Recensioni
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L'Ultimo Samurai
Un'apologia
del "samurai" che comincia come un film di Spike Lee e finisce
come una sfida western alla Peckinpah sulle strade di New York: questo è,
in una frase, l'ultimo lavoro di Jim Jarmusch. Sono passati infatti i tempi
della new-wave che aveva consacrato Jarmusch come il talento più limpido
di un cinema minimalista, scarno, surreale e autoironico del panorama
statunitense. E' arrivato il
successo e i soldi delle grandi major americane, i notevoli mezzi messi a
disposizione, grandi attori, insomma lo stile da indipendente
caratteristico marchio di fabbrica del regista newyorkese si è
affievolito col
tempo fino a scomparire del tutto; eppure.... eppure questo
Ghost Dog, più del precedente "Dead Man", è "ancora"
indiscutibilmente un film di Jarmusch oltre che uno dei più
bei ritratti del cinema di questi anni. L'uomo soprannominato "Ghost
Dog", impersonato da
un immenso Forest Whitaker è un personaggio che conserva alcuni dei
tratti tipicamente jarmuschiani: è un uomo solitario, schivo, di poche
parole, auto-emarginatosi da un mondo che vede ostile. Tuttavia ciò
che differenzia questo personaggio dai suoi precedenti è che questi
erano in fuga
"dalle regole", in un certo senso anarchici ("Stranger than
Paradise" e "Daunbailò"), oppure in fuga dalla loro assenza
("Dead Man") mentre Ghost Dog fa
delle regole (di una regola) il motivo fondamentale della sua vita.
Difficilmente si possono trovare dei precetti più rigidi di quelli
elencati nel "Libro del Samurai" che il protagonista segue alla
lettera ma sembra che l'osservanza stretta delle sue norme sia tanto più
necessaria quanto più senza regole appare l'umanità degradata e
smidollata che popola la città. La descrizione della malavita
pseudo-mafiosa che Jarmusch ci propone è la stessa che Eastwood fa del
mondo western negli "Spietati" : i personaggi sono miserabili,
antieroici, mediocri, spesso ridicoli, ma il regista evita di farne una
macchietta (come capita ormai sistematicamente a tutti i film con
mafiosi), e contemporaneamente si astiene da un'acida e corrosiva satira
su di essi, presente in misura maggiore, se vogliamo, nel nerissimo e
molto più grottesco "Dead Man": la simpatia che in fondo nutre Jarmusch
nei confronti di una pur squallida umanità (che sembrava scomparsa nell'ultimo lavoro) gli impedisce di non
vedere in questi malavitosi degli esseri da commiserare più che da
deplorare, prendendoli in giro ma senza cattiveria, mostrandoli spesso nelle loro stramberie (che
hanno ben poco di mafioso in certi casi come la passione del vice-boss per
la musica rap o una generalizzata ebete attrazione per i cartoni animati) con un tono leggero-surreale perfettamente in linea con la
sua prima produzione. Tono che raggiunge vertici di godimento nei dialoghi
(si fa per dire...) tra Ghost Dog ed il suo unico amico, un nero
hawaitiano che parla esclusivamente francese, elemento narrativo
indiscutibilmente personale e che non può non far pensare all'analogo tra
Benigni e il duo Waits-Lurie in "Daunbailò", quasi a ribadire
che la lingua comune non è indispensabile per instaurare una
"comunicazione", che può nascere invece dalla curiosità per un
uomo "esotico", visto quasi come un extraterrestre.
