DANCER IN THE DARK
(Dancer in the Dark)

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REGIA:    
Lars VON TRIER

PRODUZIONE:  Dan/Fra/Sve   -   2000   -   Drammatico-Musicale

DURATA:  140'

INTERPRETI:
Bjork, Catherine Deneuve, Jean-Marc Barr,
David Morse, Peter Stormare, Stellan Skarsgard,
Vincent Paterson, Cara Seymour, Udo Kier

SCENEGGIATURA:
Lars Von Trier

FOTOGRAFIA:
Robby Muller

COREOGRAFIA: 
Vincent Paterson

SCENOGRAFIA: Peter Grant

MONTAGGIO: 
Molly Malene Stensgaard - Francois Gedigier

COSTUMI: Manon Rasmussen

MUSICHE: Bjork

Trama

L'immigrata cecoslovacca Selma lavora in una fabbrica nella provincia americana degli anni '70. Appassionata di musical, Selma è affetta da una grave malattia ereditaria che porta lentamente alla cecità: il suo unico obiettivo è quello di lavorare duramente per salvare gli occhi del figlio. Raggiunta finalmente la cifra necessaria per l'operazione, Selma viene derubata dal padrone di casa e, in preda alla disperazione, lo uccide. L'ostinazione nel salvare il figlio dalla cecità spingerà Selma a non usare il denaro destinato all'operazione per fare ricorso alla sentenza di morte. 

Recensioni

 

 

 

Cantando sotto la forca

Dancer in the Dark non è la riesumazione del cadavere di un genere, il musical, ma una scommessa ambiziosa. Lars von Trier sembra intento a dimostrare che la sua ricetta è universale: telecamera digitale a mano, primi piani dreyeriani, violenza tarantiniana, o meglio ferrariana vista la forte componente martiriologica, sono esportabili in qualsiasi territorio del cinema. Anche il musical. La chiave di tutto è il grottesco come quando il padrone di casa che, appena ucciso dalla protagonista, si rialza per danzare con la sua assassina. Lo spettatore rischia in effetti di rimanere disorientato davanti alla virulenza degli eventi e al modo in cui Bjork vi danza ciecamente attorno.
In Dancer in the Dark von Trier, l'incarnazione della pesantezza (come categoria calviniana) si fa compiutamente ritmo, canzone e danza: quindi leggerezza. Il film è un'ulteriore dimostrazione delle grandi capacità pittoriche e musicali del regista e, al di là dallo sconcerto che suscita la sua (a volte prevedibile) spietatezza, l'opera è squisitamente raffinata è offre un raro godimento tanto visivo quanto sonoro. Il film entra progressivamente nel punto di (non) vista della sfortunata protagonista (il film, emblematicamente inizia con una lunga sequenza "al buio"), alternando la crudezza di ciò che lei non vede all'idillio di ciò che lei immagina. Il modello binario tra coreografia e realtà, da sempre la premessa del musical, è in questo caso un vero pugno nello stomaco, proprio uno di quelli che il von Trier ama sferrare. Da una parte il film, per la sua carica innovativa e sperimentale, è una scommessa vinta, dall'altra è minato da un'ambiguità insanabile, la stessa che divide la critica su ogni opera dell'autore danese. Von Trier sembra da sempre chiederci di seguire i suoi protagonisti negli abissi del melodramma, di piangere e straziarci per loro ma, al contempo, egli frustra la nostra volontà d'immedesimazione attraverso la sua tecnica glaciale, la sua iperrealtà artificiosa e, ancor più in Dancer in the Dark, attraverso gli straordinari voli pindarici degli inserti musicali. La sua è una regia cinica per una storia emotiva, emozionata ma non emozionante, almeno non fino in fondo. Chi scrive è convinto che in fondo von Trier non voglia mai struggere lo spettatore fino in fondo, ma che intenda lasciarlo sempre cosciente attraverso una visione chirurgica della tragedia.

