Recensioni
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L'Ultima Sinfonia
Descrivere, o semplicemente parlare dell'ultima opera di Kubrick è qualcosa d'arduo, perché il pensiero non va direttamente al film, ma all'idea che questa sia la sua ultima opera. Superato questo momento d'impasse, e accingendoci a discutere su questo film, le idee impazzano nella mente. C'è tutto il Kubrick-pensiero in quest'opera, e tutti i tratti distintivi che caratterizzano il suo cinema: dal protagonista maschile, in lotta con se stesso e contro il destino, al senso di impotenza dinanzi alle circostanze che il mondo ci tira addosso, al formalismo tecnico, limpido ed impeccabile che contraddistingue ogni sua opera. Questa non è semplicemente la storia di una coppia, è il viaggio attraverso la complicità tra i sessi, alla scoperta di forze primordiali positive (il senso della famiglia) o negative (il tradimento) e tutto ciò che riguarda la sfera sessuale dell'uomo e della donna. Il protagonista, sicuro nel suo guscio, formato dalla famiglia e dal suo lavoro (avete pensato a quante volte ostenta il suo patentino da medico come un magico talismano che possa aprirgli ogni porta?) si ritrova in un attimo svuotato di ogni certezza e pronto ad appagare ogni più recondito spirito animalesco che riguarda la sfera sessuale, ora che non ha più un punto di ancoraggio. Il conflitto con la moglie, nato per gioco potrebbe portare alla fine della storia, e al termine del film il dubbio rimane, anche se l'ultima battuta della Kidman, ci sorprende e spiazza in maniera disarmante; "La cosa che dovremmo fare al più presto è scopare". Il gusto dell'imprevisto e della sorpresa dinanzi a queste parole è molto, ma passa in secondo piano nei confronti di quella che è la frase testamento del
regista, che ci riconduce sul piano della fisicità, annullando i sentimenti fino ad allora indagati nel film. Il ritorno di Kubrick al concetto di uomo come specie, e come desiderio di appagare i bisogni della fisicità. La grandezza di quest'opera, è pressoché insindacabile; perfetta nella regia, nella sceneggiatura, impeccabili gli attori (la Kidman è strepitosa); la scena dell'orgia è un esempio di pura arte, una di quelle sequenze che portano di diritto il cinema nell'olimpo delle arti maggiori. Definire Eyes Wide Shut un Kubrick
minore è un'eresia, e in parte l'ammissione di non aver compreso la sua opera come un qualcosa di globale, che scorre di film in film. Naturalmente stroncato dalla critica di mezzo mondo, e non calcolato nell'assegnazione degli Oscar; del resto Hollywood non gli ha mai perdonato di averlo abbandonato e dimenticato. Semplicemente un film immenso, non il più bel Kubrick, ma immenso.
Matteo Catoni
Traumfilm
La porta alla vita individuale passa per il riassorbimento delle sovrastrutture sociali, è l'angusto, spossante lume dato dalla visione onirica, ancora meglio incubatica: gli occhi chiusi nel sogno sono spalancati sui meccanismi del conflitto, quello eterno ed inevitabile tra natura e cultura (physis
e nomos nella filosofia, quella primordia, greca, legge naturale e legge umana, giuridica) e quello, sperimentabile quotidianamente, tra individuo e imposizione collettiva delle convenzioni; lo scavallamento di queste due dimensioni in prospettiva di progetto esistenziale ottimistico, ecco quello che mette in scena Stanley Kubrick nel suo - in senso assoluto - ultimo film.
Per ammissione di Kubrick medesimo il progetto di trarre un film dal romanzo breve di A. Schnitzler "Traumnovelle" era in attesa, tra i molti ("A.I." è l'altro ben noto), da parecchi anni, è quindi ovvio che nella sceneggiatura scritta a quattro mani con Frederic Raphael si siano condensate le esperienze e le idee maturate in un ampio periodo, valutabile nell'ordine dei trent'anni.
La lettura, meglio, il viaggio in Eyes Wide Shut può seguire molteplici direzioni, ad un livello superficiale può essere interpretato come racconto di un sogno, di Bill Harford, della moglie Alice, dell'incastro tra le loro differenti
ipnerotomachie od ancora della mise en scene di entrambe; pare invece a noi di intravedere un passaggio ulteriore cui da luogo la depurazione dei fattori di narrazione della narrazione, fino ad essere pura oggettivazione dell'estremo soggettivo ch'è la vita sognata: non costruzione di discorso, od almeno in forma limitata, quanto gioco sul palcoscenico del subconscio di un giovane medico newyorchese martoriato dalla lotta con e contro i propri impulsi erotici, un
vanilla american nella definizione dello stesso Kubrick, sul modello di Harrison Ford da cui Harford, cognome del protagonista.
In tal senso vanno lette le interpretazioni dei protagonisti, quella "imbarazzata" di Tom Cruise (continua la sua difficoltà nel gestire mani e sguardi), individuo sbalzato nel
glamour sessuale del suo Io stereotipico/ancestrale e quella "teatrale" di Nicole Kidman, la sua Alice è estranea al mondo -non solo filmico- legata, pare, alla sola domesticità, al di fuori del lussuoso appartamento di New York gli atteggiamenti sono esagitati, eccessivi, barcollanti e specchio di infedeltà, non solo quella - reale? - coniugale quanto legati al senso di inadeguatezza, quello non è luogo che le pertenga: ricerca la certezza del senso, non l'ondivaga verità del
meneur du jeu Sidney Pollack.
