga catena e
biascicando parole incomprensibili), fino a quando, vinta la resistenza
di chi si oppone all’ingresso dei fedeli, vi entra seguito dalla gente al canto del ‘Kristos
anesti’.
Anche
sul significato del grande falò della notte del Sabato Santo, cerimonia
dall’indubbio sapore pagano, le supposizioni si accavallano.
L’usanza potrebbe ricollegarsi alla tradizione dei “fuochi di
primavera”, oppure, tesi ancora più suggestiva, il fuoco visto come
elemento purificatore che spazza via il male per fare posto al bene. E
per gli amanti della storia vi è anche la tesi che vede nel falò un
retaggio dei fuochi che i soldati di Skanderbeg appiccavano per
comunicare tra loro.
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Adriano Mazziotti