Recensioni
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Geometrie di regime
(L'uscita è al di fuori del cerchio e dal cerchio non si esce)
Distribuito a velocità di record, arriva nelle sale italiane l'ultima opera dell'iraniano Panahi, dopo la vittoria fin troppo annunciata allo scorso festival di Venezia.
Buon film, tanto vale dirlo subito, che potrebbe riscuotere un discreto successo di pubblico sul mercato occidentale, anzi, forse soltanto su quel mercato, visto che è ben difficile immaginarsi una regolare distribuzione per un film del genere in un paese come l'Iran, notoriamente poco propenso a tollerare film di denuncia.
Prendiamo un cerchio, o meglio, immaginiamo di doverne disegnare uno. Il punto più stridente, difficile, importante è quello del contatto, inizio/fine e poi di nuovo inizio/fine del percorso, per l'eternità, dovendo considerare l'ipotesi della perfezione. Panahi colpisce proprio in questo punto, fin da subito, con le urla lancinanti di un parto negato alla vista, una mossa a dir poco irritante ma che ottiene senza dubbio l'effetto desiderato, ovvero quello di infastidire, pungere sul vivo, in poche parole destare, perché il cinema è negato insieme alla chiarezza visuale, uno schermo nero su cui appaiono i titoli di testa lacerati dalle urla della partoriente, urla che non provengono da fuori campo, ma da altrove e ci richiamano verso un posto in cui non possiamo andare. Poi la virata radicale sul bianco ospedaliero, un candore infinitesimo squarciato presto dalla realtà, realtà che appare in un volto parzialmente celato (ancora, e soprattutto) di donna. Una donna anziana si affaccia alla finestrella della sala parto e maledice il sesso del nascituro (femmina, ovvio) dopo aver appreso l'imperfezione dell'ecografia. Il Fato: crudele, potentemente percepibile perché si manifesta nel momento della nascita, della genesi del cerchio, e questo significa segnare per la vita, marchiare un'esistenza, effetto sortito anche dall'accostamento di una donna vecchia e disperata con una neonata la cui disperazione è già profetizzabile dopo pochi secondi di vita.
Di qui in avanti la vicenda segue un fluire lento e predestinatamente inarrestabile all'interno di una struttura narrativa e drammaturgica morbida come la linea di un cerchio ma allo stesso tempo precisissima. La linea sembra sfilacciarsi eppure c'è un ordine preciso nell'intreccio delle vicende delle protagoniste, donne che si sfiorano e si incrociano per le strade di Teheran, e poi si perdono e ci scompaiono da davanti, escono più che mai di campo, anzi no, è il campo che si sposta da loro, la macchina da presa, il nostro sguardo, che le abbandona per interessarsi a qualcun altra (ma mai a qualcosa d'altro), per lo più conoscenti accidentali (ex-compagne di carcere nella quasi totalità dei casi) che però crescono smisuratamente d'importanza nell'incombere della solitudine e della disperazione. Un susseguirsi di eventi e personaggi che si agganciano l'un l'altro nel lento configurarsi di una figura geometrica, un configurarsi sorvegliato dall'alto in ogni attimo, guidato con precisione estrema. E' forse proprio qui che si può trovare un lieve difetto al film, proprio nell'eccessiva programmaticità della sceneggiatura, in quello schematismo che a tratti affiora in superficie mentre invece dovrebbe forse soltanto lasciarsi intuire senza lasciarsi vedere. Ad ogni modo un film importante, diretto ottimamente e con una forza tale da imporre la crudezza di una realtà inumana al di sopra di ogni altra cosa.
Stefano Trinchero
La necessità di un cinema di denuncia
Donne sole, senza diritti, marchiate fin dalla nascita dal disonore del loro sesso, che non possono esprimersi, fumare in pubblico, viaggiare non accompagnate da un uomo o senza carta dello studente. Donne che devono nascondere in continuazione la propria femminilità. Donne che cercano un equilibrio, un compromesso. Donne che sopravvivono. E intorno un mondo che va avanti, in cui questa situazione viene data per scontata senza porre troppe domande.
Il film di Panahi, permette allo spettatore di entrare in questo universo, culturalmente e socialmente lontano, seguendo la storia di alcune donne. Storia di cui non si conosce l'inizio e di cui si potrà solo intuire la fine. La scelta si rivela narrativamente felice, perché focalizza l'attenzione sulla comune condizione delle donne iraniane e permette un'immedesimazione altrimenti improbabile. Tutto accade qui ed ora e il filo di questo cerchio narrativo è dato dal destino, che fa incrociare o meno i personaggi rendendoli vivi, pulsanti e urgenti. Come la denuncia gridata dal film, la cui importanza supera i confini cinematografici.
Luca Baroncini
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