Recensioni
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2000: Odissea negli States
"Odissea di Omero, adattata per lo schermo da Ethan & Joel Coen". Immersi nelle pianure dell'America rurale arse dal sole e ristorate dall'acqua (bellissima la fotografia "antica", tendente al seppia, di Roger Deakins), i tre prigionieri sono i protagonisti inconsapevoli (nonostante nomi più che profetici, ad esempio Everett "Ulysses") di una riscrittura demitizzante, sorniona e paradossale del primo romanzo della letteratura occidentale. La guerra di Troia diviene, più modestamente, un periodo di "soggiorno coatto" nelle patrie galere, e si conclude con ripetuti tentativi di incendio (ma qui la situazione è ribaltata, in quanto gli assediati sono "i nostri", che usano il cavallo di Troia, un'automobile, per la fuga), mentre il decennale viaggio di ritorno si risolve in una "caccia al tesoro" che si rivela inutile, per giunta complicata da incidenti di percorso risibili, anni luce dalle tempeste prodotte dagli Dei e dagli amori di creature divine (le sirene sono tre ragazze affascinanti, disponibili e fin troppo scaltre per i rimbambiti protagonisti). Ma non sono solo le circostanze esterne ad essere sottoposte al vaglio critico, ma non spietato, degli autori: i personaggi non sono, come nel mito, "più grandi della vita", ma comunissimi "losers", nostri contemporanei in quanto a manie (religiose ed estetiche), fobie e insopprimibili speranze. Penelope, l'archetipo della fedeltà coniugale, pensa ad un nuovo matrimonio, l'indovino Tiresia è un vecchio cieco che dispensa profezie da un carrello ferroviario (forse un'allusione al punto di vista del regista o dell'operatore cinematografico, osservatore "esterno" ma partecipe), le anime dell'Ade attratte dalle offerte votive di Odisseo diventano una processione battesimale di fedeli canterini, gli uomini non si trasformano in maiali ma in rane, Polifemo vende bibbie e così via; una realtà terribile come quella della Depressione è riassunta dallo squallido balletto elettorale tra il "re della farina", industriale conservatore privo di idee, e il suo avversario, un demagogo apparentemente bonario che di idee per difendere la cultura americana ne ha parecchie, e non punto belle. I Coen, insomma, prendono a modello Joyce e l'Eliot della "Terra desolata", realizzando, sulla base di un mito letterario entrato nell'immaginario collettivo, un finto film d'epoca strutturato come un musical, in cui tutto (dai titoli di testa, alla scelta delle canzoni, alla recitazione) è insieme classico e parodistico, minuziosamente ricostruito e disinvoltamente ricreato. La miscela di umorismo, ritmo, incanto, dialoghi surreali e beffa è una formula collaudata, che qui però dà risultati meno brillanti che nel "Grande Lebowski" o nell'irraggiungibile "Fargo". È come se la ricchezza visiva e la bellezza formale avessero un po' soffocato la cattiveria, lo spirito cinico e il gusto paradossale da giallo kafkiano, risolvendo l'improbabile vicenda in un'apologia (dell'amicizia e dell'indipendenza intellettuale) incontestabile ma certo non originale e in fondo semplicistica, che perde per strada i personaggi e, nel finale, affoga nella melassa. In conclusione: un film superiore alla media generale, ma inferiore a quella dei "wonder brothers", che restano, nonostante l'edulcorazione, la coppia più geniale del cinema contemporaneo, tanto abile nella direzione degli attori da rendere Clooney quasi sopportabile, pur se non paragonabile al resto del cast, semplicemente perfetto.
Stefano Selleri
Il calderone americano alla corte dei Coen
Si legge nei titoli iniziali di questo film che quest'opera prende ispirazione dall'Odissea d'Omero, e sinceramente, alla fine del tutto, questo riferimento appare pienamente plausibile, in quanto "Fratello dove sei?" è veramente un film in cui accade di tutto, e del quale è veramente difficile parlare.
