I CINQUE SENSI
(The Five Senses)

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REGIA:    
Jeremy PODESWA

PRODUZIONE: Canada   -   1999   -   Dramm.

DURATA:  104'

INTERPRETI:
Mary-Louis Parker, Nadia Litz, Molly Parker,
Philippe Volker, Gabrielle Rose, Marco Leonardi,
Pascale Bussieres, Daniel MacIvor

SCENEGGIATURA: Jeremy Podeswa

FOTOGRAFIA: Greg Middleton

SCENOGRAFIA: Taavo Soodor

MONTAGGIO: Wiebke Von Carolsfeld

COSTUMI: Gersha Phillips

MUSICHE: Alexina Louie - Alex Pauk

Trama

In un palazzo di Toronto scorrono intrecciandosi o sfiorandosi le vite di cinque inquilini con problemi legati ad un loro "senso", mentre la popolazione è in ansia per la scomparsa di una bambina nel parco sottostante l'isolato.

Recensioni

 

 

 

Tra Egoyan e Kieslowski

E' una strana coincidenza che "I Cinque Sensi", premiato all'ultimo Sundance Festival, seconda opera del canadese di origine polacca Jeremy Podeswa, appaia come una sintesi perfetta degli stilemi e dei temi ricorrenti di Kieslowski ed Egoyan, proprio i maggiori rappresentanti della cinematografia polacca e canadese degli ultimi anni.
Questo dramma corale (epico-intimista nella definizione dello stesso autore) che rimanda in prima battuta alla costruzione "Altmaniana", è un'amara esaustiva riflessione sulle difficoltà dell'esistenza quotidiana in ogni sua componente: il piacere, l'amore, le relazioni familiari, il dovere, la presenza della morte. In sintesi, il regista rappresenta l'impotenza dell'uomo a rapportarsi in modo sano e sereno col mondo esterno, a convivere senza traumi con quel caso-destino, tanto caro al regista dei Tre Colori, la cui presenza invisibile condiziona l'umanità quanto la sua inspiegabilità. Ma mentre in Kieslowski il "caso" assume fascinosi connotati di seduzione e poesia abbinati a imprevedibili combinazioni geometriche, in Podeswa (tranne nell'episodio del medico) è spogliato di qualsiasi lato seducente e mostrato nel suo aspetto più pesantemente "esistenzialista": un'angosciante sensazione di predestinazione e impotenza che grava sui personaggi logorandoli o "deviandoli". Questa difficoltà di convivenza con l'esterno è simboleggiata in modo efficace ed appropriato dall'"abnorme" funzionamento di uno dei sensi da parte dei cinque protagonisti dello stabile (ma in realtà anche i personaggi di contorno hanno uno stretto legame con un particolare senso), centro narrativo del film nonché palese sineddoche della città contemporanea: un oculista che perde progressivamente l'udito; un'adolescente "infettata" dal voyerismo deviato del padre, morto da qualche tempo; sua madre, massaggiatrice, che cerca di ritrovare il gusto della vita attraverso il piacere che le procura il con-tatto con i suoi clienti; una ragazza snob che sacrifica il sapore delle sue torte all'altare di un'estetica fuori luogo; il suo migliore amico, gay addetto alle pulizie del palazzo, che cerca di trovare negli amanti passati il profumo dell'amore. 
I sensi sono infatti proprio il mezzo con cui l'uomo si rapporta col mondo, e la malfunzionalità di uno di questi rappresenta la difettosa relazione con gli "oggetti" esterni, soprattutto gli altri esseri umani, che più di tutti "determinano" l'andamento della nostra vita, facendosi "nostro destino"; e così la paura degli eventi diventa diffidenza e paura degli altri che può sfociare nell'isolamento o nell'aggressività. Ma il corso di questo progressivo e apparentemente irreversibile disagio dell'uomo può essere invertito (e il messaggio ottimista dell'autore si rivela più consono ad una visione  cattolico-umanista che ebraica, quale avrebbe potuto essere vista la religione del suo ceppo): alla fine (quasi) tutti i personaggi, in coincidenza con il simbolico ritrovamento della bambina scomparsa, acquisteranno epifanicamente la consapevolezza che solo "rischiando" nel riallacciare rapporti con gli altri, gettandosi nel mondo senza reti, abbandonando il guscio anestetizzante che è diventata la loro vita, potranno fare luce sui lati oscuri del proprio disagio, rendere più accettabili i propri drammi, condividere le angosce, esorcizzare le proprie ossessioni. 