Massimo Innocenti


Musical-drama in Dogma

Procura una strana scissione la visione del film di Lars Von Trier. Da una parte c'e' il lato razionale, che cerca di associare ad ogni evento una causa scatenante, e dall'altro quello emotivo, che segue un percorso tutto interiore di adesione alle immagini e vive il film come un'esperienza di immedesimazione totale con il mondo della protagonista. Se all'inizio ci si trova spaesati e si fatica un po' ad entrare nei personaggi e nella storia, segue poi una fase quasi magica, in cui la capacita' del regista di stravolgere i generi cinematografici, consente una partecipazione totale alla vicenda narrata. Ed entrare nel mondo fantasioso di Selma (una Bjork che si annulla nel personaggio interpretato) in cui la vita dovrebbe essere un musical, diverte, stupisce ed intenerisce. Poi, pero', a mano a mano che la storia cresce, si arriva a un bivio emotivo in cui il meccanismo rischia di incepparsi. La causa e' da ricercarsi principalmente nella sceneggiatura, che vira alla tragedia senza motivare in modo approfondito il perche' degli eventi. La sensazione e' quella di un regista che vuole incidere il dito nella piaga dei sentimenti dello spettatore, aggiungendo dettagli sempre piu' dolorosi e laceranti, ma in modo un po' gratutito, senza che la storia raccontata abbia le premesse per renderli plausibili. E nel momento in cui il gioco diventa scoperto, emozionarsi e partecipare diventa molto difficile. Resta la grande capacita' di Lars Von Trier di provocare in modo intelligente, personale e fantasioso, applicando, pur con certe liberta', le regole del Dogma a un genere anti-Dogma come il musical, trasformando la Denevue in una credibile operaia (anche se il suo personaggio appare e scompare, soprattutto nella seconda parte, in modo poco motivato) e costruendo un personaggio femminile perfetto per la sensibilita' e la fisicita' della cantante Bjork (sarebbe interessante vederla in ruolo diverso). Quello che pero' si percepisce, se prevale il punto di vista razionale su quello emotivo, e' la volonta' di manipolare la buona fede cinematografica dello spettatore. E si esce dalla sala pensando che, forse, i veri sogni di Selma a occhi aperti sono tutt'altro che dogmatici, ma sfavillanti, kitsch, colorati e ritmati, proprio come quelli dei musical americani, e quello che si e' visto al cinema e' un esercizio di stile interessante, ma tutto sommato, nel suo tentativo di stravolgere la finzione, piu' finto che potente.

