THE INSIDER - DIETRO LA NOTIZIA
(The Insader)

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REGIA:    
Michael MANN

PRODUZIONE: U.S.A.   -   1999   -   Dramm.

DURATA:  160'

INTERPRETI:
Russell Crowe, Al Pacino,
Christopher Plummer, Diane Venora, Rip Torn, 
Stephen Tobolowsky, Gina Gershon, Debi Mazar,
Colm Feore, Lindsay Crouse

SCENEGGIATURA:
Michael Mann - Eric Roth

FOTOGRAFIA:
Dante Spinotti

MONTAGGIO:
W. Goldenberg, D. Rosenbloom, P. Rubell

SCENOGRAFIA: Brian Morris

COSTUMI: Anna B. Sheppard

MUSICHE: Lisa Gerrard, Peter Bourke

Trama

E' la storia, realmente accaduta, dell'insigne scienziato Jeffrey Wigand (Russell Crowe) che, nonostante le minacce, l'abbandono della moglie e il discredito gettatogli addosso, decide comunque di rivelare nello show "60 minuti" coordinato dal giornalista Lowell Bergman (Al Pacino), gli effetti di assuefazione provocati dalla multinazionale di sigarette per la quale lavorava. Le pressioni ricattatorie della multinazionale sulla CBS, sembrano mandare a monte lo scoop ma la determinazione di Bergman, che arriva anche a comportamenti deontologicamente scorretti, dà i suoi frutti...

Recensioni

 

 

 

Due "Don Chischotte" contro i mulini a vento

Insider è un gran bel film. Sembra strano cominciare dalla fine, ma bisogna dirlo. Le prime impressioni, di un film che appare prolisso in ogni suo elemento, si dissolvono appena si entra nell'ottica di quest'opera. A differenza d'altri simili film, che imperversano ciclicamente le produzioni di Hollywood, quest'Insider è diverso: il regista si rende conto, e ci fa partecipi, che anche le grande imprese nascono da uomini comuni, con tutto ciò che esso comporta. Gli uomini che decidono di combattere contro il sistema, contro il potere delle multinazionali, sono appunto persone, fatte di carne, ossa e sentimenti, che non diventano eroi senza macchia per il solo fatto di cominciare una battaglia; tutto quello che si ottiene in positivo dai propri conflitti è lento, ed il cammino è sempre minato dalle proprie incertezze. L'America in cui tutti hanno la libertà di esprimere i propri pensieri, si dissolve in una frase comune di un comune giornalista, Al Pacino, " la libertà di stampa è per chi possiede la stampa", non per gli uomini comuni. Il peso delle proprie azioni, e le conseguenze di queste, sono il tema portante del film; chi riesce a vivere sopportando, chi si vende al più forte, chi lotta contro i mulini a vento; ma queste persone, che scelgono l'ultima strada, la più avversa, alla fine, come il testimone del nostro film, sono le uniche che possono guardare i loro figli negli occhi, consapevoli di aver fatto qualcosa, di aver scagliato un sasso in quest'oceano terso che è la nostra società, di aver contribuito se pur in minima parte a combattere il sistema vigente. Quest'opera si dissolve lentamente, sboccia come una rosa e alla fine si manifesta in tutta la sua bellezza; con le sue lunghe sequenze accompagnate dalla sola musica, con i suoi dialoghi sempre tra il detto e il non detto, brevi, come il tempo che gli uomini passano nella loro intimità. Queste persone, che sanno ciò che si può sapere, vivono in un mondo che è un misto di verità e fiction, e in cui tutto è pubblico, tranne la verità. Per vivere bisogna uscire allo scoperto, sottoponendosi alla pubblica opinione, ormai ridotta ad un'opinione di massa che non riflette, ma sceglie il modello in cui credere, perché non possiede più il tempo per pensare, ed è ben felice che qualcuno lo faccia per lei. Vale la pena lottare per questa? "Insider" ci dice di si; ed è un gran bel film.

Matteo Catoni


Docu-drama? Molto di più...

