Recensioni
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Niente di nuovo sul fronte del lavoro
Non bastano le buone intenzioni, il bianco e nero e una fotografia sgranata per fare un buon "free movie". Nonostante la calorosa accoglienza di gran parte della critica specialmente quella veneziana che lo ha premiato nell'ultima edizione del festival, questo Mondo Grua non possiede né il lirismo e i dialoghi brillante del maestro Loach, né la straordinaria tensione e forza drammatica dei Dardenne, e neanche l'originale punto di vista sul problema del lavoro messo in mostra da "Risorse Umane" di Cantet. Il film di Pablo Trapero scorre placidamente e senza scosse dall'inizio alla fine, intriso di tutti gli elementi narrativi e tematici caratteristici del "free cinema", un matrimonio fallito, un figlio che pensa solo a divertirsi, il datore di lavoro senza umanità, il cameratismo tra amici e tra colleghi, l'ostinata ricerca di un posto, l'amore che si riaffaccia quando si è persa ormai ogni speranza.
Indubbiamente il protagonista, con la sua sgradevolezza fisica, il suo incedere goffo, la rozza gestualità, assume una connotazione diversa rispetto ai precedenti europei così come quella sua serenità di carattere priva dell'angoscia occidentale è peculiare della natura sudamericana; ma la sceneggiatura ed in particolare i dialoghi, per la scelta troppo radicalmente realistica del regista, ne limitano la compiutezza e di fatto impediscono che possa assurgere a nuova icona del genere. E' evidente come al regista non interessi in alcun modo "romanzare" la vicenda ma le parole che escono dalla bocca dei personaggi sono troppo ripetitive nella loro "ordinarietà" e le "frasi fatte" sempre puntuali mentre ellissi e silenzi avrebbero avuto ben altra efficacia, cosicché "Mondo Grua" non riesce a trovare una propria dimensione né sul registro drammatico né su quello da commedia. Le finalità naturalistiche del progetto sono ancor più evidenti dal punto di vista figurativo laddove Trapero coerentemente si rifiuta di "abbellire" la sua storia, anzi addirittura "sporca" non solo gli ambienti di lavoro già di per sé degradati e malsani ma anche la bella baia di Buenos Aires. Eppure lo stile documentaristico della pellicola diventa alla lunga difficilmente digeribile in mancanza di quelle emozioni che solo una regìa straordinaria potrebbe suscitare da un soggetto del genere e con simili stilemi, regìa che sembra essere ancora acerba nell'autore argentino che solo in alcuni suggestivi controluce sembra in grado di smuoverci dal torpore della storia. Scelta estrema anche nel sonoro, la cui "presa diretta" viene fedelmente e lodevolmente riprodotta dal doppiaggio italiano, ma che sommergendo i colloqui negli assordanti rumori della gru, ne rende ardua la comprensione, forse pleonastica per il
regista così intento a rappresentare fedelmente l'"atmosfera" dei cantieri, ma fisiologicamente necessaria per chi segue il film.
Insomma, tanta buona volontà non basta per lasciare il segno in un genere difficile, ingrato, che "non può" avvalersi dell'"estetica del piacevole" connaturata al cinema nella sua componente spettacolare, ma che deve fare esclusivo affidamento nel talento e nella forte personalità "autoriale" di chi vi si cimenta.
Daniele Bellucci
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