Recensioni
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E
Dio
creò la donna (di Dallas)
Robert Altman dedica il film a tutte le donne del Texas e ribadisce,
nella conferenza stampa veneziana, di non avere fatto un ritratto offensivo dell’universo femminile, ma di essersi limitato a registrare una realtà specifica e ben delimitata. Probabilmente Dallas non è il mondo, ma lo spettatore fatica a rendersene conto e il dubbio (potenza del cinema!) di una visione maschilista da parte del regista, non tarda a farsi sentire. Robert Altman definisce il fascinoso Doctor “T” come “uno che guarda le donne dalla parte sbagliata” e l’affermazione suona un po’ semplicistica, perché il bel Richard Gere protagonista, che ama talmente le donne da soffocarle di attenzioni, potrebbe anche (e questo nel film non viene neanche accennato) essere concentrato solo su se stesso. Poco approfondito anche il mondo in cui si muovono i personaggi, con dinamiche che portano gli uomini a lavorare in continuazione e le donne ad annoiarsi mortalmente e a sfogare ansie e frustrazioni nello shopping e nella depressione.
Forse l’errore è di voler considerare un personaggio cinematografico come simbolo della categoria a cui appartiene, per cui un uomo e una donna diventano “l’uomo” e “la donna” e tutte le donne urlanti, capricciose, bizzose, superficiali che movimentano la pellicola, rischiano di essere viste come l’emblema della donna universale secondo il regista.
Sta di fatto che una sensazione di imparzialità si fa sentire, anche se il film scorre leggero, divertito e imprevedibile, con l’ormai consueta abilità di Altman nel costruire in modo armonioso sequenze complesse, con quasi l’intero cast sullo schermo, e piani sequenza arditi, come quello iniziale, formidabile per ritmo e tecnica. Il progressivo estremismo di certe situazioni, anche se di divertente, rischia però di abituare lo spettatore, che pur non essendo in grado di prevedere gli eventi, si aspetta comunque reazioni sopra le righe. Ottimo il cast femminile e in parte, anche se con poca ironia, il sex-symbol
Gere.
Luca Baroncini
Uno scorpione che non sa più pungere
C'era una volta Robert Altman, regista capace di sconvolgere
l'America ed il mondo intero, mettendo a nudo le ipocrisie e le finzioni di una società che aspettava soltanto di essere dissacrata. Nessun amante del cinema può dimenticare dei capolavori assoluti come "Nashville" o "America Oggi", film che hanno segnato un'epoca, e che hanno aperto le porte dell'ispirazione ad una grande schiera di registi (tra gli ultimi il regista di "Magnolia" Paul Thomas Anderson).
Se esiste oggi un cinema sarcastico ed irriverente nei confronti dei cari vecchi Stati Uniti, molto di questo merito va a questo regista; ma purtroppo non è dalla filmografia che
bisogna giudicare un autore, ma dalla sua ultima opera, e qui iniziano le prime note dolenti. Il dottor T è un film normale, una sorta di commedia, infarcita da piccoli drammi familiari e personali, di personaggi che sinceramente non appassionano, e non conquistano. Buona parte del film è di una lentezza sconcertante, e non si capisce bene dove quest'opera voglia arrivare. Si analizzano i problemi di questo dottore a cui impazzisce la moglie, ma che non sembra intenzionato a dar molto peso all'accaduto, dato che si butta nelle braccia di un'altra donna dieci minuti dopo, e trascura le condizioni della madre delle sue figlie per una buona metà del film. A questa situazione bisogna aggiungere gli svariati personaggi femminili presenti nel film, tutti sinceramente vittime di una scarsa caratterizzazione e di un'inesistente personalità.
Se si esclude la scena del matrimonio, carina ma prevedibile, il film è una vera noia, ed il finale appare
confuso e rimediato più che originale.
Probabilmente il vecchio Altman pensava di cavarsela con una buona prova d'insieme dei suoi attori, e con il fascino sempreverde del bravo Richard Gere, ma ha fatto i conti in maniera errata, dato che n'è uscito un film inutile, scontato, e che dimostra che il tempo, e le idee, passano per tutti.
Matteo Catoni
L'America, oggi, sta decisamente altrove
Che Dallas fosse un posto ignobile credo fosse ormai noto ai più da parecchio tempo: la città più rappresentativa dello stato più retrogrado, forcaiolo, barbaro, razzista e reazionario (il Texas) di tutti gli Stati Uniti d'America. Come se non bastasse se poi torniamo indietro con la memoria ai palinsesti televisivi di dieci-quindici anni fa (credo) non faticheremo certo a ricordare che uno degli eventi più nefasti per l'immaginario culturale (si dice così anche quando la cultura non centra, no?) degli spettatori dell'epoca fu una soap opera che prese proprio il nome dalla città in questione, icona insuperata del benessere WASP e sogno americano incarnato in gretti vaccari dai cappelli orribili che si ritrovano a capo di società per azioni multimilionarie. Questo è quindi il retroterra su cui si muove Altman. Robert Altman, autore di
Nashville, I compari, America oggi, un film cruciale, capace di mettere a nudo con rara crudeltà i limiti e le nefandezze della società americana.