Luca Baroncini


Von Trier in the dark

Dopo la trilogia iniziale, formalistica e sontuosa, tre saggi di intelligenza cinematografica, di superba resa figurativa (Element of Crime, Epidemic, Europa), dopo Breaking the waves, surgelato e calcolatore, dopo il provocatorio Idioterme (vilipeso, massacrato, tagliuzzato: un prezioso disturbo) Von Trier continua a trastullarsi nell'ingannevole ruolo dell'autore scassapalle che rifiuta la normalita', che sbandiera il suo irritante manifesto di esasperazione cinematografica, trasudante sgradevolezza, scomodita', integralismo quasi insensato. Ma stavolta, preso in pieno da un impeto dimostrativo furibonmdo, si dimentica di fingere e lascia scrutare tra le sue carte, quelle di una nuova opera d'imbarazzante pochezza. DANCER IN THE DARK e' un brutto film: scritto male, tirato per le lunghe, di inenarrabile banalita', che denuncia in ogni sequenza la pretestuosita' di una trama nella quale l'autore non crede neanche un po' e dalla quale non ha ne' la forza ne' l'ispirazione di distaccarsi. Non lo supporta neanche lo stile, studiatamente sciatto come Dogma comanda, che nei precedenti film informava una spiacevolezza tematica ,oltre che ideologica, per quanto deliberata e artefatta, foriera di un reale disagio. Se abbandonare il cinema forse troppo perfetto e lambiccato degli inizi deve portare a un risultato cosi' strabordante e involuto, e' forse il caso di rivedere le ragioni di una rinuncia cosi' radicale, considerare l'epoca delle opere girate "con la mano sinistra" al capolinea. DANCER IN THE DARK vuole essere un musical e, allo stesso tempo, un film dogmatico: risulta invece un ibrido insapore, vuoto e deludente sotto quasi ogni aspetto. i numeri musicali (sia detto a chiare lettere: la cosa migliore del film) nel loro scintillio (il primo, in fabbrica, e' francamente indimenticabile), rendono ancora piu' insostenibile il contrasto con la (di-)sgraziata parte narrativa in cui il danese gioca al ribasso col sentimentalimo del pubblico, con un nuovo studio a tavolino privo della consueta, mordace ironia. E' chiaro ed evidente che non gliene importi un fico di Selma, che non si industri neanche un po' per fare della sua storia la rete nella quale innestare i numeri musicali, vero oggetto "a parte", fluidi e liberi come sono. Bjork, cantante geniale, si dimostra interprete sensibile, la Deneuve fa da splendida, pretestuosa cornice, regale com'e', ma come le canzoni, e' fumo negli occhi, brillio nella sabbia della noia, chicca per i palati cinephile. Rimane il sussulto del finale, la scena dell'esecuzione, in cui finalmente si tocca con mano un po' di dramma che abbia parvenze autentiche. E curioso e intrigante, promettente di non so piu' dire cosa, e' il lungo inizio al buio, immersione quasi jarmaniana (cfr. BLUE) nella cecita' della protagonista. Lei non puo' vedere. Noi non avremmo voluto.

Luca Pacilio


Requiem per una madre

È forte la tentazione, dopo aver visto questo film, di seguire l'aforisma di Wittgenstein che invita a tacere di ciò di cui non si può parlare. E davvero la parola può a stento dare un'idea confusa dell'impressionante bagaglio di idee, emozioni, suggestioni contenuto in questo devastante viaggio nella disperazione. Schermo nero, minaccioso silenzio: poi, dapprima quasi impercettibile, un palpito nel registro grave, ripetuto per tre volte, da cui si dipana una linea melodica struggente, che gradualmente coinvolge tutta l'orchestra in un canto che è insieme funebre e di ringraziamento, mentre lo schermo, implacabile, è congelato in un'immobilità che spaventa ed avvince. Basterebbe l'incipit, musicale e visivo (perché anche l'assenza di immagine è immagine), a testimoniare il carattere estremo, originale e spiazzante, dell'ultimo film di Von Trier, giustamente premiato con la Palma d'Oro. In questa "tragedia musicale" ibrida come un mostro mitologico, i difetti abituali dell'autore, vale a dire la grottesca pedanteria, l'eccesso didascalico, la presunzione, l'estro barocco, sono frenati, prosciugati, ridotti all'essenziale. Il Dogma c'è e si vede (nella macchina a mano, nelle luci velate, nell'uso delle voci degli attori anche nelle canzoni), ma, per la prima volta, la tecnica è al servizio della storia (negli "Idioti" la trama era poco più di un pretesto sperimentale) e ad essa funzionale (le riprese sfocate, traballanti, come il "nero" iniziale, sono lo specchio di ciò che vede la protagonista, e il tono "provvisorio" di tutta la pellicola esprime, meglio di ogni scambio di battute, la condizione di doppia precarietà di Selma, condannata dalla natura e dagli uomini). Inoltre, la sobrietà del contenitore (compresi i dialoghi, banali e ripetitivi ma proprio per questo plausibilmente "presi dalla vita", e le frequenti ellissi, che evitano ogni inutile prolissità) rende ancora più spettacolari, più commoventi, più "necessarie" le sequenze musicali, che non hanno nulla in comune con i gradevoli e prevedibili "omaggi al genere" di un Branagh o di un Allen, ma sono autentici poemi visuali, assemblaggi miracolosi di rumori e situazioni reali (l'officina, il treno, l'aula giudiziaria) che si trasformano in magnifici brani musicali (ovviamente scritti da Bjork), "descritti", più che semplicemente "ripresi", da Von Trier con una partecipazione emotiva ed intellettuale che infrange le regole dogmatiche di ogni tipo, quelle di Hollywood come quelle dei "giovani arrabbiati" europei, per risolversi in una pura, assoluta esaltazione del potere salvifico della musica, in grado di fermare l'attimo e resuscitare i morti. Ma, se in molte scene il regista sembra deciso a fare della musica il nuovo Messia, la sequenza finale (agghiacciante per tempi e incastri di volti e voci, mille volte più emozionante di tutto "Dead man walking") toglie ogni dubbio: la crudeltà, la stupidità, l'incapacità di sognare degli uomini possono essere solo esorcizzate, non evitate, perché "nella vita reale, non giungono mai i messaggeri a cavallo", come diceva Brecht. Spudoratamente melodrammatico nella forma (musicale, con tanto di ouverture) e nella sostanza, "Dancer in the dark" tocca le corde del cuore e non si vergogna di parlare anche alla testa, senza alcun intento predicatorio o "civile" e suscitando, a più riprese, un sorriso complice (ad esempio nelle prove di "Tutti insieme appassionatamente", allestito dal teatrino dopolavoristico). Strepitosa la performance di Bjork, che dà il meglio di sé nella commovente "I've seen it all", magnifico il resto del cast, dalla sempre più fulgida Deneuve (ma come fa?) al commovente Peter Stormare.

