Recensioni
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Ambizioso e imperfetto Frank Darabont alza il tiro: dopo averci sorpreso e
spiazzato con "Le Ali della Libertà", suo lungometraggio
d'esordio, che illudeva lo spettatore di trovarsi di fronte il solito film
di denuncia sulle
carceri americane, per poi trasformarsi in uno sfavillante
action-thriller, il regista si presenta al suo secondo film ancora con una
storia di ambiente carcerario e ancora tratta da Stephen King, ma
che punta molto più in alto, forse troppo. Non tutti possono permettersi
di passare dal registro (melo)drammatico a quello grottesco e di
sviluppare un impianto narrativo che si trasforma da iperrealista a surreale,
con un'efficacia pari alla difficoltà dell'impresa. Eppure Frank Darabont
mostra un talento registico veramente notevole, paradossalmente ancora
più palpabile che nel su citato film d'esordio. Lentissimi carrelli nel
"miglio verde" che ne scandagliano ogni angolo; primi piani sui
volti dei detenuti a metà tra la vita e la morte, tra la coscienza e la
follia; l'entrata nel braccio della morte di un uomo
"decapitato" suggestivamente dall'inquadratura per metterne in
risalto l'enormità e, proletticamente, un'altra "dimensione",
l'avvincente flashback nel flashback in un crescendo di suspense della
cattura di Coffey che ha la faccia dell'"Urlo" di Munch mentre
tiene tra le grosse braccia, come bambole di pezza, due piccoli corpi
straziati; la prima scena di surrealismo "totale" che scompagina
l'andamento tradizionale della narrazione: la guarigione
"soprannaturale" dell'infezione urinaria di Hanks-Edgecomb, una
sequenza che non può non far venire in mente il cinema di Michael
Powell. Ciò che maggiormente impressiona è la perfetta messa in scena
dell'ambiente carcerario, carrelli all'indietro o in avanti che
"annunciano" l'entrata ortogonale dei carcerieri, il tutto in
uno spazio vuoto delimitato da griglie, quasi come un quadro di Mondrian.
Le perplessità sono di tutt'altro carattere: il surrealismo
scaturito dalle capacità taumaturgiche di Coffey è più vicino al
fantasy che alla metafisica e mal si adatta al registro drammatico che
accompagna gli elementi fondamentali della storia, la vita, la morte, la
giustizia. Precedenti illustri, da Powell, a Weir, allo stesso Von Trier
stanno a dimostrare come e quando è efficace l'abbinamento
dramma-soprannaturale. A parte questo, grosse sono le carenze a livello di
sceneggiatura e di caratterizzazione dei personaggi. E' ad esempio
inspiegabile il comportamento della moglie del responsabile del
penitenziario dopo che è stata appena guarita dall'uomo nero dal suo tumore
al cervello: nell'immediato è confusa e non sa neanche di avere il male
dentro di sé; dopo pochi secondi dona, ampollosamente riconoscente, una collanina al
guaritore (come l'ha capito?) Oppure il suggestivo ma un
po' pretestuoso ultimo desiderio di Coffey di vedere per la prima volta un
film ("Cappello a Cilindro" di Sandrich) prima dell'esecuzione, mezzo un po' deboluccio di raccordare il
presente nell'ospizio con il passato che ritorna prepotentemente,
nonostante la sequenza mostrata sia la paradisiaca danza tra Fred Astaire
e Ginger Rogers, quasi un desiderio irrealizzabile piuttosto che un
ricordo vissuto. Ma ciò che è piuttosto disturbante è il manicheismo sistematico che
permea tutta la pellicola: non è credibile, se non nelle parentesi
grottesche, la cattiveria smisurata dell'arrivista Percy; irrealistica
l'umanità compassionevole del resto dei secondini (che solo nella "leggerezza" di Tom Hanks appare plausibile), non giustificata a
sufficienza dal tentativo di smorzare la tensione tra i disperati in
attesa dell'esecuzione; le parole di odio pronunciate dai familiari delle
vittime sono caricate fino al ridicolo; stucchevoli e di imbarazzante
ingenuità le frasi di Coffey su quanto sono buoni i buoni e quanto sono
malvagi i malvagi che, ripetiamo, sarebbero accettabili in un contesto
favolistico ma non in uno scenario di così alto tono drammatico.
Le tematiche affrontate sono molteplici e spesso intrecciate, come
l'impossibilità dell'uomo di accettare la morte ma nello stesso tempo la
sua scelta di farsene portatore; l'insostenibilità della visione della
sofferenza che accompagna la morte più che della morte stessa; la falsa
rappresentazione della realtà da parte dell'uomo e di riflesso della
giustizia, in quanto basata sull'assunto errato
dell'"infallibilità" della logica e della ragione. Ma
soprattutto (e questo è l'aspetto più ambiguo di tutta la storia) viene a galla una domanda inquietante dopo che Coffey si
rivela non solo un "guaritore" ma un angelo vendicatore: è
giusto che una giustizia "perfetta" soprannaturale si
sostituisca a quella imperfetta terrena applicando sulla Terra stessa,
la legge del "dente per dente" che la seconda applica
"male"? Forse Darabont (King?) ci vuole dire che la pena di
morte è sbagliata solo perché punisce spesso le "vittime"
della società, o i colpevoli pentiti o addirittura gli incolpevoli, e non perché risponde
all'assassinio con l'assassinio? Accantonando interdetti una possibile
deludente risposta e pieni di rimpianto per l'occasione sprecata di fare
un gran film, ammiriamo convinti l'epilogo della storia dopo il lunghissimo
flashback quando il vecchio Edgecombe rivelerà la punizione inflitta per
essere stato costretto a portare comunque sulla sedia elettrica
l'incolpevole "giustiziere": come per una legge del contrappasso
sarà costretto a vivere molto a lungo, non in eterno, ma quanto basta per
desiderare infine la morte tanto quanto Coffey, in rappresentanza di tutti i condannati a
morte, ha desiderato fino all'ultimo di restare nel miglio verde della
vita, miglio verde per alcuni interminabile, per altri lo spazio di un
passo, ma che per tutti ha ineluttabilmente un termine. Daniele
Bellucci |