IL FIGLIO DI DUE MADRI
(Fils de deux Méres ou Comedie de l'Innocence)

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REGIA:    
Raul RUIZ

PRODUZIONE:  Francia   -   2000   -   Drammatico

DURATA:  100'

INTERPRETI:
Isabelle Huppert, Jeanne Balibar, Charles Berling, Nils Hugon, Edith Scob, Denis Podalydes, Laure de Clermont-Tonnerre

SCENEGGIATURA: Françoise Dumas - Raoul Ruiz
(da "Il Figlio di due madri" di Massimo Bontempelli)

FOTOGRAFIA:
Jacques Bouquin

SCENOGRAFIA: Bruno Beauge

MONTAGGIO: Mireille Hannon

COSTUMI: Nathalie Raoul

MUSICHE: Jorge Arriagada

Trama

Camille, un bambino di nove anni, di famiglia altoborghese, il giorno del suo compleanno chiede alla madre: "Tu c'eri quando sono nato?"

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Tutte le mie madri

Criticatelo quanto volete, Ra(o)ul Ruiz è un cineasta unico, autore riconoscibile (di quanti è possibile dirlo?) di un cinema originale ed entusiasmante. La rivista CINEFORUM non lo colloca fra i cento cineasti per il nuovo millennio (100 PER IL 2000), includendo di rimando nomi sui quali non scommetterei mezza moneta falsa ma va bene cosi. Va bene tutto, il cileno non ha bisogno di riconoscimenti, riesce a fare il cinema che vuole e a regalarcelo (ma COMBAT D'AMOUR EN SONGE di cui Garella, da Lipari - Il Vento del cinema, ci disse meraviglie, non è stato distribuito) e di tutto il resto, (onori, palme, leoni, orsi, ricchi premi e cotillon), detto proprio francamente, ce ne sbatte. Dopo IL TEMPO RITROVATO - capolavoro scomparso subito dalle sale, film profondamente ruiziano nel suo essere proustiano come altri mai - il cineasta si rivolge ancora a un romanzo (di Bontempelli) e gira, nel suo stile immaginoso, una sorta di horror psicologico di inquietudine agghiacciante. Camille, fanciullo savant con telecamera alla mano, che un giorno conduce la madre Ariane da Isabella, sostenendo essere lei la vera genitrice, e che smantella le certezze dell'ambiente borghese e lucidamente folle nel quale vive, è il fulcro intorno al quale orbitano altre figure, dettagli grotteschi di una realtà (parallela?) tutta da decifrare: dallo zio psichiatra che avrebbe da curare se stesso, a una nurse che lancia i dadi e che studia le probabilità (ma il risultato del lancio è sempre lo stesso: siamo dunque in un tempo sospeso? In una dimensione fantastica? Da quale prospettiva bisogna guardare gli eventi? Chi li determina? Domande ruizianamente senza risposta), da un amichetto che si riteneva immaginario e che immaginario non è, a un padre che si ritiene reale ma che, come tutti i maschi adulti del film, è figura lontana, sfumata e fondamentalmente assente. Alla parete si staglia il Giudizio di Salomone, ancora un figlio conteso da due madri: nessun taglio letale come da tradizione, solo l'effigie verrà divelta.
Il film, insinuando dubbi e inquietudini sottopelle (il sottotitolo, Commedia dell'Innocenza, e' un ulteriore, ironico sviamento: non c'è commedia e, soprattutto, nessuna innocenza, a meno che non si voglia considerare l'unico vero candore, quello dell'obiettivo della videocamera), carrella sul suo pubblico fittizio - dai busti in gesso, in casa di Ariane, alle maschere tribali, in casa di Isabella -, accumula tensione senza individuare punti di fuga e, giocando con le ombre e gli spazi (perchè muovere tanto la macchina da presa se gli oggetti possono muoversi all'interno di un'inquadratura?) ci regala, attraverso l'occhio del piccolo protagonista, immagini in 8 millimetri che scavano letteralmente negli oggetti, si fanno segni, premonizioni, agnizioni sgranate ma fulminanti. Più misurato del solito, Ruiz sembra tenere a bada i suoi irresistibili ghirigori visivi per meglio servire lo snodarsi del plot, riuscendo ad arrivare a un traguardo che oscilla stranamente dai toni gotici, che fanno molto rétro, a un'avanguardia moderata e avvolgente che si espleta attraverso inquadrature anticonvenzionali (la prima, splendida soggettiva da dietro il piatto che Camille sta leccando) e deformazioni cromatiche mai gratuite. Se Isabelle Huppert è completamente a suo agio in un ruolo che la sta pian piano ingabbiando (la borghese fredda e enigmatica), la Balibar è degna deuteragonista nella contesa di un figlio che se ha un genitore certo è da rinvenire nel bambino assassino de LA VILLE DES PIRATES, sontuosa prova del maestro del 1983. La storia, in perenne bilico tra realismo e fantasmagoria, disegnando un'apparente deriva della ragione, la contraddice nel finale,
virando decisamente verso un'inedita sequenza chiarificatrice. Se vogliamo è proprio questo riannodare positivista delle fila a costituire la vera devianza: Ruiz, che ha fatto del perdersi delle storie il suo trovarsi nel cinema, in questo caso ricompone realisticamente il quadro tramico, pagando (volentieri?) il prezzo della derivazione letteraria della pellicola e delegando l'effetto inquietante non ad un'ulteriore, (per lui) consueta astrazione, ma a un colpo di scena concreto, ragionevole ma terribile, che interviene proprio quando gli eventi sembravano incanalarsi verso una spiegazione non solo coerente ma anche prevedibile. Le immagini girate dalla telecamera del bambino, infatti, prima sembrano spiegare l'accaduto con l'abbordaggio di Camille da parte di Isabella, un inculcargli il dubbio sulla sua maternità, dunque con la decisione (in)cosciente della donna di farne il surrogato del proprio bimbo annegato. In seconda battuta, però, i nastri riveleranno la sconcertante verità di un fanciullo stanco della genitrice (di un ambiente, di una chiusura, di una famiglia, di una classe) e che, avvicinandola lui, sceglierà consapevolmente Isabella come propria madre, conducendo a sé il suo animo in lutto. Un bambino regista (appunto...) degli eventi. Un finale chiaro, certo, che però non elimina il disagio e lascia felicemente aperte, nella rutilanza dei colori e delle forme cui ci ha abituato il regista, mille questioni irrisolte.

Luca Pacilio

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