Si fa un gran discorrere
della criminalità e dell'aumento dei tassi di incarcerazione in
Italia, dove si trovano 2.200 prigionieri albanesi ma nessuno ha
tempo di dedicarsi a loro, traditi due volte dal proprio stato e
dai propri reati. È un vero dramma quello di un immigrato
incarcerato per piccoli reati; i processi si allungano anche di
mesi e anni. Lo Stato albanese non può fare niente ed è forse
l'unico che non trova una lingua per parlare con i suoi
concittadini e fare presente i problemi risolvibili anche con un
trasferimento della pena nel proprio Paese almeno per chi ha
commesso piccoli reati. La nostra ambasciata a Roma ha personale
modesto ed è priva di fondi per andare al cuore del problema.
Ognuno deve pagare per il reato che ha commesso, ma non per altro.
Gli occhi dell'opinione
pubblica sono puntatissimi sugli immigrati limitandosi però, come
fanno d'altra parte i media, a diffondere la notizia degli
arresti, poi c'è il silenzio più assordante. Bisognerebbe alzare
i riflettori sulla condizione di detenzione degli stranieri in
Italia. Innanzitutto, l'aumento dei tassi di incarcerazione, sta
producendo una profonda modificazione nella composizione sociale
del carcere. Oggi in molte istituzioni penitenziarie entrano
quotidianamente più stranieri che italiani: lingua, abitudini,
usanze religiose e alimentari assai diverse. Tali diversità anche
se sono comprese, sono comunque di intralcio ai normali ritmi del
carcere. Il tutto magari in un contesto di emergenza per
sovraffollamento.
L'ordinamento penitenziario,
frutto della riforma del 1975 e dei successivi interventi, dalla
Gozzini alla più recente legge Simeone, non è in grado di
affrontare le gravi questioni poste da una presenza cosi massiccia
di stranieri. Si pensi, per esempio, alle esigenze in merito alle
misure alternative alla detenzione. Non partecipano alle
iniziative interne al carcere, alle occasioni di contatto con la
società libera e non sanno neppure di aver diritto a richiedere
opportunità di accesso a misure extra murarie. Le statistiche ci
confermano che le domande ai benefici da parte di detenuti
stranieri sono pochissime. Quindi gioca un ruolo decisivo la
difesa meno attenta che non informa, che poco propone e che spesso
non si impegna nell'approfondire le specificità dei casi. La
seconda parte dell'art. 55 dice che devono essere favorite le
possibilità di contatto dei detenuti stranieri con le autorità
consolari del loro Paese. Ho potuto constatare lo stato di
isolamento in cui vengono tenuti i cittadini albanesi, accusati di
reati non gravi, che non possono liberamente né scrivere, né
chiamare l'ambasciata o i propri famigliari: così i detenuti non
possono godere di uno dei più elementari diritti, quello della
comunicazione. Chiudo con una domanda che vuole essere una
speranza: è possibile uscire, almeno in parte, dalla logica che
identifica le esigenze di sicurezza dei cittadini con i meccanismi
di esclusione e di neutralizzazione, destinati a produrre solo
ulteriori disagi sociali, marginalità, devianza e criminalità
dannosi per tutti? La nostra società ha bisogno dell'individuo e
per questo dobbiamo porgerci la mano anche con un po' di sforzo
per andare verso una convivenza serena, verso la pace che conduce
all'amore per gli altri.
*Presidente Associazione
italo-albanese
Arberia - Pordenone