Recensioni
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Argentina fine anni '70: un paese
"normale"
Buenos-Aires 1976-82: la vita scorre regolarmente.
Normali e trafficati sono i larghi vialoni della città attraverso i quali
si muovono le automobili che conducono a casa o al lavoro cittadini di una
paese civile; normale e tranquillizzante la programmazione via radio che
intrattiene con canzoni ballabili e partite di calcio ascoltatori ignari;
bambini nuotano in piscina e vecchietti portano a spasso il cane davanti a
locali chiusi al cui interno si svolge in modo normale e professionale il lavoro che militari in borghese o paramilitari
dall'aspetto impeccabile compiono quotidianamente:
torturare scientificamente (ora si usa la corrente elettrica, i tempi si
sono evoluti, è arrivata la civiltà...) e dopo un tempo variabile "regolarizzare"
(l'alfabetizzazione della popolazione è ormai un dato di fatto e bisogna adoperare i termini appropriati) i
prigionieri politici, gettandoli vivi nell'enorme estuario del Rio de la
Plata. Questo è il punto cardine del film di Bechis: la
"normalità" di un orrore del tutto ignoto alla popolazione,
almeno di quella non coinvolta, di quella che accettava la dittatura
militare di Videla, anche perché qualsiasi tentativo di un parente di
cercare gli scomparsi o diffondere la notizia delle sparizioni portava
sistematicamente alla sua soppressione. Il regista, scampato
miracolosamente egli stesso alla morte, poteva raccontare quest'ordinaria
follia come un documentario, ma ha preferito dentro quel contesto inserire
una storia, una delle 30.000 possibili storie dei desaparecidos, la
maggior parte delle quali nessuno potrà mai conoscere: quella di Maria,
una ragazza che dietro la facciata di maestrina nelle bidonville, tramava
contro il regime all'interno di uno dei tanti gruppi di oppositori; e,
questa è la novità rispetto a precedenti film sul genere, quella di uno
dei suoi carcerieri, Felix, inquilino presso la famiglia di lei,
sconcertante nella sua ordinarietà e insospettabilmente feroce tanto che
ucciderà più di un prigioniero forzando i limiti dell'amperaggio che
può sopportare un essere umano. La macchina da presa segue impietosamente
lo svolgersi della tragica vicenda di Maria, dall'arresto alla
deportazione nell'ex garage che le farà da carcere, dalle torture a base
di scariche elettriche tali da provocarle un arresto cardiaco alla cattura
e morte del complice di cui è stata costretta a "fare il nome",
la prigionia a tempo indeterminato in una piccola cella sporca e buia, in
attesa del nulla e nella speranza che qualcuno possa spararle un colpo in
fronte per porre fine a quell'incubo. Ma
col passare del tempo Maria instaura un rapporto sempre più stretto con
il carceriere suo conoscente Felix il quale, peraltro inconsapevole
dell'orrore cui è complice e tutt'altro che colto da crisi di coscienza,
cerca in tutti i modi di alleviarne la sofferenza, anche a rischio della
vita oltre che del lavoro. Ne scaturisce una delle più affascinanti
storie d'"amore?" viste negli ultimi anni che fuorvia
intenzionalmente lo spettatore dando l'impressione si tratti del solito
prevedibile "complesso di Stoccolma" in cui la rapita si
innamora del suo carceriere, ma che poi si evolve nella direzione opposta
senza tuttavia scadere in banalità o prendere il sopravvento sul tema
principale del film. Incastrate perfettamente nel meccanismo
narrativo appaiono le due storie parallele: la disperata
ricerca della figlia da parte della madre che si concluderà in
un'esecuzione di una crudezza indimenticabile; e le due scene
temporalmente sequenziali ma che vengono abilmente proposte come
prologo e pre-epilogo del film, di grandissimo impatto emotivo, nelle quali il segnale di un cambiamento
viene rappresentato dal ruolo di Ana (interpretato intensamente da Chiara
Caselli) che mettendo una bomba sotto il letto di un alto ufficiale padre
di un'amica, simbolicamente mina "alla base" le fondamenta della
dittatura. "Garage Olimpo" finisce come comincia, con delle
suggestive sfocate riprese in teleobiettivo delle increspature del Mar
della Plata che ora può finalmente condividere il suo terribile segreto
con il mondo.
Bechis, con questo film, prende una sua strada autonoma all'interno del
cinema di denuncia sudamericano; non quella realistico-romanzesca di Luis
Puenzo ("La Storia ufficiale") nè quella lirico-surreale del
Solanas di "Tango" e "Sur", né quella
spettacolare-sociale di "Missing" di Costa Gavras. Sceglie la
via del contrasto tra una sceneggiatura che predilige il tono
crudo-realistico se non addirittura documentaristico (specialmente nei
dialoghi compassati, ordinari, "normali" nel garage e negli
effetti sonori in presa diretta) e la resa visiva costituita da immagini
tutt'altro che realistiche, a dir poco visionarie soprattutto negli
ambienti kammerspiel del garage, tali da infondere orrore ma
prive comunque di quegli eccessi che avrebbero snaturato l'intento
naturalistico dell'autore: quello di sbatterci in faccia il dramma dei
desaparecidos senza appellarsi né alla violenza dell'azione (noi
spettatori non assistiamo mai alla tortura, vediamo il prima o il dopo...e
l'unico momento di violenza mostrata è l'esecuzione della madre di Maria,
smorzata però dalla panoramica) né a un ricatto morale nei confronti del
pubblico portato attraverso sentimentalismi o facili retoriche.
Aggiungendo a ciò una grandissima interpretazione tutta sottotono di
Antonella Costa e quella piatta (proprio ad evidenziare la "ordinarietà"
dei "mostri") di Carlos Echevarria, possiamo ben annoverare
"Garage Olimpo" tra i più incisivi e rigorosi film di denuncia,
di una forza ed una personalità che
difficilmente si riscontrano in lavori di questo genere, dove solitamente
al lodevole intento, non corrisponde un altrettanto valido risultato.
Daniele
Bellucci
La storia di Maria è quella di tanti (migliaia di) altri che si opponevano al regime (troppe volte si è assistito e si continua ad assistere a tragedie collettive del genere) e che si piegavano, poi, al volere dei propri
carcerieri nella speranza di restare vivi ed essere un giorno liberati. Il tema di questo film è, dunque, già visto, già messo in scena in molti modi e il rischio più grosso era quello di
cadere nella piattezza di uno stile documentaristico asettico. Non è successo: Marco Bechis non ha solo voluto creare un manifesto di
denuncia, né ha voluto essere un semplice reporter. E' andato a cercare una storia, una vita spezzata e l'ha seguita dentro le mura
grigie di quel garage-prigione, ha mostrato il disagio, la perdita di sé, l'angoscia, la speranza
comunque rimasta che porta a tentare il tutto per tutto. E ha fatto tutto questo con partecipazione (primissimi piani di lei sfigurata dal dolore) e distacco (vedute aeree della città, riprese della normalità della vita fuori) allo stesso tempo. Bravi gli attori, adeguatamente opprimente il luogo di reclusione, ben curata la scelta delle luci, decisamente interessante la camera a spalla per le riprese della violenza e la normalità del cinema patinato per le scene di vita quotidiana. Cameo di Chiara Caselli nei panni di una sovversiva con il cuore tenero che riesce a portare a termine la sua missione e a salvare l'amica-nemica.
Giada Bernabei |