Un po' dramma, un po' inchiesta, un po' thriller, è difficile inquadrare esattamente in un genere "The Insider", ma ciò che è indiscutibile è l'immensa mente che l'ha generato, quella dell'ancora misteriosamente sottovalutato Michael Mann. Dovrebbe essere chiaro ormai che non siamo di fronte ad un buon mestierante ma ad un autore ed anche tra i più complessi dell'odierno panorama statunitense. E non si riesce a capire perché molto pubblico e molta critica tenda a minimizzarne le opere: "Manhunter" è nato prima de "Il Silenzio degli Innocenti" eppure è stato esaltato il perfetto meccanismo thriller del secondo e minimizzata la rappresentazione dolorosa e disturbante del primo, "The Heat" è stato un gran successo ma passerà alla storia per essere stato "il film con Pacino e De Niro insieme" e non un memorabile ritratto di due personaggi (non attori...). Probabilmente si dirà di "The Insider" che è un buon docu-drama d'inchiesta sulla scia di "Tutti gli Uomini del Presidente", molto accurato, quasi scientifico nella perfezione dei dettagli della sceneggiatura. Tutto vero. Però si dimentica ciò che fa la differenza tra un bravo regista e un grande autore: la sistematica presenza di temi che ne "caratterizzano" le opere, una "scrittura" inconfondibile e personale, il modellare storie disparate e deformarle per renderle portatrici del proprio pensiero, della propria visione del mondo (Kubrick docet). Per questo Michael Mann è un "autore" e "The Insider" un film completamente "manniano" dal punto di vista formale e tematico. Tutti gli elementi caratteristici del suo cinema sono presenti in quest'opera e ricorrono continui attorno a quello centrale: il perseguimento ossessivo e quasi epico della propria "missione", compito spesso proibitivo, che comporta sacrifici quasi insopportabili e il sorgere di dubbi pesanti come macigni. Pochi attualmente riescono a offrirci storie di "scelte" così dolorose, così laceranti e così "determinanti" (non solo per i protagonisti); pochi ci sanno mostrare con questo rigore e partecipazione il contrasto pressoché insanabile tra quello che siamo e quello che il mondo ci richiede, tra il "ruolo" che qualcuno ci ha assegnato (il caso? il destino? forse noi stessi?) e una volontà quasi disumana che riesca a modificarlo (e magari a cambiare addirittura il mondo). Tutti i personaggi delle storie di Mann che non accettano il "ruolo istituzionale" assegnatogli, vengono lentamente e naturalmente isolati (in "The Heat" questo isolamento è già avvenuto prima dell'inizio del film), perdono tutto tranne la loro "idea" o "ideale", la solitudine li avvolge e li lascia con il loro enorme fardello, moderni Sisifo che "scelgono" il masso da trascinare, perché comunque un masso va trascinato. Si può dire che la scelta sia "morale" ed il macigno lasciato a terra quello della coscienza, preferendo trascinare il peso del giudizio di un intero paese? Forse. Ma non sembra essere intenzione del regista fare un film semplicemente "morale", tanto che basta rinfrescarsi la memoria e confrontarlo con la determinazione di De Niro nel lavoro precedente, dettata non certo da questioni etiche; si potrebbe parlare quasi di "spinta metafisica" che va al di là di qualunque logica e di qualunque morale (non altrimenti si spiegherebbe l'irrazionale decisione di Wigand di accettare l'intervista, quasi istintivamente, subito dopo aver sentenziato "ma cosa è cambiato da sempre nel mondo"?). Insomma una poetica del dualismo scelta-predestinazione veramente complessa e spesso non risolta. Tematica legata a quella centrale e ad essa consequenziale è la sfera sentimentale dei protagonisti. Già in "The Heat" abbiamo visto le differenzi reazioni delle compagne dei personaggi di Pacino e De Niro alle loro intransigenti "missioni", qui ne abbiamo un altro esempio. Anche se la situazione familiare di casa Wigand appare a volte un po' stererotipata e troppo insistiti i primi piani sul volto stravolto di Diane Venora (che curiosamente ripete una parte quasi uguale nel già citato "Heat") appare in tutta la sua efficacia la differenza di comportamento delle due donne: la "compagna" di Bergman-Pacino conserva una sua autonomia ("figli diversi, cognomi diversi") che le dà la forza e il distacco per appoggiare la battaglia del marito, mentre la moglie di Wigand-Crowe è solo moglie, borghesemente moglie, abituata al benessere e ad una vita banale e senza problemi, per questo non reggerà alla tensione provocata dalla decisione del marito e lo lascerà. 
Contrastata appare anche la resa formale del film: il ritmo travolgente dei momenti clou dell'inchiesta e delle scene congenitamente forsennate del mondo televisivo si alternano a sequenze lentissime, spesso al rallenty, che scavano nei volti dei personaggi, ne mettono a nudo i pensieri, le paure, i laceranti dilemmi. Più tradizionale la regia quando segue gli sviluppi della storia, al servizio di una sceneggiatura talmente minuziosa in ogni dettaglio ed esaustiva nello sviscerare ogni risvolto relativo all'"etica" della televisione, da rasentare eccessi di retorica e raffreddare le emozioni suscitate dalle problematiche "individuali" dei protagonisti; diventa invece talentuosa e ammaliante in ogni sequenza (grazie a Spinotti) che mette in primo piano le psicologie e poi i drammi dei due protagonisti, dal montaggio alternato iniziale, che ci mostra subito due personalità opposte che il "destino" mette una di fronte all'altra (specialmente nella serrata comunicazione via fax che suscita inquietudine oltre che suspence); all'abbandono della famiglia di Wigand sottolineato crudemente da una velocissima sequenza di letti non disfatti; dalla spiaggia davanti casa Bergman, così affascinante, romantica, tranquillizzante, pronta a dare sollievo a chiunque accetti le regole del proprio mestiere, il cui fondo sabbioso Bergman (mandato in "vacanza" dalla CBS) percorre nervosamente avanti e dietro col cellulare in mano rifiutando quel facile approdo; alla crisi nervosa di Wigand che vede deformarsi le pareti della sua stanza di albergo fino a trasformarsi (in una sequenza surreale di rara intensità) in un quadretto di vita familiare idilliaca perduta forse per sempre; il finale, solo apparentemente retorico e banale, quando l'intervista va finalmente in onda sotto gli occhi di tutti i protagonisti, quasi tutti (la moglie di Wigand non viene mostrata, probabilmente non tornerà) mentre lo scienziato, senza un minimo segno di compiacimento, stanco e prostrato, segue la trasmissione con gli occhi persi nel vuoto ma con le figlie accanto.
Questo è l'ultimo Michael Mann, coadiuvato da una "crew" di valore assoluto e da un cast straordinario che vede primeggiare non solo Al Pacino in una parte cucita su misura per la sua recitazione calda e appassionata ma soprattutto un insospettabilmente intenso Russell Crowe, con un'interpretazione tutta interiore e sofferta in contrapposizione (non a caso) a quella del co-protagonista. Ottime le parti di contorno con un'annotazione speciale per la "dura" Gina Gershon. Soundtrack notevole, perfettamente in accordo con le sequenze dilatate e struggenti della pellicola, dove sonorità di matrice ambient su basi ritmiche trip-hop, sono accompagnate dalla meravigliosa voce dolente dell'"ex Dead Can Dance" Lisa Gerrard.

