Recensioni
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Un coraggioso viaggio nell'inconscio
Si deve riconoscere a Gabriele Salvatores la capacità di rinnovarsi, nello stile e nelle storie raccontate. Viene spesso accusato dai suoi detrattori di affrontare tematiche interessanti e attuali in modo superficiale e modaiolo, e forse qualche cosa di vero c'è. Ma è anche vero che in un panorama italiano dove si osa poco, sia a livello narrativo che visivo, Salvatores ha il merito di confezionare in modo impeccabile e molto glamour una storia fastidiosa e disturbante, che non lascia certo indifferenti. Il film è un lungo viaggio nell'inconscio di Antonio (un Sergio Rubini più bravo e convincente del solito) per rimuovere, o comunque superare, una serie di traumi che trovano sfogo in una terribile dentatura. Il film, impacchettato come un incalzante video-clip, è ricco di spunti, non tutti approfonditi, ma l'insieme risulta originale e mantiene per l'intera durata il difficile equilibrio tra un livello primario, in cui si racconta una storia, ed uno secondario, più sottile ed insinuante, dove l'inconscio prende forma e diventa immagine, permettendo a paure e pulsioni di uscire allo scoperto.
Gli incontri con il fantasma materno, provocano la stessa irritazione degli intermezzi della Seigner in "Nirvana" (sarà per la erre moscia), ed anche questa volta il regista riesce a dare risalto ad un personaggio femminile non banale, ben interpretato dalla graziosa Anita Caprioli, una Cucinotta meno verace e più espressiva.
Luca Baroncini
La vita nei denti
Stupisce e non poco quest'ultimo lavoro di Salvatores, regista tra i più capaci del panorama italiano, e decisamente lontano dal genere di film che l'hanno reso famoso. Denti è un'opera indefinibile, a tratti cruda e iper-reale, basta pensare a tutti i primi piani sulle sanguinanti gengive, a volte visionaria e onirica fino all'incomprensibile. Sorretto da una regia buona e con ottime intuizioni stilistiche, il film si snoda su più livelli, creando un
"effetto attesa" veramente ben riuscito, e costruendo una trama, che giocata tra metafore e apparizioni, risulta
avvincente. Alla buona riuscita del tutto partecipano certamente gli attori, a cominciare dall'ottimo Sergio Rubini, impeccabile nel ruolo del protagonista, nonostante la difficoltà del ruolo, fino a giungere alle parti minori, in cui spicca indubbiamente Fabrizio Bentivoglio nella parte dello zio marinaio e sciupafemmine, nettamente superiore a Paolo Villaggio che appare troppo sopra le righe nella parte del dentista navigato. Tornando al regista, credo che ci proponga la sua opera più personale almeno a livello emozionale, in cui è presente in tutta la sua forza il suo inconscio, creando un reticolo d'immagini e sensazioni del tutto interiori, ma avvolgenti e conturbanti. Non credo che Denti avrà un impatto semplice con il pubblico, né tantomeno che la sua fruizione sia semplice ed immediata: penso che appartenga a quel genere di film che si ama o si odia, e che si riesce ad apprezzare a pieno, soltanto se a livello subliminale riesce a colpirci e trasportarci in quella terra di nessuno che il regista crea attraverso le sue visioni e il suo occhio sul mondo. Ci troviamo di fronte ad un'opera scomoda, di un Salvatores diverso, sicuramente meno "rassicurante" del solito, un regista che si è scrollato di dosso il suo cinema per solcare una strada nuova e per lo più sconosciuta a lui e a noi. Certamente non un film capolavoro, ma un tentativo originale, disperato, coraggioso, di
dimostrare che questo genere di lavori può avere una sua ragione, e ritagliarsi una fetta di pubblico che giustamente gli spetta. All'interno del desolante panorama cinematografico odierno, questo film si staglia dal pattume imperante, e dimostra che in Italia si può ancora rischiare e tentare di fare qualcosa di diverso e un pochino più impegnato, per lo meno a livello cerebrale.
Matteo Catoni
Sotto il vestito (usato) niente…
Quanta voglia di esser-ci, di mostrarsi, di dire "guardatemi al lavoro: sono o non sono un Regista?" Cosa rara per il cinema italiano, ne convengo, ed è forse questo che può rendere la bocca più buona del dovuto/voluto inducendo a parlar bene dell'ultimo Salvatores e del suo (presunto) coraggio. Ebbene no, non ci siamo, "Denti" è invece un
"film senza ombra", un involontario "niente" vestito a festa.
PARTE I- "il niente sotto il vestito"--- Il guaio non è tanto che, banalmente, il film è (vorrebbe forse essere) un trip onirico dentro le ossessioni umane, un'esperienza visivo-sonora non necessariamente sensata; se "Denti" fosse stato questo sarebbe stato largamente più digeribile: un programmat(ic)o vuoto virtualmente polisenso in cui il "messaggio" diventa il medium (il film "in sé"), o meglio, ciò che ciascuno vede nel medium; un particolare tipo di cinema-cinema, dunque, o di cinema per il cinema, con illustri precedenti. Qui irrompe invece il maggior difetto di "denti", ossia la ridondante voce fuori campo che (pseudo)filosofeggia sulla vita, la morte, la ri-nascita, l'amore, annientando di fatto ogni ambiguità di significato e indirizzando il tutto sui tranquilli binari di una per giunta banale monosemia…perché illustrare, dire, spiegare tutto? C'era davvero bisogno di chiarire a parole il (già troppo chiaro) significato della "terza dentatura"? Non solo. Cosa hanno da dirmi verità rivelate del tipo: "il bisogno d'amore ci fa soffrire?" davvero niente…un gran brutto tipo di "niente".
PARTE II- "il vestito sopra il niente"---La prima cosa che viene da dire è che il film è comunque "ben girato". Ora, tralasciando il fatto che la constatazione in sé è penosa (un po' come dire dei pessimi Dream Theater: "…però sanno suonare"), dal punto di vista stilistico, della forza visiva del "mostrato" e del "come" lo si mostra, si verifica una sorta di paradosso: la ricerca esasperata di personalità si traduce in omologante spersonalizzazione. Salvatores si lascia prendere la mano da spericolati movimenti di macchina e da inquadrature impossibili, indugia su gengive carnose e sanguinanti, mostra attrezzi odontoiatrici "mostruosi", filma poco convincenti discese agli inferi senza accorgersi di quanto risulti "derivat(iv)o" e in definitiva poco (punto?) originale. In ogni fotogramma, infatti, sembrano far capolino ora Lynch, ora Cronenberg, ora Fincher, ora Boyle, ora il Lyne di "Jacob's ladder" e chi più ne ha più ne metta…nessuna ossessione genuina, nessun "disturbo" che non evochi un noioso deja-vu…
i soli momenti emotivamente intensi sono causati da grossolani espedienti splatter come un dente strappato o uno schizzo di denso e rosso sangue su un'asettica parete bianca. Se questa è l'italian way per sentirsi (e per riuscire a "farsi sentire") Autore non c'è da stare allegri…
Gianluca Pelleschi
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