Recensioni
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Con un po' più di coraggio...
Cominciamo con una domanda: perché il film
vincitore del Festival di Venezia '99 è già scomparso dalle sale
italiane? Eppure quando 12 anni or sono il genio di Zhang Yimou
"esplose" a Berlino vincendo l'Orso d'Oro con il suo primo film
"Sorgo Rosso", questo, distribuito con una notevole dose
d'azzardo per quell'epoca, ebbe ben altra accoglienza anche se la
consacrazione avvenne con i lavori successivi. Perché allora il Leone
d'Oro di Venezia non ha conquistato il pubblico?
La risposta non è semplice perché "17 anni" non è affatto
brutto. Possiede una struttura narrativa classica molto simile ad una
tragedia greca nella sua tripartizione: il dramma; l'esilio-espiazione; il ritorno. La regia antispettacolare di Zhang si rivela
rigorosa e solida. Il difetto principale di questo film è la mancanza di
almeno uno dei requisiti che producono emozione in una storia di
stampo neorealistico come il soggetto di Zhang: il lirismo o la forza
drammatica. Premesso che il lato poetico sembra interessare poco il
regista, si constata alla fine che l'impatto emotivo della pellicola, la
sua intensità, risulta saltuaria e incostante e ciò, secondo me, a causa
della scelta di deviare la centralità della narrazione verso il più
tradizionale e "politicamente corretto" aspetto familiare della
storia. Cerchiamo di focalizzare il problema.
Dopo il
lungo prologo che sfocia nella tragedia, impeccabile e ben realizzato
ma che ha come unico scopo quello di introdurre i temi "reali"
della pellicola, la storia si trascina come uno stanco e poco ispirato
road-movie fino ad una conclusione drammatica agrodolce né
particolarmente emozionante né significativa dal punto di vista morale e
sociale, se non nel volto stravolto dell'educatrice che si allontana
affranta dalla casa dove ha lasciato la condannata in permesso
premio.
A ben vedere, il momento più coinvolgente e riuscito del film, è
paradossalmente quello che non si vede, la lunga ellittica permanenza nel
penitenziario di Tianjin: noi vediamo entrare Tao Lan con il ricordo della sua
esuberanza, della sua gioia di vivere, dei suoi sogni di adolescente; la
vediamo poi uscire per il permesso di buona condotta spaurita,
disorientata, "disumanizzata": indimenticabile e doloroso il suo
disperato goffo tentativo di attraversare una strada trafficata.
Questo è l'unico momento "forte" e coinvolgente del film e il più diretto
atto d'accusa contro una società che utilizza il carcere per
"manipolare" l'individuo, spogliandolo della sua personalità,
marcandolo per sempre come "assassino" e insinuandogli un
senso di colpa (il prezzo della riabilitazione) da cui non potrà mai più liberarsi; questo arbitrio è
ipocritamente mascherato con il lodevole intento di rendere
inoffensivo il colpevole e contemporaneamente reinserirlo nella società. Questa
denuncia sullo "svuotamento dell'individuo", che ricorda molto il tema
principale di "Arancia meccanica", viene però sistematicamente
reso periferico, marginale nel contesto narrativo, forse per mancanza
di coraggio dell'autore, che indirizza la storia verso i binari intimisti
della ricomposizione
di ciò che è ricomponibile del nucleo familiare segnato
irrimediabilmente dalla disgrazia.
Poteva essere meglio approfondito anche il tema del cambiamento della Cina
durante i 17 anni di prigionia della protagonista: ciò che intravediamo
è un cambiamento mai messo grossolanamente in primo piano dal regista,
sempre finemente "nascosto", ma anche piuttosto stereotipato: i
videogames, il traffico cittadino da metropoli occidentale, il corpo
pubblicitario di una modella nuda sulle pareti di un autobus. Più efficace il
quadro decadente dell'ammasso di rovine che una volta era il quartiere
rurale dell'adolescenza di Tao Lan, anche se la sua valenza simbolica non
è sorretta da un'altrettanto vivida resa visiva (più nelle
"corde" di uno Zhang Yimou). Riguardo l'aspetto familiare della
vicenda, la scelta di
Yuan di mettere in scena i drammi di una nucleo dalla composizione
"sui generis" per la Cina di quel periodo ma non per il mondo
occidentale, non sembra in grado di costituire quel valore aggiunto tale
da diversificare il "ritratto di famiglia in un interno" di
turno, trattato in modo ben più innovativo anche in recenti produzioni
occidentali;
tanto che l'evoluzione psicologica più interessante risulta essere quella della giovane
educatrice che, dopo aver riconsegnato la ragazza alla famiglia,
epifanicamente capirà la falsità e l'inconsistenza (forse anche i
danni) del suo lavoro,
la cui utilità non aveva mai messo in discussione.
Insomma l'impeccabilità della storia non basta per farci uscire dalla sala senza la sensazione di
un'occasione mancata, con l'impressione che Zhang Yuan non abbia avuto il
coraggio di portare fino in fondo la sua denuncia insabbiandola in una storia "familiare"
ordinaria, impreziosita soltanto dalla sofferta interpretazione dei
protagonisti.
Daniele
Bellucci |