L'anno è il 1797 e lo scenario è quello della Valtellina in Lombardia
ai confini con la Svizzera.
La repubblica cisalpina è ormai una realtà .
Valtellinesi e Chiavennaschi, con i Bormini sudditi delle Tre Leghe dal
1512, stanchi dei continui soprusi dei magistrati di Coira e del decennale
trascinarsi delle loro inascoltate doglianze presso il Governo dei
Grigioni, hanno solennemente proclamato la loro indipendenza sicuri della
protezione delle truppe francesi vittoriose.
La comunità dei Bormini non sembra avere lo stesso fuoco sacro e,
malgrado i ripetuti inviti dei Valtellinesi, esita a dissociarsi dal
governo dei Grigioni, sancito da un capitolato di intesa garantito
dall'Austria.
Per quale motivo?
Sin dall''epoca della loro adesione, i Bormini riuscirono a mantenere
anche sotto il governo dei Grigioni i privilegi di cui godevano con i
loro statuti sotto il governo dei duchi di Milano.
Vi era poi una enorme diffidenza dei Bormini nei confronti dei
Valtellinesi che traeva origine da una tragica esperienza durata
vent'anni: un alleanza con i valtellinesi che portò a dure conseguenze
dopo l'insurrezione del 1620, ricordata come "il sacro
macello" ( i valtellinesi chiamarono questo avvenimento "la
rivolta contro i riformati grigioni. Cesare Cantù, scrivendo nel primo
ottocento, di questi avvenimenti, coniò l'intrigante dizione di
"sacro macello".) e alle guerre che seguirono. Le rovine
furono tali che si trascinarono materialmente e moralmente per più
generazioni e crearono nella memoria dei Bormini una traccia indelebile:
"mai più con I Valtellini !!". Traccia che trovò la sua
concretizzazione persino nei loro statuti civili e nell'edificazione di
un muro che separasse le due comunità eretto in località "ponte
del Diavolo"( I ruderi superstiti del muro che ha resistito per
decenni, furono coperti dalla frana che seppellì Sant Antonio Morignone
)
Un passo indietro.
Dal 1785 si era rifugiato a Bormio il Conte Lechi, bresciano , fuggito
dai Piombi di Venezia dove avrebbe dovuto scontare vent'anni per un
presunto omicidio.
I magistrati dei Grigioni concedevano con riluttanza ed estrema lentezza
l'estradizione anche per fatti di sangue. E i rapporti con la Repubblica
di S.Marco erano pessimi da quando la repubblica aveva denunciato i
trattati ed espulso tutti i sudditi Grigioni dal territorio. Pienamente
tranquillo per la sua sicurezza il Lechi, con l'approssimarsi ai confini
della valle delle vittoriose truppe napoleoniche portatrici di idee di
uguaglianza e libertà, si fece promotore e fondatore di un piccolo e
ardente nucleo "giacobino" di cui facevano parte discendenti di
famiglie stabilitesi da lungo tempo nel territorio di Bormio ma , per
qualche verso, considerate sempre forestiere e quindi mai ammesse a godere
degli antichi privilegi.
L'atteggiamento dei Valtellinesi nei confronti delle nuove idee e degli
eserciti vittoriosi fu di tale adesione che li portò il 19 giugno 1797 a
proclamare solennemente la loro indipendenza dal governo dei Grigioni, che
nulla fece per impedirlo timoroso dell'esercito francese e alle prese con
dissidi interni.
L'esempio fu presto seguito con qualche eccezione, dal contado di
Chiavenna .
Bormio invece resistette alle sollecitazioni anche di alcuni residenti
e "patrioti" che la volevano unita all'azione di Chiavenna e
Valtellina.
Le ragioni:
Bormio conosceva da lungo tempo non solo privilegi ma anche la parola
libertà essendo abituata ad eleggere democraticamente i suoi
rappresentanti di governo
La parola "rivoluzione" bandiera giacobina e Napoleonica
poteva far presa sui valtellinesi e Chiavennati oppressi così come sui
Bresciani insorti in quel periodo contro la Repubblica di S. Marco forti
dell'appoggio francese. Nel ricordo dei Bormini tradizionalmente
cattolici la parola "rivoluzione" richiamava alla memoria il
tragico periodo della persecuzione religiosa (sacro macello) e alle
sciagure che seguirono.
Non vi erano tensioni sociali che alimentassero desideri
rivoluzionari
Non così la pensavano i Valtellinesi , i Chiavennati e il nucleo
giacobino di Bormio guidato dal Lechi.
