L'AMORE CHE NON MUORE
(La Veuve de Saint-Pierre)

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REGIA:    
Patrice LECONTE

PRODUZIONE:  Francia   -   2000   -   Dramm.

DURATA:  111'

INTERPRETI:
Juliette Binoche, Daniel Auteuil, Emir Kusturica,
Christian Charmetant, Philippe Magnan 

SCENEGGIATURA: Claude Faraldo

FOTOGRAFIA:
Eduardo Serra

SCENOGRAFIA: Ivan Maussion

MONTAGGIO: Joelle Hache

COSTUMI: Christian Gasc

MUSICHE: Pascal Esteve

Trama

Isola di St. Pierre, Canada, 1850: un pescatore viene condannato a morte per omicidio. Nell'attesa che giunga da Parigi una ghigliottina e si riesca a trovare un boia, l'uomo viene affidato al capitano della locale guarnigione. La moglie di quest'ultimo cerca di riabilitare il condannato agli occhi della comunità.

Recensioni

 

 

 

Homme mort en marche

L'ultimo film di Patrice Leconte è un enigma senza soluzione, un gioco di specchi e misteri, una tragedia della dissimulazione e della sottrazione, un malinconico collage di pulsioni insinuate e suggestioni inquietanti, fin dal titolo (non quello italiano, come sempre di una banalità disarmante). "La vedova di St. Pierre" è un'espressione ambigua, riferibile a numerosi elementi della trama: la vedova di cui si innamora Neel e che lo sposa; Madame La, "vedova" anche e prima di tutto nel senso di "profondamente sradicata" rispetto al mortificante ambiente provinciale in cui è costretta a vivere; la moglie del boia, una figura sfuggente, per cui intravediamo lo spettro della solitudine e dell'abbandono; e soprattutto la protagonista, che compare in ritardo, come un'eroina di Beaumarchais: la ghigliottina, detta "veuve", con allusione forse involontaria al vuoto che crea nelle persone e nei rapporti. Tutto, o quasi, appare inspiegabile: oscuro il passato del Capitano, in esilio più o meno volontario ai confini del (suo) mondo, e quello di sua moglie, che ha rinunciato all'agiatezza per amore (o almeno così pare, come non si fanno scrupolo d'insinuare i pettegoli di St. Pierre); allo stesso modo appare inspiegabile e tanto più raccapricciante la sequenza iniziale, uno scherzo da ubriachi che si conclude nel sangue, e profondamente ambiguo il rapporto che si crea tra il condannato e la moglie di colui che dovrebbe essere il suo carceriere (e qui, per fortuna, ci viene evitata la love story di prammatica, anche se non mancano certo gli slanci di sentimento, non però di sentimentalismo, e le allusioni più o meno maliziose, grazie anche ad un montaggio sapientissimo). Ma, al di là del gioco intellettuale, il film si fa apprezzare anche per la presa di posizione, non urlata ma ferma, nei confronti della pena capitale, e la condanna della legge del taglione che ne scaturisce risulta tanto più efficace quanto il luogo dell'azione è lontano, nel tempo e nello spazio (non nello spirito), dalle vicende attuali. Il paesino di provincia, dove ci si maschera da esseri civili e la vita è scandita da cenette tra amici e pomeriggi "di ricevimento", viene messo alla berlina dai bambini, che ne svelano, nelle loro grida sincere, la natura violenta e selvaggia. La stessa ghigliottina, strumento "civile" di morte "giusta", diviene l'emblema di ogni lentezza burocratica, e alla fine, come le gerarchie civili e militari, risulta sterile, incrostata com'è di rancore e frustrazione, e per di più, da vera "macchina infernale", si ritorce contro chi la usa. In questo mondo di relazioni mortuarie, che Leconte si diverte a sottolineare con movimenti di macchina inconsueti per la "compostezza" dei film in costume, un conforto, precario ma basilare, non può che venire dall'amicizia e dalla religione (il curato è l'unico pubblico ufficiale che non condanna il matrimonio di Neel), ma soprattutto dalla capacità di affidarsi senza riserve all'amore, alla tenerezza, alla compassione. Accurato nella ricostruzione storica, ma senza estetismi superflui, dotato di dialoghi appuntiti e deliziosi, il film offre inoltre interessanti spunti di riflessione sul meccanismo stesso della finzione artistica, facendo consapevolmente apparire le case del borgo marino come fondali (ad esempio nella scena dell'incidente sventato da Neel) e affidando uno dei ruoli principali ad un grande regista, Emir Kusturica, che si rivela ideale nella sua capacità di disegnare un uomo perfettamente comune, che sbaglia e, nonostante tutto, sa rialzarsi, testimoniando così con forza anche maggiore l'iniquità e l'inutilità della sentenza capitale. Encomiabile Daniel Auteuil, che carica il suo personaggio di un tranquillo furore sospeso tra amore, gelosia e pietà, e memorabile, sommessa e a tratti isterica Juliette Binoche, cui Leconte dedica il bellissimo piano sequenza iniziale. Insomma, il cinema, per una volta, mette in risalto l'impegno civile senza farsene soffocare: che bello.

Stefano Selleri

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