Daniele Bellucci


Provaci ancora Mann

Riecco Mann e il suo cinema sospeso tra Genere e Autore. Tutti i suoi film, siano essi thriller ("manhunter"), avventurosi ("l'ultimo dei mohicani") o polizieschi ("heat") danno l'impressione di sfuggire alle facili catalogazioni, di evadere dai confini del genere per addentrarsi nei territori del cinema d'Autore. "Insider" non fa eccezione. Bastano pochi minuti di proiezione per accorgersi che ciò che abbiamo davanti è un progetto ben più ambizioso di un qualunque film di "impegno civile" americano: attenzione al dettaglio, tempi dilatati, digressioni sul quotidiano, una cinepresa che non si limita a "guardare" i personaggi ma sta loro addosso e li scruta impietosa e indagatrice in cerca degli invisibili moti dell'anima. Sembra infatti l'Uomo, più che la vicenda, a suscitare l'interesse di Mann, l'Uomo coi suoi drammi personali e le sue debolezze fatte di gesti, sguardi, silenzi. Tutto bene, dunque? Purtroppo no. Se col quasi-capolavoro "heat" il miracolo era riuscito, ossia elevare un convenzionale spunto poliziesco allo status di riflessione non banale sull'opposizione Bene-Male intesi in senso metafisico, lo stesso non si può dire di "insider" che sembra non riuscire mai a scartare di livello, a spiccare il volo come dovrebbe. Le psicologie dei personaggi non sono così approfondite come vorrebbero apparire, il discorso sulla fragilità della famiglia è trattato superficialmente e sa di già visto, così come quello sull'eroismo "casuale" del borghese piccolo piccolo e al pari della critica alle multinazionali senza scrupoli e al sistema massmediatico asservito al Capitale; è comunque il primo aspetto, quello della caratterizzazione dei personaggi, a deludere di più: Pacino (meno gigione del solito, e non è detto che sia un bene...) è, in fondo, il solito idealista senza macchia e senza paura che "non ci sta" e si ribella al marciume del sistema, Crowe l'uomo qualunque che, gettato in situazioni più grandi di lui, reagisce con tutti gli (in)attesi eroismi e tutte le integrità morali del caso. Certo, ci mettono una toppa la regia personale e "autoriale", una fotografia davvero molto bella e una recitazione tutto sommato sopra la media ma nel complesso, l'impressione di un generale "vorrei ma non posso" è impossibile da cancellare. Peccato. 

Gianluca Pelleschi

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