A MIA SORELLA!
(A ma soeur!)

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REGIA:    
Catherine BREILLAT

PRODUZIONE:   Fra/Ita   -   2000   -   Drammatico

DURATA:  93'

INTERPRETI:
Anaïs Reboux, Roxane Mesquida, Libero De Rienzo,
Arsinée Khanjian, Romain Goupil, Laura Betti,
Albert Goldberg, Claude Sese, Marc Samuel

SCENEGGIATURA:
Catherine Breillat

FOTOGRAFIA: 
Yorgos Arvanitis

SCENOGRAFIA: 
François Renaud Labarthe

MONTAGGIO: 
Pascale Chavance

COSTUMI: 
Catherine Meillan - Anne Dunsford Varenne

SUONO: 
Jean Minondo

Trama

Vacanze estive di due sorelle appartenenti a una ricca famiglia francese. Anais (soprappeso, timida e impacciata, splendidamente interpretata da Anais Reboux) assiste all'educazione sentimentale e ai primi turbamenti sessuali della bellissima sorella Elene (Roxane Mesquida, al suo terzo film, esordì in "Marie della baia degli angeli"), la cui verginità è insidiata da Fernando (Libero De Rienzo, "Asini" e "La via degli angeli"), un ragazzo italiano di famiglia altoborghese.

Recensioni

 

 

 

400 colpi d'ascia: l'età inquieta secondo Catherine Breillat

Un altro racconto d'estate. Oltr'Alpe sembra essersi affermata una linea narrativa di grande interesse ed efficacia (efficacia venuta a mancare però al mediocre "Harry, un amico vero"), ovvero quella di fotografare il punto di rottura del vivere moderno nel momento della vacanza estiva. L'esempio più folgorante è stato senza dubbio lo splendido "Sotto la sabbia" del talentuosissimo Francois Ozon. Volendo trovare delle motivazioni a questa nuova tendenza si potrebbe azzardare che ambientazioni vacanziere, soprattutto estive, innescano la miccia di una crisi esistenziale data forse da una ricollocazione dell'individuo in un contesto rovesciato e differente rispetto a quello imposto dai ritmi e dai luoghi della vita moderna. Se 35 anni fa Jean-Luc Godard decostruiva le strutture di una società in crisi e in rinnovamento immergendo i suoi personaggi negli spazi e nei ritmi dei paesaggi urbani di una Parigi annichilita e sconquassata dall'avvento di una società futura ("Deux ou trois choses que je sais d'elle", ma non solo), occorre constatare come Catherine Breillat riesca oggi a mutare gli elementi in gioco per arrivare a mostrare una crisi e un'instabilità ugualmente dolorose. Se il passare del tempo ha assuefatto l'uomo ai ritmi, ai rumori, alle luci e agli spazi stretti delle nuove metropoli il fattore destabilizzante è dato oggi dallo slittamento (temporaneo) verso il silenzio, la quiete, la lontananza dagli impieghi di routine e dalla conseguente noia cantata nelle filastrocche di Anais, elementi sottolineati da sequenze lunghe, ossessive nel tentare lasciar aderire il tempo filmico a quello della realtà.
Il cinema di Catherine Breillat sembra presentarsi in un'inquadratura esemplare: Anais giace con le spalle rivolte al letto su cui stanno Elene e Fernando. Anais piange perché percepisce, ha piena coscienza di ciò che accade. E il rifiuto dello sguardo si rivela inutile e fatuo, perché lei (noi) vede pur non volendo vedere. Dalla gelida messa in scena di C. Breillat scaturisce tutta la potenza di un cinema che sa di non potersi sottrarre di fronte all'atrocità, alla problematicità e alla tensione morale di momenti su cui incombe il sentore della rottura, delle scelte definitive e dei punti di non ritorno. Lo sguardo chirurgico, freddo, ostentato della Breillat (filtrato attraverso lo sguardo e il sentimento di Anais) si rivela in realtà doloroso, sofferto, perché costretto a soffermarsi sulle scaturigini e le conseguenze di un dolore profondamente radicato nel reale, che subentra e s'insinua nelle cose fisiche, dentro i corpi. Il corpo di Anais sembra essere il baricentro del film, presenza sempre ingombrante, coscienza del fatto che un corpo al cinema (così come nella realtà)"significa" prima di tutto in funzione dello spazio che occupa (la sequenza dell'incontro con Fernando, dove Elena staziona di fianco al tavolo ferma "come un lampione" dopo la necessaria ricollocazione nell'inquadratura portata dall'ambizione di Elene, oppure il bellissimo primo piano doppio e riflesso delle due sorelle). "A mia sorella!" è forse proprio la storia di due corpi e del loro declino, storia del farsi di una metamorfosi interiore che non può compiersi se non attraverso la lacerazione della carne. Elene diviene così vittima sacrificale di un processo di violazioni della fisicità (sodomia, perdita della verginità e infine la morte). Anais subisce su di sé il riflesso di tutta la tensione che si accumula nel rapporto tra Elene e Fernando (magistrale la sequenza in autostrada, attraverso la quale la Breillat riesce con una vorticosa alternanza di punti di vista a costruire un sentimento d'angoscia degna di un maestro del brivido) e al momento dell'esplosione sembra raccogliere in pochi attimi il testimone di tutte le esperienze dolorosamente acquisite dalla sorella nel corso di tutto il film. L'efferatezza lenta e impercettibile del quotidiano che ha agito su Elene, diventa per Anais un sunto ugualmente efferato (per inciso: una sequenza da gelare il sangue nelle vene, che rievoca i sapori e i cromatismi cari a Dumont) ma più immediato e potente che si manifesta nello shock di un evento straordinario e inatteso. 
L'inquadratura finale sembrerebbe un omaggio al primo lungometraggio di Truffaut, a quel tentativo disperato di cogliere sul volto di Jean Pierre Leaud/Antoine Doinel un ultimo sussulto di innocenza, l'ultimo fotogramma di un'infanzia strappata, un'immagine ribadita 24 volte al secondo come grado zero e manifesto di un cinema così lucido da lasciar trasparire la vita. 