Stefano Selleri

Commenti

 

 

La cosa che uno meno si poteva aspettare da Lars von Trier, e dal DOGMA in generale, era un musical. Si stenta a credere che uno dei registi più freddi e ferocemente tragici degli ultimi anni si sia dato alla coreografia. Ebbene si, von Trier, l'epigono dell'espressionismo scandinavo di Munch e Dreyer, è andato a braccetto, o meglio al passo, di Fred Astaire. Pensandoci meglio, tuttavia, non dobbiamo sorprenderci più di tanto ma prendere Dancer in the Dark come l'espressione compiuta di quei temi che il regista aveva affrontato solo obliquamente nelle sue opere precedenti. Gli intermezzi musicali ne Le onde del destino, già preannunciavano la tendenza ad alternare iperrealtà e artificialità, violenza e sogno, documentarismo e kitsch. Il desiderio d'armonia e di libertà della protagonista, il suo senso musicale, quasi liturgico, riecheggiano la "passione" di Bess, la protagonista delle Le onde del destino, anche lei desiderosa di esorcizzare la tragica realtà attraverso suono, quello delle campane fantasma. Come ne Gli Idioti o in Rieget il "sesto senso" posseduto dai protagonisti, ciò che li aliena, è sublime condanna ma al contempo salvifica redenzione.

Massimo Innocenti


"Bjork danza nel buio della propria solitudine"

