BROTHER
(Brother)

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REGIA:    
Takeshi KITANO

PRODUZIONE:  U.S.A./Jap/Gb   -   2000   -   Dramm.

DURATA:  110'

INTERPRETI:
Takeshi Kitano (Beat Takeshi), Omar Epps,
Claude Maki, Masaya Kato, Ren Osugi

SCENEGGIATURA: Takeshi Kitano

FOTOGRAFIA: Hitoshi Takaya

SCENOGRAFIA: Norihiro Isoda

MONTAGGIO: Takeshi Kitano - Yoshinori Ota

COSTUMI: Yohji Yamamoto

MUSICHE: Joe Hisaishi

Trama

Aniky Yamamoto è vice di una famiglia yakuza sconfitta in una guerra di potere, il suo socio si sottomette ai vincitori, lui si rifiuta e accetta d'andare in America dal fratellastro minore; lì costruisce una nuova banda e inizia una guerra contro i messicani e gli italiani che lo porterà alla morte.

Recensioni

 

 

 

Brother Beat

Trionfo dell'ortogonalità, scoppio dello statico di contro alla "metafisica della velocità che elimina il pittoresco naturale ", afflusso del fisico, questo porta Kitano a Los Angeles. Quadri fissi panoramicano sul vetro-metallo postmoderno meglio di qualunque ripresa aerea ("The Million Dollar Hotel" di Wenders) sui grattacieli, sulle luci verdi e grigiazzurre dei loft. Il sentimento ha le lettere sbavate di BROTHER, o l'ideogramma della morte composto nel sangue con cadaveri sul parquet della palestra-ufficio; a legare i poveri burattini di Kitano, oppressi dalla loro stupidità ed arroganza, resistono rituali feudali da bushido, la cerimonia dell'accettazione con i fogli di carta di riso lindi e perfettamente disposti, i movimenti stilizzati della cessione della propria vita, il sorseggio del sakè benedetto, mignoli tagliati, sventramenti autoinflitti senza gemiti. Degli uomini resistono le pulsioni infantili, l'unione appunto avviene nel gioco, nel barare scherzoso ai dadi: di fronte all'oceano Pacifico, la stessa acqua, quindi la stessa vita e la medesima morte, gli stessi uomini, si rincorre una palla da football, ci si libera dal timore della solitudine sancendo la solidarietà del gruppo, l'unica cellula accettabile. 
Il contrasto tra due culture (non si badi allo stupro del doppiaggio: nell'originale le due lingue coesistono) è nell'espressione: la logorrea americana, cialtronesca vive di sghignazzi contro i silenzi accigliati dei japs riassunti in Beat Takeshi con il suo riso di sospiro; uguali i pensieri.
La necessità che regola i rapporti mafiosi porta alla guerra spietata, un bagno si sangue, luminescente tripudio di flash esplosi da mitra e pistole automatiche, ad illuminare una sequenza di ultimi istanti, riflessi sulle nere limo. Aniky non accetterà l'ultima sfida, ne è sempre stato cosciente, "moriremo tutti" sentenzia, non conta. Morta la sua donna, in modo atroce, gli resta solo un amico, Dennis e fa in modo di salvarlo, è sua la fine nel sangue, sua l'oscena esistenza di brutalità inutili e ritualizzate che deve terminare: steso disarticolato come un eroe del bunraku , grottesco ed immerso nel suo sangue. Una gru a salire oltre il tetto del diner (Welles?), riporta alla vita ed al ricordo di un amicizia strampalata, nelle parole e negli occhi lucidi di chi vivo non sa cosa fare di sé e copre la sua solitudine di parole.
Un'altra figura di yakuza si aggiunge nella filmografia di Kitano, con i toni questa volta del marrone e del grigio, lontano dallo sfavillio di "Sonatine" e "Hana-Bi" ma con il medesimo senso della messa in scena e con la stessa poetica: nell'atroce esistenza senza significato di una pedina può sgorgare l'emozione così come da una sanguinosa sparatoria, su di un muro blu, spuntano purpurei fiori di loto.

Luigi Garella


Questa è la Yakuza: prendere o lasciare

Il nuovo film di Kitano esplora il rigoroso mondo della yakuza, la mafia giapponese. Il protagonista, lo stesso "Beat" Kitano, deve fuggire dal Giappone, dove è ormai spacciato per la solita guerra tra bande rivali, e decide di raggiungere il fratellastro in America. L'unico linguaggio che sembra conoscere e capire è quello della violenza, unico impulso in grado di risolvere i contrasti e superare le difficoltà.. E' interessante questo punto di vista, meno interessante l'assenza di una voce critica in grado di porre domande ai protagonisti. Tutti sembrano accettare tacitamente e dare per scontata la logica della violenza, ed anche emotivamente e psicologicamente nessun personaggio appare scosso o turbato.
Il film è ben girato, impaginato con eleganza e accompagnato da una colonna sonora malinconica che ben sottolinea la solitudine del protagonista. Risulta comunque difficile appassionarsi e partecipare ad una violenza spesso compiaciuta, all'amicizia virile dei protagonisti, al senso dell'onore e alla totale mancanza di ironia dei personaggi che prendono tutto tremendamente sul serio (le risate provocate dalle innumerevoli stragi sono cinismo e non ironia). Del resto questa è la yakuza, ma un punto di vista meno assecondante avrebbe potuto dire "altro" oltre che raccontare, bene per carità, una storia in fondo prevedibile e già affrontata da altre cinematografie.

Luca Baroncini

Commenti

 

 

Un film come questo richiede rispetto. Non ne neghero' l'eleganza. Non ne discutero' la portata (citazionistica, auto e non). Non mettero' in discussione l'avvolgente fascino della messinscena, il mirabile taglio del montaggio (e' un Maestro! e' un Maestro!). Oggi l'idea di cinema di Kitano s'immerge nel milieu americano e, nella stridente combinazione, trova nuova, adeguata espressione: l'umorismo deviante delle situazioni (domani lo chiameremo "kitanesco"), la gestualita' zen dei suoi yakuza, l'impronta quasi nichilista della storia, non scevra da un romanticismo vecchio stile, classico e dissonante, sono quelli noti. Ma dissonante, soprattutto, nel lento penetrare della lama di ghiaccio che attraversa il film, e' l'esplosione di violenza che tanto piu' sembra truce, tanto piu' suona grottesca, brillante, visivamente attraente e (lo dico?) poetica. Kitano e' l'unico cineasta capace di far apparire supremamente raffinati la recisione di un dito a crudo, un harakiri con sbudellamento annesso, un ferocissimo, spietato eccidio. Si dira', (si e' gia' detto) che e' tutto risaputo, che non c'e' niente di nuovo, che il film e' prevedibile e manierato. C'e' del vero: con BROTHER il regista non cambia le carte in tavola e non le rimescola nemmeno; sfrontatamente utlizza il suo corpo - totem nello stesso, identico modo di sempre; ripropone, senza la zampata fatale di un HANA-BI, coreografie mortuarie, struggenti incroci di sentimenti implosi, giochi cinici e paradossali. Tra gli applausi, alla fine, rimane piu' di un dubbio. Forse e' vero: BROTHER e' semplicemente SONATINE goes to America. Si', ma che classe! Kitano, dove vai?

LuCa P@cilio


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