Si fa una certa fatica a credere che l'Altman di oggi non ha più nulla da dire, niente. Probabilmente si è limitato a leggere la nuova sceneggiatura dall'autrice de
"La fortuna di Cookie" per poi dirigerne un film con una sciattezza tale da risultare non solo imbarazzante ma addirittura fastidiosa.
Il piano sequenza iniziale si riduce a manifesto di quella che un tempo era estetica o scelta stilistica e adesso non fa che rintanarsi nei prevedibili confini del clichè: inutile e irritante. Una sequela di odiose borghesucce urlacchianti che non fanno altro che tormentare l'udito dello spettatore per buona parte del film. Verrebbe chiaramente da pensare a sottili intenti di satira graffiante, peccato che il ridicolo in questi casi (come è giusto che sia) si nasconde dietro l'angolo e Altman ci finisce dentro in pieno. A meno che non siate dell'idea che basti uno sgambetto a una signora supergriffata in pre-menopausa per poter parlare di satira graffiante.
Per il resto mi pare che in un film dalle presunte pretese psicanalitiche (la moglie del Dottor T è affetta da turbe psichiche, non era forse il caso di farne risaltare le cause invece di enunciarle?) possa essere sacrosanto pretendere un minimo di cura nella caratterizzazione psicologica dei personaggi. Nulla, ogni cosa in questo film è a malapena abbozzata.
Rimane ancora da chiedersi come sia possibile che da una sceneggiatura (non bellissima, per la verità) così ricca di avvenimenti, chaos, colpi di scena, dialoghi al fulmicotone possa scaturire un film così piatto e privo di ritmo (vedi ad esempio gli insulsi incontri di Gere con i compagni di caccia, inutili quanto patetici tentativi di far affiorare il tema dell'amicizia virile).
Gli attori: su Gere nulla da dire, a parte il fatto che la sua espressione facciale non sembra essere mai mutata nel corso degli ultimi dieci anni (dov'è finito l'interprete de I giorni del cielo di Terrence Malick?). Dovrebbe limitarsi alla pubblicità. Liv Tyler è ingrassata paurosamente e si stenta a riconoscerla, il resto del cast offre per lo più fastidiose interpretazioni decisamente sopra la righe che regalano scarse emozioni.
Qualche barlume della classe di Altman si intravede nelle sequenze finali e in quella in cui Farrah Fawcett, moglie troppo amata da Gere, si denuda per immergersi in una fontana. Poco o nulla per un film che ha fatto parte (vergognosamente) della selezione ufficiale di uno dei Festival cinematografici più importanti del mondo. Alberto Barbera è un grande uomo di cinema e lo ha ampiamente dimostrato in passato, ma la presenza in concorso di film come questo in un festival da lui diretto rischiano di gettare un ombra sulla sua luminosa carriera.
Stefano Trinchero
L'uomo che capiva le donne
Questa è una commedia che ironizza sul cliché dell'uomo di successo (Richard Gere) che crede di avere la chiave per decifrare il più grande mistero dell'umanità (di sesso maschile): le donne. Il dottore che contempla dalla mattina alla sera la courbetiana origine del mondo (la vagina) sembra avere in pugno il segreto per far felice il sesso opposto. Ammirato da amici e pazienti il Dottor T. non riesce a far felice la donna più importante, sua moglie, la quale, appiattita dalla bambagia e dalle attenzioni soffocanti, finisce diritta in casa di cura. Insomma il Dottor T. sbaglia sistematicamente le sue effimeri ed arroganti diagnosi esistenziali sul genere femminile. L'uomo da cui ci si apette di vedere e capire è cieco e stupido: il suo sguardo "clinico" non vede l'omosessualità della figlia, i bisogni della moglie e la vacuità dell'amante.
Il problema del film è che l'ironia altmaniana viene schiacciata dagli stessi cliché che si propone di colpire. La nauseante perfezione del protagonista (tutto country club e battute di caccia) e la caricaturale vanità delle sue pazienti sono così smaccate da appesantire i toni del film. Ciò ha il pregio e il difetto di disorientare lo spettatore che non sempre riesce a identificare i limiti della parodia. Non si capisce a volte se ridere delle effimere parole dei personaggi o di chi le ha scritte. La rappresentazione della borghesia texana è talmente finta che si stenta a coinvolgersi nell'intreccio se non verso la fine del film quando si comincia a capire che che i veri "cattivi" non sono i rappresentanti del cinico mondo che ruota intorno al protagonista ma egli stesso, nella sua presunzione e ottusità. Come nel mondo reale in questo film non si riesce a definire i contorni reali delle cose e si finisce con lo scoprire che il male è proprio lì dove non te lo aspetti. Altman odia il genere umano, questo è chiaro, ma il linguaggio della sua farsa comincia ad essere vittima di tale odio. Se il protagonista è accecato dalla sua ipocrisia il film di Altman è accecato dall'astio per tale ipocrisia. Il regista di Nashville e America Oggi sembra aver perso il controllo e la misura della sua ironia e rimane sempre più solo nella sua risata agghiacciante.
Massimo Innocenti
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