BREAD AND ROSES
(Bread and Roses)

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REGIA:    
Ken LOACH

PRODUZIONE:  Gb/Spa/Fra/Ger/Svi   -   2000   -   Drammatico

DURATA:  110'

INTERPRETI:
Pilar Padilla, Adrien Brody, Elpidia Carrillo,
Jack McGee, Monica Rivas, Frank Davila

SCENEGGIATURA: Paul Laverty

FOTOGRAFIA: Barry Ackroyd

SCENOGRAFIA: Martin Johnson

MONTAGGIO: Jonathan Morris

COSTUMI: Michelle Michel

MUSICHE: George Fenton

Trama

Maya lascia il Messico per raggiungere clandestinamente la sorella che vive a Los Angeles. Negli States trova lavoro come donna delle pulizie e conosce il sindacalista Sam, che si batte per il miglioramento delle condizioni di lavoro degli immigrati.

Recensioni

 

 

 

La (solita) canzone di Ken

Che dire? Si esce turbati, scossi, sconvolti dalla visione di "Bread and Roses", ma per ragioni opposte a quelle che il regista avrebbe voluto. È semplicemente sconcertante che un autore discontinuo ma spesso geniale ("Piovono pietre", "Terra e libertà") possa creare, su temi importanti e dolorosi come l'immigrazione clandestina e le condizioni lavorative delle minoranze, un'opera tanto sciatta e miserabilmente scolastica: nient'altro che una serie di pensierini da seconda elementare, tanto ovvi che uno spettatore di media competenza è in grado, dopo venti minuti, di prevedere non solo gli sviluppi dell'azione, ma persino i movimenti di macchina, le inquadrature, la durata delle pause. Dopo un prologo esagitato, girato probabilmente nel bosco di Blair (gli "schiaffi" della macchina a mano sono gli stessi, e allo stesso modo insopportabili), il ritmo si fa blando, da TV movie di prima serata (seguirà dibattito), e il montaggio si adegua: l'eterno campo e controcampo, scarsi carrelli, quasi sempre da destra a sinistra o viceversa, abbondanti primi piani, campi lunghi sottolineati da una musica bandistica, "lirica" e "possente" al tempo stesso. E la struttura narrativa? Un'esile commediola all'acqua - appunto - di rose, venata di drammaticità da telenovela argentina (pardon, messicana) e intermezzi farseschi grossolani. I dialoghi sono in tutto degno di un fotoromanzo, e così i personaggi, tutti d'un pezzo, buoni o pessimi che siano, anzi, più che di personaggi si dovrebbe parlare di tipi: l'ingenua, la donna vissuta, il rassegnato, l'idealista, il sofferente, il capro espiatorio, la dissidente. A ciò aggiungete la storia d'amore politicamente corretta, incurante di razza e ceto, un po' di lotta politica, un pizzico di passato oscuro che ritorna, una caterva di tormenti familiari, esistenziali e intellettuali sopiti sotto la cenere della routine ma pronti a riemergere, un'orazione "importante" nel prefinale e una conclusione sui toni medi, melanconica ma non disperata. Insomma: sembra la parodia di un film di Ken Loach, che anestetizza le asperità e i tocchi caustici per offrire allo spettatore un prodotto melenso, "natalizio" (sarà per questo che i distributori l'hanno fatto uscire ora?). Una base rivoluzionaria, fatta di contestazione pagata col sangue, per un ritrattino grazioso, "impeccabile", anemico oltre ogni dire: il trionfo del revisionismo e del cinismo, all'insegna dell'eterno "vogliamoci bene". Improprio parlare di attori: gli unici che meritano questo appellativo sono alcune star hollywoodiane (tra cui Tim Roth) che hanno accettato di partecipare alla scena del party. Quando duettano in lacrime, la Padilla e la Carrillo fanno ridere: Adrien Brody non riesce a togliersi dalla faccia un ghigno sardonico decisamente fastidioso. Se questa è la prima trasferta americana di Loach, speriamo sia anche l'ultima!

Stefano Selleri


Le marionette di Ken Loach

Ken Loach aggiunge un nuovo tassello al suo cinema di impegno civile e politico e per la prima volta gira un film in America, affrontando il problema dell'immigrazione messicana negli Stati Uniti. Gli uomini "invisibili" - cosi' sono efficacemente soprannominati gli emigrati che puliscono in silenzio uffici mentre manager, impiegati e segretarie li sfiorano senza vederli, confondendoli con l'elegante décor dell'arredo - lottano quotidianamente per l'esistenza, tra soprusi e ingiustizie. Il pregio del film di Ken Loach e' di sensibilizzare, di porre l'accento su una realta' che e' un dato di fatto ma che rischia di essere tranquillamente ignorata perche' scomoda, ma il modo in cui la problematica viene sviluppata non convince. Piu' che in altri lungometraggi, Ken Loach sembra voler impartire una lezione ideologica in cui la ragione e il torto sono chiaramente espressi, negando allo spettatore la possibilita' di farsi un'idea che non sia viziata dallo slogan politico. Ecco quindi emigrati "buoni" che si riuniscono in assemblee sindacali in cui i dialoghi hanno il didascalico effetto di una lezione per lo spettatore, ecco quindi un sindacalista eroico ma senza alcuno spessore psicologico, ecco quindi la lotta che porta a un sofferto ma inevitabile risultato. E' come se i personaggi non vivessero la storia raccontata, ma dovessero sempre spiegare allo spettatore cio' che e' giusto e cio' che e' sbagliato, attraverso contrasti forti ma forzati. Forse e' anche per questo che l'emozione latita e l'unico confronto davvero coinvolgente e' quello tra le due sorelle, in cui i fili ideologici del regista per un attimo scompaiono rendendo i personaggi veri e urgenti.

Luca Baroncini

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