Protagonista reale ed indiscusso di Eyes Wide Shut è però la frustrazione, sessuale e sociale cui è vittima il benestante medico esposto all'inveire delle proprie pulsioni (im)mediate, sgorgate nella notte umida ed avvolgente, per luci e colori, della metropoli: luogo in cui l'individuo fonde la propria isolatezza con la costrizione sociale, rendendo visibili gli spettri del desiderio e del tormento (despair and deception love's ugly twins), la figlia del paziente defunto, la prostituta, le ragazze alla festa che vogliono portare Harford "alla fine dell'arcobaleno", l'orgia meccanizzata, la società segreta. La densità del desiderio schiacciato dalla vita coniugale, dalle convenzioni è tale da farsi pericolo reale, angosciante il crollo delle impalcature, del reticolato preconcetto giudicante; smarrimento, timore della piccolezza (il fascino della teoria della sciarada), baluginare del pensiero che duplice sia il rapporto erotico, sentimento e rapporto fisico sono dunque da riallacciare, di qui la seconda visita alla prostituta, ora malata, il ritorno alla villa - con la Colpa che lì alligna - la ricerca della ragazza sacrificatasi (pia illusione che smaschera la freddezza di Bill) le parole di Alice che, saputa la momentanea verità, propone la soluzione, l'unica che sia data, l'unica possibile per sanare, ricomporre.
Niente è come sembra, parole, distorsioni e visioni di fittizia felicità e pura apparenza (gli alberi natalizi onnipresenti, la festa, la professione di medico a domicilio, gli anelli nuziali). L'incubo soffoca, costringe ma nulla lo divide dalla realtà, un girotondo stretto alla gola del povero malcapitato che non si accorge che il suo tormento si apre e chiude con lo scherzo di G. Ligeti: una nuova luce e ben più irridente dà sollievo.
Luigi Garella
Requiem op.13
Il "porno d'autore", il "thriller erotico" del terzo millennio. Questo il "doppio sogno" cui critica e pubblico si sono abbandonati per dodici anni, aspettando quest'opera molto liberamente tratta dal romanzo di Schnitzler, progettata da Kubrick fin dal '68 e fatalmente imperfetta (l'autore non ha potuto completare il lavoro sulla colonna sonora).
Perché si esce spiazzati dalla visione di questo film? Perché, sebbene siano presenti, nel film, tutti i tasselli promessi dal marketing, il puzzle che compongono risulta imprevedibile, sconcertante, perfettamente nuovo, assolutamente non riproducibile. Kubrick si serve degli aspetti psicanalitici della trama, ma soprattutto della sensualità animale dei suoi attori, per allestire un Trionfo della Morte e del Disinganno di gusto medievale, uno spettacolo di enorme potenza e vivacità che mette in scena l'impotenza dell'uomo di fronte all'ignoto, e la sue eterna dannazione terrena, che consiste nell'essere schiacciato da forze oscure, nel ritrovarsi senza memoria del passato, sperduto nel presente, incerto sul futuro, nel sapersi destinato ad una verità parziale, un'illusione onirica.
Essere e sognare sono due facce della stessa realtà, che non può cancellare la Verità eterna, quella del sogno da cui non esiste risveglio. La morte ed il suo pendant nel mondo dei vivi, l'immobilità, raggelano e dominano ogni scena. Lo spazio è popolato di uomini e donne immobili, maschere, manichini, cadaveri, che il regista manipola fondendoli con l'arredamento. La macchina da presa predilige movimenti circolari, suadenti e perfetti, che avvolgono nelle loro spire i personaggi e li soffocano senza pietà. Le luci sfavillanti e le vetrine colorate di New York nel periodo natalizio non ingannano nessuno: prevalgono le zone d'ombra, le luci bluastre, i toni cupi.
Molte sono le critiche che si potrebbero muovere al film: troppo lungo, spesso lento, avaro di emozioni, povero di suspense, scarno e tedioso come una basilica romanica. Ma le perplessità svaniscono quando si considera che la morte dell'uomo, morte non solo fisica ma soprattutto cerebrale e spirituale, non potrebbe trovare un luogo migliore per agire indisturbata. E' una visione pessimistica che non ammette replica, nemmeno quella fintamente ottimista del finale: i protagonisti, circondati dai simboli del sogno americano e della retorica familiare, decidono di abbandonarsi all'istinto e alla dissimulazione, senza più preoccuparsi di avere un cervello, un cuore, una coscienza, e nessuno ci assicura che questo garantirà loro la pace.
Fatalmente imperfetto, il numero 13 della filmografia di Kubrick è un monumento del cinema, duro e cristallino come un diamante, perfettamente coerente, nel pessimismo totale e nell'inesausta cura dei dettagli, con i capolavori di questo autore, da "Barry Lyndon" a "Full Metal Jacket". Una bizzarra coincidenza: nella scena in cui Cruise entra in un bar, si ode un frammento (l'incipit del "Rex tremendae") del "Requiem" di Mozart, altro capolavoro incompiuto a causa della morte dell'autore. Ma si tratta solo di una coincidenza?
Stefano Selleri
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