Non mancò da parte loro un "fraterno ammonimento" ai Bormini :
se non si fossero uniti al movimento indipendentista avrebbero patito
embarghi commerciali e probabili invasioni dell'esercito della neo
repubblica Cisalpina.
Colpiti da questa esortazione e, qual buon peso, dall'assenza di garanzie
del governo di Coira, il popolo di Bormio il 9 luglio proclamò
l'indipendenza e la propria sovranità " in faccia a tutta
l'Europa". La dichiarazione prevedeva si la protezione della
repubblica Francese ma anche la totale indipendenza della comunità
bormina da qualsiasi governo. Fu issata la bandiera tricolorata della
repubblica Cisalpina accanto alla vecchia insegna del contado. I mugugni
non mancarono anche se edulcorati dalla convinzione dei propri privilegi.
Privilegi che nei pensieri dei Giacobini e del loro concetto di libertà e
di uguaglianza era giunto il momento di abbattere.
Difficile farlo accettare però a una comunità montanara prudente,
parsimoniosa, diffidente verso le novità forestiere e così diverse dalla
proprie tradizioni.
Il conte Lechi fu richiamato da Brescia, dove nel frattempo aveva
potuto nuovamente riunirsi ai suoi familiari, da alcuni compagni del
nucleo giacobino di Bormio e, qui ritornato, contestò violentemente il
governo bormino e le sue decisione prese in assenza dei
"forestieri" ai quali non era stata concessa la facoltà di
esprimere la propria opinione in ossequio ai nuovi principi di
uguaglianza.
I giacobini che "vagheggiavano e proclamavano ancora una
rivoluzione coi fiocchi " si resero responsabili poi di misure
restrittive nei confronti di tre delegati del governo bormino in viaggio
verso Tirano e di un nuovo progetto di governo presentato al popolo
direttamente con gravi minacce per quanti si fossero opposti.
Questo modo brutale di proporre dei rinnovamenti a una popolazione per
certi versi conservatrice, era reso ancora più intollerabile perché
imposto, più che presentato, da uno straniero e a un apparente
acquiescenza fece presto seguito una furibonda reazione popolare che
portò il 23 luglio 1797 al massacro di Cepina.
Dopo alcuni brevi scontri a fuoco tra i patrioti bormini e i partigiani
del Lechi , in numero ormai esiguo per le numerose defezioni, Lechi e
alcuni capi giacobini furono arrestati e condannati a morte.
Offertogli del vino e la possibilità di redimersi il Lechi così si
pronunciò:" Bevo il sangue dei Bormiesi dei quali voglio far
vendetta". Fu fucilato senza processo di li a poco assieme ad altri
compagni per quanto avessero questi fatto atto di contrizione. Vi fu un
superstite, l'unico tra gli arrestati: Carlo Filippo Nesini. Gli fu
risparmiata la vita per
intercessione del genitore a e di alcuni patrioti che gli riconoscevano,
malgrado tutto del "buon animo".
Fin qui la vicenda.
Allora dove si annida il mistero ?
Cosa spinse il Lechi pur avendo
ritrovato libertà e famiglia a sacrificare la sua vita ? L'ideale o la
sete di potere? O che altro? O contò molto la superbia del
"nobile" verso i plebei, ancorché fra loro si definissero
patrizi?
La Valtellina e Bormio in particolare era ( ed è) sede di sviluppati
traffici commerciali.
Cosa spinse il popolo bormino a disfarsi così sommariamente di un
manipolo di presunti rivoluzionari che fino a quel momento di fatto non
avevano inciso su privilegi e tradizioni di quel contado? Fu solo la
presunta minaccia a stili di vita consolidati o timore e insofferenza nei
confronti dei… forestieri ? Che ruolo ebbero nella vicenda i
"patrizi" del luogo tradizionali custodi di consolidate gerarchie anche
economiche ?
Un minimo comune denominatore per noi esiste : l'imperscrutabilità
dell'animo umano, delle sue paure , delle sue bramosie, della sua
intolleranza e l'ancestrale ricorso al capro espiatorio, comune a tutte le
comunità giudaico/cristiane del tempo.
Senza di esse il mistero non esisterebbe.
La discussione è naturalmente aperta e il contraddittorio è il
benvenuto.
Bbliografia
Tratto da " La storia dell'uccisione del Conte del Diavolo"
di Prete Ignazio Bardea 1807 - a cura di Sandro Massera e Ireneo Simonetti
- Edizione Alpinia
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