Recensioni
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Il
fascino ambiguo del nuovo Yimou Abbandonate le tentazioni avanguardistiche,
sfociate nel deludente "Keep Cool", Zhang Yimou ritorna a temi e
stili più consoni alla sua personalità di regista con un "on the
road" a sfondo sociale che gli è valso il Leone d'oro a Venezia,
l'impeccabile, affascinante e smaccatamente mistificatorio "Non uno
di meno".
Già in "La Storia di Qiu Ju" il regista cinese aveva utilizzato
il tema della ricerca per evidenziare, aspetto che ricorre sistematico in
tutta la sua opera, le difficoltà del mondo contadino, della popolazione
delle campagne, a trovare spazio, giustizia, benessere, giusto
riconoscimento del proprio lavoro da parte della società gretta e
burocrate del regime comunista. Questa volta, però, la protagonista del
film non è una semplice rappresentante del popolo di fronte
all'immutabile, insuperabile, "kafkiana" burocrazia alla base
della società statalista cinese, perché assume il compito di
"mediatrice" tra i due mondi nel momento in cui diventa
"maestra", un incarico di indiscutibile rilievo avendo la
grande funzione potenziale di istruire un'infanzia povera equipaggiandola
per un altrimenti improbabile impiego nella grande città (tra l'altro le
scuole si spopolano proprio a dimostrare la sfiducia delle vecchie
generazioni verso un mezzo che secondo loro non può cambiare il corso del
destino di un qualsivoglia rappresentante della loro classe sociale),
funzione solo potenziale dal momento che anche la scuola si limita
burocraticamente ad impartire lezioni di copiatura che non possono in
alcun modo coinvolgere l'alunno né tanto meno svilupparne l'intelletto.
Si ha pertanto la sensazione che Zhang Yimou voglia porre fine alla sua
irriducibile contestazione nei confronti del suo governo ed indicare il
mezzo che conduca la Cina verso la modernità: "è la
tenacia e la forza di volontà delle nuove generazioni contadine che può risollevare il paese,
sburocratizzandolo e rivitalizzandolo con il loro atavico pragmatismo e
buon senso". Intento lodevole da parte del regista ma il
personaggio che dovrebbe farsi portatore di questo messaggio, risulta
imbarazzante, totalmente privo di credibilità, falso. Già non
è del tutto convincente, anche se a tratti piacevole, la "trasformazione" della supplente
Wei Minzhi, un'insignificante impaurita tredicenne (anche perché istruita
dalla stessa inutile scuola) in una insegnante improvvisamente autoritaria
(ma al punto giusto, naturalmente...) che sviluppa l'ingegno dei suoi
alunni in un modo ben misterioso dal momento che a tratti sembra ottusa
molto più dei piccoli bambini (al punto che impiega mezz'ora di film a
trovare il modo di pagare un autobus - una simile lungaggine l'abbiamo
riscontrata nel dialogo ripetitivo dei due protagonisti di Keep Cool in un
locale). Ma queste perplessità potrebbero essere fugate se si trovasse
una spiegazione plausibile alla sua implacabile determinazione nel trovare l'alunno
fuggito. In realtà una simile determinazione l'abbiamo già riscontrata
recentemente nel superbo personaggio di Rosetta dei Dardenne, ma lì era
pienamente giustificata da una titanica lotta per la
sopravvivenza, senza contare il tormento che permeava continuamente ogni
azione della ragazza.. In questo film, quale molla spinge la protagonista ad una tale
risolutezza? Non certo il denaro, che non è sufficiente nemmeno per 6
viaggi in città (spiegazione che viene comunque fugata dal suo sincero
pianto in televisione). La parola data? Quella promessa strappata a lei
dal maestro di ruolo che si raccomanda che al suo ritorno vorrà ritrovare
gli stessi alunni che lascia, "non uno di meno"? Questa
spiegazione sarebbe convincente e conforme alle virtù di lealtà e
di mantenimento della parola data di una rappresentante del popolo... se
non fosse che una bambina ha già lasciato la scuola (attraverso l'unico
modo possibile per un povero di cambiare la propria esistenza al di fuori
dell'istruzione, ovvero mediante lo sport). E poi, è plausibile questo
ostinato inseguimento quando comporta l'abbandono del resto della
classe? (che, in linea teorica, non controllata da nessuno, potrebbe
fuggire in massa?). Questa carenza di credibilità delle fondamenta sui cui
poggia
l'intreccio narrativo condiziona purtroppo anche le bellissime sequenze
espressionistiche che si susseguono durante la ricerca (due su tutte: Wei Minzhi
che scrive a mano centinaia di annunci di scomparsa in una
stazione attorniata da una folla dormiente, che cambia posizione mentre i
fogli di lei si accumulano sempre più; gli stessi annunci volano via col
vento spazzati da netturbini avvolti in una luce bluastra di meravigliosa
resa visionaria) che perdono inevitabilmente forza e necessità
("effetto" di una "causa" pretestuosa).