Musical malinconico e angosciante, scandito dalla voce acuta e tagliente di Bjork, che, diretta ai limiti delle sue possibilità emotive da Von Trier, dà vita a un personaggio di grande intensità attraverso un uso apparentemente istintivo delle espressioni del viso, di sorrisi accennati e introspettivi e di una mimica mai forzata o caricaturale. Ritorna, dopo le "Onde del destino" il grande tema del sacrificio per amore, in quel caso per la persona che si ama, qui per il proprio figlio. Un sacrificio che nessuno riesce a capire, neanche la migliore amica (una misurata Deneuve) e forse neanche il figlio stesso, perché troppo distante dalla morale generalmente accetta e praticata. Per tutti è più rassicurante considerare Selma (Bjork ndr) una minorata, una pazza o, al massimo, una handicappata di cui avere pietà in modo da sottrarsi al pericoloso confronto con il significato più profondo dell'amore che, inteso in maniera estrema, conduce, secondo Von Trier, "naturalmente" verso il sacrificio totale di sé. Ancora una volta una donna che può contare solo sulla propria testarda idea della vita per affrontare il mondo che , nel corso del film, diventa a lei paragonato, sempre più piccolo, bigotto e composto da individui banali e cattivi in quanto limitati e omologati. Chi è diverso, e vuole rimanere tale, in questa società deve sapere di essere votato alla tragedia. Una eroina tragica, perseguitata dal senso di colpa per aver generato un figlio sapendo che diventerà cieco, tacciata di essere comunista, ingrata, di sfruttare il proprio handicap e di non essere degna dell'accoglienza che la famigliola "media" targata U.S.A. le ha riservato. Il mito yankee del "buon vicino di casa" che accudisce i nostri figli e annaffia il nostro giardino quando non ci siamo, viene allora smascherato e frantumato pezzo dopo pezzo con consapevole disprezzo e l'opinione del regista sulla America è tutta nelle parole del pubblico ministero che, riferendosi in tribunale alla protagonista, afferma che "ella disprezza tutti i valori nazionali e che dell'America salverebbe solamente Hollywood". Non ci sembra casuale che l'handicap "scelto" dal regista sia la cecità; essa, infatti, rimanda indietro la nostra memoria cinematografica a un'altra ragazza non vedente, la fioraia di "Luci della città" di Chaplin, ma qui il finale è volutamente diverso, alla poesia struggente e malinconica con lieto fine, viene sostituito il ritmo sospeso e incalzante della cruda tragedia. Il film, girato per specifica scelta espressiva in "digitale", dipanandosi trasmette un senso di crescente angoscia e più che la commozione lo spettatore sente crescere la rabbia e l'impotenza, materiale e psicologica, dinanzi a ciò che accade. La musica è l'unico modo per Selma di evadere da tutto lo squallore che la circonda concedendole di non razionalizzare troppo a fondo la propria vita; le immagini di Fred Astaire, di Gene Kelly o del ballerino ceco Novy stridono volutamente con la piatta realtà descritta e costituiscono l'occasione per lasciarsi sedurre alcuni istanti da un universo surreale e illusorio che avrebbe intrigato Fellini e Bunuel. La bellissima scena del balletto nella fabbrica è, poi, un omaggio esplicito a un'altra pellicola di Chaplin, "Tempi moderni". Attraverso i movimenti apparentemente anarchici della telecamera mobile che, con impietoso cinismo, scandagliano le più impercettibili espressioni e i movimenti anche solo accennati della protagonista, il regista ancora una volta non si pone verso lo spettatore lusingando con immagini rassicuranti la sua vista, il suo gusto o il suo udito, ma si rivolge direttamente al suo sistema nervoso, alle sua "anima nera" provocando uno shock emotivo che lo scuote nel profondo liberando infinite possibili reazioni, eccetto l'indifferenza. Von Trier aggiunge un altro capitolo al suo personale percorso all'interno di quel "cinema della crudeltà" che da Dreyer a Lynch, passando per Bunuel e Polanski, consente di indagare, lontano da ogni stereotipo e manicheismo, l'origine e il delirio della diversità, della cattiveria e della follia che abitano l'anima e la mente dell'uomo.

