Il seguente lavoro non ha la presunzione d’insegnare le tecniche
di scavo, ma nasce piuttosto dalle riflessioni di chi ha notato
una certa superficialità nel recupero di materiale scheletrico.
Tale superficialità nasce, forse, da un approccio sbagliato
con un campo di ricerca di per sé molto complesso come l’antropologia
sul campo.
La prima cosa che insegnano ad uno studente di archeologia è
che uno scavo, di qualsiasi tipo esso sia, è per sua natura,
distruttivo. E’ come un libro di cui si bruciano le
pagine lette: bisogna stare attenti a non leggerle distrattamente
perché non si può più tornare indietro.
Purtroppo capita spesso che in un laboratorio di antropologia, arrivino
reperti scheletrici privi di quei dati che sono fondamentali all’antropologo
per ottenere, dallo studio del campione, risultati soddisfacenti.
Questa poca attenzione nel recupero è dovuta al fatto che
un archeologo, il più delle volte, tende a sottovalutare
la potenzialità e il carico d’informazioni che può
avere una tomba o una sepoltura. Ci si ritrova, così, a dover
studiare scheletri decontestualizzati (senza quote, indicazioni
stratigrafiche, schede tafonomiche ecc.), buste piene di reperti
senza
alcun’informazione sulla provenienza; a volte, può
anche capitare di lavorare in laboratorio ad una serie di sepolture
indicate come “singole” e di ritrovare, invece, nella
stessa sepoltura più femori del solito lato (anche 6!) o
ancora peggio, avere una grossa quantità di ossa accumulate,
anzi, letteralmente “buttate” in bidoni, senza alcun
tipo di documentazione.
Da questi pochi esempi si può facilmente capire come un lavoro
fatto frettolosamente, o in modo superficiale, può far perdere
per sempre, tutta una serie di informazioni fondamentali per la
ricostruzione della storia della sepoltura.
Nello scavo di una tomba, singola o non, isolata o appartenente
ad una necropoli, un archeologo tende a trattare in modo superficiale
gli aspetti antropologici, concentrandosi, secondo i propri interessi,
su altri aspetti come il corredo, la presenza di monete, la struttura
della tomba (quando c’è), i rapporti stratigrafici
con le U.S. vicine ecc.; è giusto che sia così, l’importante
è non sottovalutare il resto perché un’area
del sito, anche piccola, scavata male, può rendere difficile
la comprensione di tutto lo scavo.
La descrizione delle metodologie usate per lo scavo della tomba
multipla sottopavimentale nella chiesa di S. Francesco a Pisa, egregiamente
condotto dalla dott.ssa Pagni, è un esempio di come può
essere complicato uno scavo non propriamente archeologico, e di
come i metodi e la strumentazione “classica” non sempre
vadano bene (scarica l'approfondimento su
questo intervento di scavo).
Questo lavoro vuole evidenziare la necessità di rivisitare,
o quantomeno “adattare”, le regole e le tecniche comunemente
adottate su tutti i cantieri ad una tipologia di scavo spesso messa
in secondo piano dai grandi manuali di metodologia. Crediamo, inoltre,
sia necessaria la nascita e la diffusione di una nuova figura di
antropologo, che esca dal laboratorio per lavorare direttamente
“sul campo”, avendo precedentemente acquisito,
ovviamente, la massiccia preparazione di un archeologo.
In conclusione, l’antropologia sul campo dovrebbe avere lo
scopo di recuperare il maggior numero possibile di informazioni
(soprattutto quelle che possono sfuggire ad un archeologo), per
affinare, rendere più completo ed efficace il lavoro di laboratorio.
Lo scavo di resti scheletrici è un lavoro complicatissimo,
in quanto le tipologie di rinvenimento sono così varie che
non basterebbe un manuale per elencare tutti i casi possibili.
Per tale motivo crediamo sia di fondamentale importanza lo scambio
di informazioni sulle varie esperienze di scavo, al fine di approfondire
e migliorare le tecniche usate e ad evitare di ripetere gli errori
fatti.
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