Il tema della ricerca e della fuga dà invece la sensazione di prestarsi a
più
chiavi di lettura, pare sottintendere simbolismi più sottili: "fuga
reale" (quella della popolazione verso la libertà tramite
l'emigrazione) o semplicemente "fuga interiore" che porta all'apatìa
e la sfiducia nell'utopìa della Grande Cina, quella cantata prima
dell'alzabandiera) e la "ricerca" il tentativo da parte delle
istituzioni di trattenere la popolazione con argomenti più convincenti
degli attuali. Tuttavia il regista non sembra approfondire troppo questo aspetto di
natura ideologica o politica: l'apologia della popolazione rurale prende
troppo il sopravvento su tutto il resto, anche se, a onor del vero, la contrapposizione
"positivo-negativo" è duplice e
trasversale, poiché l'inerzia, il menefreghismo, la mollezza, il monotono
appellarsi alle "leggi" si riscontrano sia nei "vecchi" rappresentanti dei villaggi
rurali (il capovillaggio e il maestro), che nei giovani cittadini (la
ragazza che accompagna di malavoglia la protagonista alla ricerca dello
scomparso, il ragazzo che disillude Wei Minzhi sull'utilità dei volantini
alla stazione).
Come già in "Keep Cool", vengono rappresentati alcuni simboli di
un'occidentalizzazione ormai radicata, ma mentre nel primo si poteva riscontrare una
chiara avversione per l' acquisizione sistematica di tutti gli status
symbol del capitalismo evidenziata da un sarcasmo affilatissimo, in
"Non uno di meno" il regista sembra evitare di sbilanciarsi in
un giudizio netto (forse per non inimicarsi i paesi occidentali che
tanto e decisivo sostegno gli hanno dato nella distribuzione delle sue
opere), rimanendo ambiguo soprattutto nei riguardi della televisione, dà
una parte prendendone le distanze a livello estetico (la trasmissione in
cui Wei Minzhi farà il suo appello non è né più né meno che un
esotico "Chi l'ha visto?"), dall'altra riconoscendone una sua
utilità sociale. L'aspetto forse più riuscito del film è la ridicolizzazione dei
riti che preludono l'inizio delle lezioni (le enfatiche canzoni
patriottiche e le grottesche gestualità durante l'alzabandiera), mentre
la poetica degli elementi essenziali dell'insegnamento (i gessetti e il
chiodo) è affascinante ma contraddittoria perché rappresenta proprio il
vecchio metodo burocratico che il regista contesta (il gessetto serve
effettivamente per scrivere dettati interminabili quanto inutili; il
chiodo che, raggiunto dal sole, indicherà la fine dell'orario scolastico,
è simbolo dell' inesorabilità della durata delle lezioni, a prescindere
dalla "sostanza" di ciò che si insegna). Il finale è di una
sdolcinatezza disturbante, anche se l'ultima scena, in cui gli alunni
divengono parte attiva della propria istruzione, è di forte impatto
emotivo.
In conclusione, Zhang Yimou realizza un film a tesi, con l'unica
preoccupazione di colpire emotivamente gli spettatori, infischiandosene
delle palesi ambiguità a livello tematico e delle rilevanti carenze di
ordine narrativo. L'indubbio talento registico non basta a salvare il film
dal fastidioso alone di falsità e trascuratezza che lo attraversa
dall'inizio alla fine. Daniele Bellucci |