AMERICAN BEAUTY
(American Beauty)

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REGIA:    
Sam MENDES

PRODUZIONE: U.S.A.   -   1999   -   Comm.

DURATA:  121'

INTERPRETI:
Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch,
Mena Suvari, Wes Bentley, Chris Cooper,
Allison Janney, Peter Gallagher, Scott Bakula, Amber Smith

SCENEGGIATURA:
Alan Ball

FOTOGRAFIA:
Conrad Hall

SCENOGRAFIA:
Naomi Shohan

MONTAGGIO:
Tariq Anwar - Christopher Greenbury

MUSICHE:
Pete Townshend - Thomas Newman

Trama

Un uomo qualunque di mezza età, con un matrimonio in crisi, rimane perdutamente affascinato da un'amica della figlia. Sarà questa la molla che lo porterà a mettere in discussione tutta la sua vita dal rapporto con la moglie al proprio lavoro; percorso obbligato per rinascere e riscoprirsi uomo.

Recensioni

 

 

 

L'America delle ipocrisie

Con un biglietto da visita di tre Golden globe (Miglior film drammatico, miglior sceneggiatura e miglior regia) American Beauty, il film che segna l'esordio di Sam Mendes alla regia, si presenta nelle sale italiane con molte attese. Il risultato però non è all'altezza delle aspettative, e si ha l'impressione che quello che veramente il film voglia esprimere, rimanga impigliato nella mente del regista, forse per mancanza di coraggio o d'esperienza. Gli spunti iniziali che il film propone sono buoni; dalla visione di una borghesia americana piena di contraddizioni, dove tutti hanno un ruolo sociale prestabilito, che portano avanti con una buona dose d'ipocrisia, siano essi adolescenti o persone adulte. La diversità d'opinione, il non comportarsi in maniera ortodossa, l'esternare i propri sentimenti, sono tutti sinonimi di non conformità, e quindi rifiutati da una società, che una volta faceva della libertà la sua bandiera. American beauty non è sicuramente una produzione scadente, chiariamoci, ma non è nemmeno quella pietra miliare del cinema che ci hanno presentato, per il semplice fatto che il film, con lo svilupparsi della vicenda, più che decollare atterra. Il cast che Mendes si trova a dirigere è eccezionale, a partire da un Kevin Spacey (Lester) formato oscar, per passare ad Annette Bening (Carolyn), fino a giungere Mena Survari (Angela) già vista in American Pie. Perché non si sfruttano appieno le doti di questi interpreti? Perché non si tenta mai, partendo dalla bravura dei suddetti attori, di creare un'atmosfera di vera tensione, una situazione di costante malessere che turbi lo spettatore nel suo io più profondo? Nonostante i momenti drammatici, che si presentano nel corso della vicenda, si ha sempre l'impressione che tutto questo sia minimizzato e sottaciuto. Non sembra credibile, inoltre, che il protagonista (Lester) una volta riscoperta la voglia di vivere, e di decidere il proprio destino, non faccia altro che ricercare una discreta condizione fisica e fumarsi qualche spinello in ricordo dei tempi andati. Anche l'abbandono del lavoro (sospettosamente simile a quello d'Edward Norton in Fight Club) sembra un qualcosa che si realizza con troppa fretta e semplicità. Ed ancora, se il protagonista ha oramai preso coscienza dei valori della vita, e cerca d'uscire da quel turbine di consumismo e di possesso che attanaglia le persone che lo circondano (a partire dalla moglie), perché la prima cosa che fa, dopo essersi licenziato, è acquistare una macchina sportiva, sogno di una gioventù lontana e rimpianta? Il film, come si vede, non è privo di queste contraddizioni. Tutta l'analisi della società, che il regista tenta di attuare, appare superficiale e, alcune volte, scontata e prevedibile. Si ha come l'impressione che questo film, presentato come un prodotto radicale e sconvolgente, non sia nient'altro che una classica produzione americana, fatta ad arte per una middle class, cui piace sognare una vita che non ha, senza angosciarsi troppo con analisi realistiche della propria esistenza, in cui, per riacquistare coscienza di se stessi, non basta sognare una biondina coperta di rossi petali di rose. American Beauty è un urlo che percepiamo come una debole voce, e in cui anche la morte è vista con il sorriso compiaciuto di Kevin Spacey. Il coraggio di descrivere, veramente, una società piena di contraddizioni e di problemi è accantonato per lasciar posto ad una critica che in fondo è accolta anche dai molti ben pensanti, che vedranno il film.