"-Allora, ti sei divertita?
-Così.
-L'hai visto il metrò?
-No.
-E allora, che cosa hai fatto?
-Sono invecchiata."

Raymond Queneau. Zazie nel metrò.

Stefano Trinchero


Io Donna

La tristezza adolescente di Anais dondola sulle note ossessive di una cantilena, si nutre di immaginari amanti da prendere e lasciare, s'infuoca nel confronto con una sorella più magra e più bella, mescola i sentimenti, confonde amore e odio. Anais e Helena, due facce della medaglia femminea: la prima, incisa come soggetto, non si cura della verginità, non le importa con chi la perdera', fastidioso fardello del quale liberarsi al più presto, senza riempirlo di significati posticci; Helena vuol concedere la sua prima volta ad un uomo che ami e da cui sia amata e quindi, nell'ingenuità che pervade la sue disinvolte scorrazzate per il mondo, si fa oggetto per il maschio, il predatore di turno. La lunga scena dei due ragazzi sul letto, spiati da Anais che finge di dormire, vive di un dialogo che ha tutto il fascino dell'ovvio: il ricatto di lui è sottile e banale, si fonda sul solito luogo comune della prova d'amore, gioca sporco sui sentimenti, sottende solo carnalità. Se penetrazione vaginale non ci può essere che sia anale. Se penetrazione anale è stata che segua pure una fellatio: in nome dell'amore. La deflorazione è solo a un passo e segue un altro scontato itinerario in cui si continua a confondere le carte, a intorbidire le acque, a scommettere sui i nomi da dare alle cose, ai simboli che le rappresenterebbero. Il gioco è lurido, non lo è Helena che si decide a subirlo, non lo e' Anais che lo scruta: "storie di culo", un anello mistificatore, la minaccia di una visita ginecologica. Poi l'ottusità borghese a spasso per un'autostrada minacciosa alla fine della quale tutto muta, tutto si fa correttamente irrilevante. Di fronte alla morte le cose riacquistano la loro dimensione. 
La Breillat gira un film manicheo, programmatico, in cui il maschio costituisce un riferimento negativo (il ragazzo italiano è un furbo opportunista che abusa dell'ingenuità di Helena, il padre di lei un uomo insensibile e disattento). Ma è anche il corto circuito tra mondo adolescente ed adulto a manifestarsi problematico: i genitori sono entrambi vittime del loro perbenismo, figlio di un concetto maschilista che sventola la verginità come un vessillo, che umilia la bruttezza, che scorge nella bellezza un bene deturpabile da preservare ad ogni costo. Nonostante il progetto "a tesi" l'opera funziona, colpisce con la verità di alcuni momenti, supera l'ostacolo di un'eccessiva letterarietà con spunti felici, di rara intensità. Di fronte a un registro così rigoroso stona un po' la scena dell'intervista in tv, in cui in un modo didascalico che poco si combina col resto del film, sentiamo una donna di spettacolo (che facilmente identifichiamo con l'autrice) parlare della rappresentazione del sesso e del ruolo che le si attribuisce. Giustificare o sottolineare le proprie scelta artistiche irrigidisce tutto, soprattutto in un'opera che aveva mantenuto fino a quel momento un equilibrio, anche stilistico, ragguardevole. 
Sempre protesa alla rappresentazione di un sesso sessuale, mai sensuale, piuttosto aemozionale e nevrotico, la Breillat si libera degli eccessi cervellotici di ROMANCE e gira un film sì volutamente provocatorio, ma in cui la provocazione si innesta in una riflessione che, condivisibile o meno, appare lucida e precisa, a tratti disperata. Colpisce, in un finale brutale e bellissimo (ma tutta l'ultima parte ha forza e tensione) l'indifferenza di Anais per la morte della madre e della sorella. E', probabilmente, l'indifferenza per un mondo che non la capisce, la stessa che tocca alll'identità del defloratore, perché quella che l'esterno percepisce come una violenza, per Anais e' solo un atto, per quanto traumatico, liberatorio. Un trauma che le portera' via sorella madre e verginita'...

Luca Pacilio

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7
   
           
 

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