LA DEA DEL '67
(The Goddess of 1967)

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REGIA:    
Clara LAW

PRODUZIONE:  Australia   -   2000   -   Drammatico

DURATA:  118'

INTERPRETI:
Rose Byrne, Rikiya Kurokawa,
Nicholas Hope, Elise McCredie

SCENEGGIATURA: Eddie L.C. Fong - Clara Law

FOTOGRAFIA: Dion Beebe

SCENOGRAFIA: Nicholas McCallum

MONTAGGIO: Hate Williams

COSTUMI: Anni Marshall - Helen Mather

MUSICHE: Jen Anderson

Trama

Un giovane e ricco giapponese si reca in Australia per acquistare una Citroen DS (Deésse in francese: dea). La proprietaria dell'auto e' una giovane cieca che lo trascinera' in un'avventura "on the road". Presente e passato si intrecceranno. 

Recensioni

 

 

 

Gods for Sale

L'Oriente incrocia il nuovissimo continente in un territorio visivo ritagliato da un magazine, di ricercata levigatezza, sulla soglia di una stilizzazione parossistica che rifiuta pero' la pura seduzione modaiola. Un uomo e una donna scivolano in un paesaggio artificiale, lucido, con cieli dipinti di blu, nuvole d'ovatta, interni hi-tech di algore metallico, colori elettrici e lividi di giorno, caldi e morbidi di notte. La Citroen DS, feticcio color salmone, sfreccia attraverso le strade assolate di un'Australia marziana, navicella spaziotemporale in esplorazione di luoghi e tempi paralleli. In un'epoca di segni e di simboli, di oggetti di culto e idoli consumistici, l'auto, come il telefono satellitare, come il computer portatile, diviene totem da adorare, divinita' privata che il denaro puo' comprare.
Tokio e il Giappone sono in un'altra orbita, evocata e incombente, percepita per frammenti mentali solarizzati e intermittenti. Sotto la patina di ghiaccio che congela ambienti e prospettive, covano malesseri atavici mentre sbrinano drammi infantili, violenze private, incesti ripetuti.
Passato e presente si mischiano senza amalgamarsi. Nell'oscurita' di una balera, la luce al neon di un juke box: in una danza gioiosa di buio e colore, di movimenti graziosamente in acido, catturati da angolazioni impossibili, momento di cinematografico splendore, il cuore di vetro (fume') del film si apre e rivela il suo lustro contenuto, ricacciando la tentazione di liquidarlo come il facile esercizio trendy di una regista a caccia di consensi. A ben guardare quella della Law si scopre essere l'intelligente applicazione di un'estetica precisa, quella della pubblicita', all'ingessato, immobile quadro del cinema odierno. E' ora di riconoscerlo, farlo senza snobismi: in questi anni il videoclip e lo spot pubblicitario hanno percorso le vie dell'arte visiva molto piu' di quanto non abbia fatto il cinema. L' enorme potenzialita' espressiva di queste forme e' stata sfruttata da pochi (due nomi, europei, su tutti, Wenders e Greenaway, ai quali questo film deve piu' di qualcosa), ha creato una vera poetica, dei veri autori (Jean-Baptiste Mondino, saccheggiato a tutto spiano e senza ritegno, segna un'epoca piu' di tanti celebrati maestri della celluloide, inventa uno stile, un modo di girare e di guardare gli oggetti e i corpi che ha solcato l'immaginario in maniera indelebile: domani qualcuno gli dedichera' una bella retrospettiva). In LA DEA DEL '67, dunque, la musa ispiratrice e' la pubblicita', i cui moduli si impongono con primi piani di cose che, perdendo la propria identita' specifica, si fanno articoli e prodotti (il cellulare, il lettore cd, l'auto stessa inquadrati come perspicui oggetti del desiderio), con bellissimi bambini irreali (ma dietro i quali si muove una mostruosita' camuffata che gioca col sesso degli angeli), con liquidi riflessi su pareti, due volti iconici e anodizzati in una camera d'albergo nella quale aleggia fortissima la tentazione di un viraggio della macchina da presa su una boccetta di profumo ("Armani", dice il protagonista), su un paio di mutande firmate, su uno sfavillante home theater.
A ben guardare le puntate nel passato appesantiscono il tutto, riempiono il piatto all'eccesso, in una dimensione inconciliata in cui Kar Wai fa a pugni con la detestabile Jane Campion, ma la Law, fortunamente, riesce a tornare sempre in tempo sull'avventura straniata delle sue belle pedine, rivisita la back-projection per un road movie che sia davvero del nuovo millennio e in questi momenti piu' squisitamente visivi sfoggia la sua stoffa di pregevole qualita'. Molti troveranno il tutto esercizio fastidioso e da nuova accademia ma si fa presto a dire maniera: l'unica ammissibile a certi occhi e' quella anonima dominante.

Luca Pacilio


Solitudini & Divinità

JM e' un giapponese che giunge in Australia per realizzare un sogno. BG e' un'australiana cieca dal torbido passato. Li lega la Dea del titolo e cioe' una Citroen DS color salmone, che li accompagnera' per le strade assolate e deserte dell'Australia alla ricerca di una propria identita'. Il film di Clara Law procede a intermittenza, con immagini patinate da video-clip che non riescono quasi mai a superare i confini della forma e a creare emozione. Non aiutano i tanti flashback che rischiano di dare troppe motivazioni a un personaggio gia' interessante di suo, ben interpretato da Rose Byrne premiata al Festival di Venezia. Alcune cose colpiscono, come gli inserti pubblicitari d'epoca sulla mitica Citroen DS o il legame tenero e protettivo che si instaura tra i due protagonisti, in grado di smussare gli angoli di due profonde solitudini. Quello che forse convince meno e' la misura, il controllo, una sorta di pacato calcolo attraverso cui il progredire degli eventi prende forma lasciando combaciare pian piano tutti i tasselli. Resta il rimpianto di un "on the road" selvaggio e anarchico senza alcun pretesto narrativo che, soprattutto nella lenta parte finale, rischia piu' di annoiare che di interessare. Non a caso la scena piu' bella, in cui le luci a fianco dello schermo scompaiono e la scritta "toilette" non pulsa piu' con insistenza, e' la liberatoria iniziazione al ballo di Rose. Un ballo scoordinato, frenetico, vitale, senza il talento del giovane "Billy Elliot", ma non per questo meno elettrico ed elettrizzante.

Luca Baroncini

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