Matteo Catoni


Niente di nuovo sul fronte occidentale

Ci sono film che, pur trattando temi importanti e attuali, passano sugli schermi come meteore, con poca considerazione di critica e pubblico. Penso al crudele "Happiness", che attacca con provocatorio cinismo l'apparente quiete in cui si rintana infelicemente la famiglia borghese, o al sottovalutato "Tempesta di ghiaccio", che affronta la disgregazione della famiglia e l'incomunicabilita' nei primi anni settanta in America. Altri film, invece, giungono sugli schermi dopo mesi di discussioni su giornali e televisioni, che contribuiscono a creare l'evento e ad attirare il pubblico nelle sale. E' il caso di "American Beauty", opera prima di Sam Mendes che dovrebbe essere il ritratto al vetriolo della societa' americana. Dico dovrebbe, perche', se e' vero che "Non tutto e' come sembra", e' anche vero che "Non tutto e' necessariamente diverso da come appare", come ormai impone uno stereotipo che vede dietro a ogni sorriso, non dico un velo di malinconia, ma una vera e propria fontana di lacrime. Quindi non e' detto che chi ostenta atteggiamenti machi sia per forza un omosessuale latente, che chi si vanta delle proprie acrobazie sessuali sia in realta' vergine o che la crisi di una coppia intorno alla quarantina derivi principalmente dal fatto che lei e' in carriera e non gliela da' piu'. Oppure, potrebbe essere, ma e' l'ipotesi piu' prevedibile e meno sottile. Certo e' che l'idea che la felicita' sia data da una bella casa in cui si entra con un sorriso a trentadue denti e un vestito griffato, ha illuso e illude tuttora intere generazioni. Permane il dubbio che dietro la porta di casa il sorriso potrebbe smorzarsi, il vestito ingrigirsi e la casa creparsi, ma guardando a cio' che rincorriamo nelle nostre scelte, sembra restare solo un dubbio. Il film ha il pregio di insinuare una presa di coscienza nello spettatore, di smuovere un po' le acque, anche se, in fondo, non racconta nulla di nuovo. A parte la raffinatezza di certe scelte visive e un Kevin Spacey che conferma il suo carisma di attore, le psicologie teatrali dei personaggi, l'inverosimiglianza di alcune situazioni e l'escalation drammatica ad effetto rendono lo spettatore partecipe di uno spettacolo a tratti coinvolgente ma forse un po' superficiale.

Luca Baroncini


Molto rumore per nulla (o quasi) 

Il fenomeno cinematografico delle ultime settimane, è un filmetto più o meno riuscito, che senza discostarsi molto (caramellosamente parlando) dall' altrettanto furbo quanto stupido "American Pie" (di cui riprende non solo il nome, ma anche il taglio piattamente televisivo e la scialba Mena Suvari), si limita a divertire il suo spettatore, guardandosi scrupolosamente dal metterlo in gioco, e trattando la sua scottante (almeno sulla carta) materia in modo troppo spesso volgare e grossolano . Poco più di un' anonima macchina acchiappa-oscar, dunque, ma che al contrario di numerose operazioni analoghe, può tutto sommato, contare su una magistrale interpretazione di Kevin Spacey (il che non è poco) e su qualche idea incredibilmente azzeccata (vedi le sequenze oniriche) . American Beauty è in definitiva un' ottima scelta per un sabato sera al cinema, ma al contrario di quello che i media ci hanno fatto credere, non molto altro . 