Ma non è questa fine leggerezza a fare di un discreto film un grande
film. L'intera pellicola è intrisa da potenti, suggestivi simboli TUTTI
finalizzati a rappresentare il rapporto padrone-servitore. Dai lanci dei
piccioni viaggiatori (servitori di Ghost Dog) utilizzati dal protagonista
per comunicare con il suo padrone, servitore a sua volta del capomafia; al
cane nel parco, (di potenza epica tipicamente orientale la sua ripresa frontale),
l'animale fedele per definizione che sembra voglia farsi
"assumere" dal samurai; dall'allusivo "Frankenstein"
di Mary Shelley, che il nero samurai vede nelle mani di una ragazzina incontrata per caso nel parco
convincendolo che essa è la persona da "iniziare" e alla quale
passare le consegne (passaggio che si concretizzerà al termine della
storia);
alla pallida figlia del boss (un'eroticissima Tricia Vessey) che
silenziosamente, anche lei assolvendo un compito, rimane fedele al suo
uomo fino alla morte (dell'uomo), in un grottesco e farsesco susseguirsi
di amanti diversi. Certamente alcuni simboli sono eccessivi o non
appropriati: è fuori luogo la presenza continua del libro Rashomon che
passa da una mano all'altra la cui storia non ha nulla a che vedere con lo
spirito del samurai (l'unico collegamento è quello con Kurosawa che ci ha
tratto un film, ma il regista giapponese, se è per questo, ha realizzato
anche "La Sfida del Samurai" in cui il servitore cambia
goldonianamente padrone a seconda dei vantaggi...). Anche il duello finale
dall'esito inevitabile (praticamente un suicidio) con il padrone Loui sembra stonare, avrebbe senso se questi fosse
"realmente" e non solo "formalmente" un samurai, cioè se servisse il boss
con la stessa abnegazione e arditezza che Ghost Dog dimostra nei suoi confronti,
ma il momento in cui il malavitoso ha avuto coraggio (quando salvò la vita
al giovane Ghost Dog) è passato per sempre e la frase finale
("meglio tu che me") ha molto poco di cavalleresco; lo stesso
parallelo fra il protagonista e l'orso è sovrabbondante oltre che utilizzato
già abbastanza in "Dead Man".
Attorno al tema centrale si aggiungono innumerevoli altri argomenti ad
esso correlati, come il rito e la morte. La morte aleggia continuamente su
Ghost Dog come sui samurai del passato, è una sorta di approdo, quasi un
premio, poiché è la logica conclusione del buon operato; aver paura
della morte è un errore perché può condizionare l'efficienza del
servitore nei confronti del padrone e se questi muore, il disonore per non
averlo salvato sarà incancellabile ed il rimorso implacabile. La
ritualità del protagonista è quasi maniacale e non si limita ai precetti
del libro ma si estende nella ripetitività degli atti quotidiani; d'altra
parte non avrebbe alcun senso modificare lo stile di vita. Non è un caso
infatti che la storia di Ghost Dog ripercorra alla lettera i passi del
libro (letti a capitoli da una voce off), perché il vero samurai
"non ha scelta", ha un destino segnato.
Lo stile di Jarmusch, si è detto, è cambiato, quanto prima
lavorava per sottrazione tanto ora predilige l'iperbole (dato anche il
soggetto) e il visionario, e i suoi fidati collaboratori Muller e
Rabinowitz lo assecondano in maniera mirabile. Particolarmente affascinanti sono alcune
sequenze: l'hip-hop che accompagna le sue missioni in una tetra New York
notturna sembra avere la stessa funzione che avevano le grida di battaglia
dei guerrieri orientali; l'esercitazione con una pistola usata come una
sciabola, resa ancora più fascinosamente epica dall'utilizzo di pellicola
trasparente, il suo rapporto con i piccioni viaggiatori in una lurida
terrazza, rapporto a due livelli, di cura in quanto il padrone deve
mantenere il servitore e di lavoro (i piccioni lavorano e muoiono per
Ghost Dog); in vero stile western-ganster le scene "action",
leggermente rallentate, in particolare lo sterminio della
"famiglia" e il duello
finale.
Citazionista come tutti i registi new-yorkesi che guardano all'Europa e
anche oltre,
Jarmusch infarcisce di riferimenti cinematografici recenti e meno recenti
la sua trama narrativa. Al di là dei più scontati, può essere
interessante nominarne alcuni di quelli più singolari: il rapporto tra il
solitario protagonista e i suoi piccioni è un bell' omaggio a
"Fronte del Porto"; mentre lo scontro tra un uomo forte e una
malavita degradata e smidollata è trattato in modo molto simile nel
contesto completamente diverso della S.Pietroburgo di "Brother"
di Balabanov; le tematiche inerenti al samurai sono state invece trattate
di recente nel sottovalutatissimo "Ronin" di Frankenheimer che
ne ha illustrato alcuni aspetti affascinanti e non molto dissimili da
quelli di Ghost Dog, come la presenza opprimente della morte attorno ai
"ronin", punto di
arrivo pressoché inevitabile per un samurai senza padrone, e per questo
facilmente esorcizzabile, consentendo vieppiù ai killer azioni non
condizionabili da qualsiasi tipo di emozione e di conseguenza pressoché
infallibili.
In conclusione un film potentissimo, originale, pieno di spunti di
riflessione, con un ritmo fenomenale nelle sequenze
"action", e senza cadute di tensione quando il tono si fa
più da commedia, leggero, surreale, ironico, in una frase: "alla
Jarmusch".
Daniele Bellucci
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