DICIASSETTE ANNI
  (Guo nian hui jia)

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REGIA:    
ZHANG Yuan

PRODUZIONE: Cina/Ita   -   1999   -   Dramm.

DURATA:  90'

INTERPRETI:
Liu Lin, Li Yun, Li Bingbing, Li Yeding, Liang Song

SCENEGGIATURA:
Yu Hua Ning - Dai Zhu Wen

FOTOGRAFIA:
Zhang Xigui

SCENOGRAFIA:
Zhao Xiaoyu

MONTAGGIO:
Jacopo Quadri - Zhang Yuan

MUSICHE:
Zhao Xiaoyu

Trama

Primi anni '80: in un quartiere povero di una metropoli cinese, vivono in ristrettezze e in continua tensione marito e moglie, che in ogni situazione prendono le parti della propria figlia di primo letto, Tao Lan e Yu Xiaoqin, l'una estroversa e indisciplinata, l'altra chiusa e ubbidiente. Dopo l'ennesimo litigio, Tao Lan sarà ingiustamente accusata di aver rubato soldi in casa e, colta da un raptus, ammazzerà la colpevole sorellastra con una bastonata. Verrà rinchiusa nel carcere della città e ne potrà uscire per una vacanza premio 17 anni dopo...

Recensioni

 

 

 

Con un po' più di coraggio...

Cominciamo con una domanda: perché il film vincitore del Festival di Venezia '99 è già scomparso dalle sale italiane? Eppure quando 12 anni or sono il genio di Zhang Yimou "esplose" a Berlino vincendo l'Orso d'Oro con il suo primo film "Sorgo Rosso", questo, distribuito con una notevole dose d'azzardo per quell'epoca, ebbe ben altra accoglienza anche se la consacrazione avvenne con i lavori successivi. Perché allora il Leone d'Oro di Venezia non ha conquistato il pubblico?
La risposta non è semplice perché "17 anni" non è affatto brutto. Possiede una struttura narrativa classica molto simile ad una tragedia greca nella sua tripartizione: il dramma; l'esilio-espiazione; il ritorno. La regia antispettacolare di Zhang si rivela rigorosa e solida. Il difetto principale di questo film è la mancanza di almeno uno dei requisiti che producono emozione in una storia di stampo neorealistico come il soggetto di Zhang: il lirismo o la forza drammatica. Premesso che il lato poetico sembra interessare poco il regista, si constata alla fine che l'impatto emotivo della pellicola, la sua intensità, risulta saltuaria e incostante e ciò, secondo me, a causa della scelta di deviare la centralità della narrazione verso il più tradizionale e "politicamente corretto" aspetto familiare della storia. Cerchiamo di focalizzare il problema.
Dopo il lungo prologo che sfocia nella tragedia, impeccabile e ben realizzato ma che ha come unico scopo quello di introdurre i temi "reali" della pellicola, la storia si trascina come uno stanco e poco ispirato road-movie fino ad una conclusione drammatica agrodolce né particolarmente emozionante né significativa dal punto di vista morale e sociale, se non nel volto stravolto dell'educatrice che si allontana affranta dalla casa dove ha lasciato la condannata in permesso premio.
A ben vedere, il momento più coinvolgente e riuscito del film, è paradossalmente quello che non si vede, la lunga ellittica permanenza nel penitenziario di Tianjin: noi vediamo entrare Tao Lan con il ricordo della sua esuberanza, della sua gioia di vivere, dei suoi sogni di adolescente; la vediamo poi uscire per il permesso di buona condotta spaurita, disorientata, "disumanizzata": indimenticabile e doloroso il suo disperato  goffo tentativo di attraversare una strada trafficata. Questo è l'unico momento "forte" e coinvolgente del film e il più diretto atto d'accusa contro una società che utilizza il carcere per "manipolare" l'individuo, spogliandolo della sua personalità,  marcandolo per sempre come "assassino" e insinuandogli un senso di colpa (il prezzo della riabilitazione) da cui non potrà mai più liberarsi; questo arbitrio è ipocritamente mascherato con il lodevole intento di rendere inoffensivo il colpevole e contemporaneamente reinserirlo nella società. Questa denuncia sullo "svuotamento dell'individuo", che ricorda molto il tema principale di "Arancia meccanica", viene però sistematicamente reso periferico, marginale nel contesto narrativo, forse per mancanza di coraggio dell'autore, che indirizza la storia verso i binari intimisti della ricomposizione di ciò che è ricomponibile del nucleo familiare segnato irrimediabilmente dalla disgrazia.
Poteva essere meglio approfondito anche il tema del cambiamento della Cina durante i 17 anni di prigionia della protagonista: ciò che intravediamo è un cambiamento mai messo grossolanamente in primo piano dal regista, sempre finemente "nascosto", ma anche piuttosto stereotipato: i videogames, il traffico cittadino da metropoli occidentale, il corpo pubblicitario di una modella nuda sulle pareti di un autobus. Più efficace il quadro decadente dell'ammasso di rovine che una volta era il quartiere rurale dell'adolescenza di Tao Lan, anche se la sua valenza simbolica non è sorretta da un'altrettanto vivida resa visiva (più nelle "corde" di uno Zhang Yimou). Riguardo l'aspetto familiare della vicenda, la scelta di Yuan di mettere in scena i drammi di una nucleo dalla composizione "sui generis" per la Cina di quel periodo ma non per il mondo occidentale, non sembra in grado di costituire quel valore aggiunto tale da diversificare il "ritratto di famiglia in un interno" di turno, trattato in modo ben più innovativo anche in recenti produzioni occidentali; tanto che l'evoluzione psicologica più interessante risulta essere quella della giovane educatrice che, dopo aver riconsegnato la ragazza alla famiglia, epifanicamente capirà la falsità e l'inconsistenza (forse anche i danni) del suo lavoro, la cui utilità non aveva mai messo in discussione.
Insomma l'impeccabilità della storia non basta per farci uscire dalla sala senza la sensazione di un'occasione mancata, con l'impressione che Zhang Yuan non abbia avuto il coraggio di portare fino in fondo la sua denuncia  insabbiandola in una storia "familiare" ordinaria, impreziosita soltanto dalla sofferta interpretazione dei protagonisti.

Daniele Bellucci

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