Andrea Carpentieri


La "bellezza" dell'occidente

American Beauty è un film semplice e divertente. Semplice per come i personaggi vengono disposti a mo' di pedine lungo il 'viale della felicità' dove Lester Burnham abita; divertente per come noialtri spettatori ci riconosciamo, ridendo, nelle ansie da divano di Carolyn, nella paranoia voyeristica del ragazzo di sua figlia e nei suoi momenti di poesia povera, e in Lester che balbetta per un balletto di majorette o controlla, smargiasso, il suo bicipite davanti la finestra. Questo duro affresco della realtà piccolo borghese (che più che 'americana' possiamo pensare come 'occidentale' visto che cambiando qualche nome e qualche attore il film s'adatta bene a noi e a quant'altri) funziona. E' un congegno fatto in modo che si possa dire per una scena su due "ah sì, è proprio così, è così che va il mondo". I vari elementi della dissoluzione e del disfacimento umano sono ben allineati:
l'onanista Lester che rivoluziona la sua vita con entusiasmo adolescenziale motivato addirittura dalle grazie di un'amica della figlia; Ricky, lo strano ragazzo rinchiuso in una clinica per due anni senza ragione dal padre filo-nazista ( ma di un filo-nazismo ridotto ai minimi termini di un piatto di coccio); la moglie di Lester, simpatica icona della reificazione senza scampo. Il film procede ( e procede con un bel ritmo) fino al rovesciamento finale di tutti i valori in gioco: Angela (tormentone erotico che ha invaso le copertine dei nostri giornali) si scopre una spaurita verginella, l'insicura Jane non ci pensa due volte a dire di sì alla proposta di mollare tutto e partire per un'altra città, l'audace colonnello non sa più su che sponda stare.
Ogni cosa si rovescia nel suo opposto e converge verso lo sparo conclusivo: un colpo in realtà sparato da tutti i personaggi (tranne Lester, la vittima) verso la società nel suo insieme. Titoli di coda dopo il 'memento mori' conclusivo, grande stupore e soddisfazione del pubblico.
E' stato scritto che American Beauty è il ritratto della società declinata e funzionante degli anni '90, ma forse il vero indizio sui nostri tempi lo cogliamo nel rapporto di divertimento e identificazione che il film crea con i già numerosi spettatori.
Opera di critica all'idologia per famiglie, il film di Sam Mendes è un film per famiglie; ciò che di nuovo è successo in questo decennio è che tra le varie merci di cui 'l'uomo comune' si nutre c'è anche, ormai regolarmente, la cruda e inefficace critica a quelle merci e a se stesso. La critica alla società del mercato è diventata lucroso oggetto di mercato. 

Italo Tardiola

Commenti

 

 

Perché tanto entusiasmo del sottoscritto per l'opera prima di un regista che ha, né più né meno, detto cose già raccontate da altri (non scomodiamo Altman, ma è sufficiente pensare ai sottovalutati "Tempesta di ghiaccio" o "Happiness"). La risposta è: "per come l'autore le ha dette". A parer mio, infatti, Mendes si è dimostrato il più grande talento registico dai tempi in cui Tarantino esplose con "Pulp Fiction". Attorno al nucleo centrale (e sfido chiunque a trovare qualcuno che di recente ha fatto così a brandelli l'istituzione della famiglia), l'autore riesce ad omogeneizzare una serie straripante di temi  ambiziosi e apparentemente disparati solamente attraverso lo "strumento" registico; una dimostrazione di genio già maturo specialmente nell'utilizzo del montaggio che permette di passare da territori lynchiani a quadri altmaniani, da Kieslowski a Wenders, mantenendo una precisa, personalissima e innegabile unità stilistica. 
Argomenti triti e ritriti? Lo ammetto. Ma, secondo me, è nato un genio...

Daniele Bellucci


I detrattori diranno che l’espediente narrativo del flashback “dall’aldilà” non è per niente nuovo e che l’hanno già visto, ad esempio, in “viale del tramonto” o in “monsieur verdoux”; poi storceranno il naso di fronte all’ennesima condanna dell’american dream, anch’essa un po’ “ritrita”; quindi si lamenteranno del fatto che i personaggi non vanno oltre lo stereotipo e che nessuno di essi risulta credibile; prossimo bersaglio saranno, probabilmente, i colpi di scena della serie: “la realtà non è quella che sembra”, che bolleranno come telefonati e dunque poco incisivi; regia e fotografia saranno definite buone ma anonime, prive di una vera personalità, anche se tutti ammetteranno che le sequenze oniriche sono molto ben fatte ed efficaci; gli attori saranno forse gli unici ad essere salvati, con una (sacrosanta) lode incondizionata a Kevin Spacey e qualche (legittima) riserva sulla Bening che in effetti sfocia un po’ nel caricaturale; infine si prenderanno gioco della sequenza del sacchetto che danza nel vento, liquidandola come un penoso tentativo di creare un momento di profondità e poesia. I detrattori hanno (quasi) tutte le ragioni del mondo ed è difficile controbattere razionalmente alle loro critiche…se però alla fine della proiezione avevate, come me, gli occhi lucidi, la bocca spalancata e la parola “capolavoro” che vi ronzava nella testa, beh, potete per una volta rinunciare all’obiettività critica e godervi un gran bel film in santa pace. Se la vecchia cattiva Hollywood è ancora capace di QUESTO, allora lunga vita a Hollywood.

Gianluca Pelleschi


Matteo
Catoni
6

Daniele
Bellucci

Luca
Baroncini

Gianluca
Pelleschi
8

Andrea
Carpentieri
Italo
Tardiola
6
Oboo
 
8
Giada
Bernabei
Alessandro
Poli
Stefano
Selleri
Angelo
Taglietti
7
Luigi
Garella
6
Luca
Pacilio
5
Simone
Ciaruffoli
7
Manuel
Billi
8
Alberto
Zambenedetti
7
   
 

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