Raffaele Elia


L'inutilità della differenza

Lars Von Trier è uno di quei registi che non sa o non vuole passare inosservato. Ogni suo film è discusso con animosità dagli addetti ai lavori, snobbato dal grande pubblico che non lo capisce, amato e osannato da una buona schiera d'ammiratori. Da parte mia, con atteggiamento socratico, ammetto di non sapere, e m'appresto a vedere ogni opera del sopravvalutato e immeritatamente sempre premiato regista, con l'occhio di chi vuole capire, ma con l'animo di chi è ostile al suo modo di pensare. Mi hanno divertito quelle assurde regole del "Dogma", in cui questo rivoluzionario del cinema dettava a mo' di dieci comandamenti ciò che si può fare e ciò che non si deve osare in un film, come se il cinema per essere ed esistere abbia bisogno di comandamenti, e non di bravi registi, bravi attori e bravi tecnici. Ma alla base di questo appunto c'è anche un'altra considerazione: chi ha detto che il cinema debba essere bianco e non nero? Chi ha posto dei limiti, alzato delle palizzate, eretto muri che l'arte dell'immagine non possa oltrepassare? Il cinema deve andare avanti per la sua strada, e al suo interno ci deve essere spazio per qualsiasi tipo di sperimentazione, dall'iperrealismo degli "Idioti" giusto per citare un'opera del suddetto, al cinema tutto rumore e effetti speciali che è proprio di Hollywood e crea i mega incassi al botteghino. Il cinema è tutto questo, e rifiuto fortemente chiunque voglia delimitare o spiegare come esso vada fatto. Partendo da questo, e dicendo che Von Trier è il primo ad infrangere le regole del "Dogma" in "Dancer in the dark", trovo che questa sua ultima opera, si fermi a metà cammino su tutte le strade che cerca d'intraprendere. Non è un film sperimentale, non è un film sul sociale, non è un film sulla fantasia, non è un film. C'è questa specie di martire sull'orlo della cecità, che combina un guaio dopo l'altro, che dedica la sua vita a risparmiare dei soldi affinché il figlio possa vedere, ed è così buona che alla fine per sbaglio spara all'uomo che gli aveva rubato i risparmi. Ma vi rendete conto della assoluta incoerenza di questo personaggio, che prima non è capace di far male ad una mosca e pochi secondi dopo riesce a finire il malcapitato con una furia degna di un serial killer. Capisco che quei soldi fossero tutta la sua vita, ma non avrebbe mai avuto la freddezza di compiere quel gesto. Non bastasse questo, che di per se è probabilmente il momento cruciale del film, c'è la sequenza del processo, che trova offensiva per l'intelligenza delle persone che hanno visto questa produzione. Come si può nel 2000 presentare un campionario di personaggi così stereotipati, dall'avvocato razzista, alla giuria d'ottusi, al giudice simil adepto del Ku Klux Klan, tutti così razzisti da far sembrare un nazista un chierichetto alle prime armi. Come si può dirigere una scena con così tante frasi fatte, con così tanti primi piani scontati e nauseanti, con così tanti cliché che la memoria non è in grado di ricordarli? C'è qualcuno che dirà che bisognava lasciarsi trasportare dall'emozione, dalla poeticità del film, dalle stupende scene in stile musical. Devo ammettere che se queste scene c'erano io dormivo, perché non ho visto una, e dico una, inquadratura che mi abbia colpito. Von Trier è incapace di girare un film, figuriamoci un musical, dove le coreografie e la maestria tecnica sono praticamente tutto. Queste sequenze che irrompono nell'opera sono assolutamente sgradevoli, e non creano quello stacco, netto e necessario, che dovrebbe esserci tra la vita grigia della protagonista e il suo mondo fantastico dove tutto è musica e colori: dov'è la poesia? Dove dovrebbe emozionarci questo film? Io non ho visto altro che un pietoso tentativo di commuovere dall'inizio alla fine, d'accattivarsi le simpatie del pubblico presentandoci questa povera disgraziata che non fa altro che sorridere mettendo la lingua tra i denti per circa quarantasei inquadrature, di presentare una schiera di personaggi di contorno monotematici e granitici, che non riescono a destare un benché minimo interesse. Tutto questo sorvolando sulla parte tecnica del film, che voglio accettare come stile personale di un regista innovativo, e non come disturbo visivo di chi, appassionato di cinema, riceve alla visione di questo "capolavoro", di chi concepisce questa meravigliosa arte primariamente come immagine, con tutto ciò che questa parola comporta. Io accetto e accetterò sempre un cinema diverso e innovativo, ma Von Trier non posso accettarlo, perché il suo è semplicemente anticinema, o sciatto e inutile tentativo di rinnovare qualcosa, di cui lui per primo, ignora il reale significato.

Matteo Catoni


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