La straordinaria bravura di Podeswa sta nel rappresentare le storie che compongono il film ognuna con un differente registro predominante e con un proprio stile visivo e di ripresa, mantenendo contemporaneamente un'omogeneità tanto sorprendente nell'esito quanto ardua sulla carta, ancor più difficile da raggiungere per la rigorosa scelta registica di nascondere ellitticamente il filo conduttore che lega le diverse storie, che solo un titolo troppo rivelatore rende "leggibile" sul nascere.
Si parlava della varietà di soluzioni visive e realizzative adottate da Podeswa in funzione delle storie. E così l'intreccio degli episodi legati a Rachel segue tematicamente e stilisticamente le orme di Egoyan, con lunghissime sequenze spoglie che vivisezionano la disgregazione familiare prodotta dalla scomparsa del padre di Rachel, in particolare nei sensi di colpa che la madre riversa inconsciamente nella figlia accrescendone il disagio adolescenziale provocato da una consapevolezza di diversità la cui natura la ragazza non riesce ancora a delineare. La storia del medico è la più indiscutibilmente kieslowskiana e non solo per la presenza dell'intenso Philippe Volter intereprete de "La Doppia Vita di Veronica": è qui dove il dramma si trasfigura in poesia, dove il destino acquisisce gli attributi della magìa risarcendo Richard attraverso la figura di Gail, improbabile (ma credibilissima grazie alla bravissima Pascale Bussieres) prostituta che diventerà il suo angelo custode e lo accompagnerà a memorizzare quei suoni che tra breve non potrà più ascoltare (suggestivo il richiamo al fonico di Lisbon Story); è nelle lentissime carrellate orizzontali lungo gli interni dalle opache tonalità scure che riconosciamo lo strumento privilegiato del cinema dell'est europa (e non solo del succitato Kieslowski ma anche di Tarkovskij) per mettere a nudo lo stato di tormento e dissidio interiore dei personaggi.
A spezzare il tono dolente e sofferto dei suddetti episodi, ci pensa la straordinaria performance di Marie-Louis Parker che in ruolo altezzoso ed egocentrico, dà una brillantezza da commedia alla sua parte di storia, perfettamente contrappuntata dall'amante spagnolo (in realtà italiano nell'originale: il dizionario English-Italian su un tavolo svela il goffo tentativo di conciliare la vera natura del personaggio con le esigenze di doppiaggio) interpretato da Marco Leonardi, dalla vitalità e loquacità pari al suo talento culinario. E' l'unico momento "altmanianamente" perfido della pellicola, dove la prevenzione snobistica e l'aridità sentimentale di Rona sono alluse dalle sue meravigliose torte senza sapore, mentre l'innamorato e insaziabile amante Roberto fa dei piatti fenomenali... e il finale dell'episodio, contrariamente agli altri, vedrà una "nemesi" anziché una "catarsi" o una rivelazione.
Insomma, nonostante il progetto a teorema tolga un po' di libertà e respiro a taluni episodi cosicché il cuore risulta meno appagato della mente, ci troviamo pur sempre di fronte ad un piccolo grande film che riusciamo miracolosamente a vedere a giugno (e chissà se anche fuori da Roma), grazie agli scarti della distribuzione che mai avrebbe il coraggio di farli uscire nelle sale in periodi di maggiore affluenza. Si dice che sia un male che la stagione cinematografica in Italia si fermi di fatto a maggio per ricominciare a settembre e che il grande pubblico diserti le sale nei mesi estivi. Forse non è poi tanto un male: gioiellini come questo non li vedremmo mai.

Daniele Bellucci

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Daniele
Bellucci
8

Luigi
Garella

 

     
           
 

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