Le situazioni si susseguono, ma sembra che tutto sia inserito in un contesto che le ammortizza, e anche i momenti più assurdi appaiano soffusi, sbiaditi. Questo non significa che quest'opera non trasmetta emozioni, significa soltanto che è stato usato un tono veramente speciale, e che l'atmosfera che si crea è del tutto surreale e magica. La storia di questi tre evasi, è parecchio lineare, e inizia con la loro fuga e finisce con il loro trionfo, tutto in perfetto stile happy end, ma siamo di fronte a qualcosa di molto più grande. E' racchiusa in quest'opera la parabola spietata di tutto quello che è stato il sogno americano, in cui anche persone che non valevano niente potevano arrivare ad essere qualcuno, grazie soprattutto all'ignoranza di una società americana gretta, ingenua e con i paraocchi. Le vicende di questi uomini sono intrise di uno spirito americano, che va dal coraggio alla furbizia, dall'incoscienza alla follia, il tutto descritto con una sincerità che è soltanto lievemente mascherata dallo spirito leggero che l'opera vuole assumere. Gli incontri, con i vari personaggi che si susseguono senza sosta, è un campionario di quella società americana, che va dal chitarrista nero che ha venduto l'anima al diavolo, all'aguzzino razzista che li deruba dei loro soldi, alle ninfee che li ammaliano sul fiume, tutte metafore di un cammino spirituale, che più che colpire i personaggi del film, colpiscono lo spettatore.
Quest'opera è cosi piena di citazioni, di riferimenti, d'inquadrature che si rifanno ad un certo modo di pensare e di vedere il mondo, che probabilmente ad una sola visione risultano limitanti, ma nonostante questo, rimane indelebile la grandiosità di un film, che nasce, si sviluppa e muore, in maniera lenta, che lascia il tempo per riflettere e per gustare appieno quello che accade sullo schermo. I fratelli Coen, sono passati da un cinema in cui tutto era sarcasmo e pura evidenza, ad un cinema che solo apparentemente mostra tutto, e che lascia le cose fondamentali sullo sfondo, all'occhio attento di chi saprà carpirle. Se a tutto questo aggiungiamo un George Clooney letteralmente sterepitoso, un John Turturro che non deve dimostrare a nessuno la sua grandezza, ci rendiamo conto che siamo di fronte, finalmente, ad una grande opera, della quale permane il ricordo (indimenticabili alcune sequenze, in particolare quella dell'incisione del brano) che va ben oltre l'uscita dalla sala. Lunga vita a questi geniali fratelli, dunque, che nel corso degli anni hanno saputo rinnovarsi rimanendo sempre geniali, ma soprattutto loro stessi.
Matteo Catoni
L'Odissea dei Coen
Ulisse e' un galeotto che evade portando con se' i due uomini a cui e' incatenato. Per convincerli racconta loro di un mitico tesoro da recuperare e dividere, che alla fine si rivelera' solo un astuto espediente per arrivare in tempo per impedire il matrimonio della sua ex moglie. Inizia cosi' il nuovo film dei fratelli Coen (co-sceneggiatori, uno regista e l'altro produttore, come al solito) che sta raccogliendo ottime critiche da addetti ai lavori e cinefili.
Come si puo' intuire dal nome del protagonista (un George Clooney in piena forma sotto baffetti fin troppo alla Clarke Gable), la pellicola mette in scena una fantastica rivisitazione dell'Odissea catapultando i personaggi ai primi del secolo negli Stati Uniti.
Molti sono i paralleli, piu' o meno riconoscibili, tra questa storia e quella narrata da Omero (le sirene che incantano i viaggiatori, il ciclope che viene accecato, l'astuzia di Ulisse per uscire dalle situazioni spiacevoli, i politici-proci, la novella Penelope corteggiata da uno di loro), anche se le parti inventate per l'occasione prendono il sopravvento dando una ventata di novita' alla storia che, grazie anche all'ironia su cui si basa, rende accessibili a tutti queste antiche gesta.
Le numerose avventure che capitano al terzetto di eroi si susseguono, tuttavia, senza verve, o meglio, con quel particolare ritmo caratteristico dello stile dei Coen degli ultimi anni che non coinvolge, non crea tensioni o aspettative: il tempo scivola addosso ai personaggi e sopra le situazioni ammantandoli di una patina di normalita' che sbiadisce anche le battute piu' simpatiche.
Nonostante tutto quest'opera risulta piu' che gradevole soprattutto per l'ottima interpretazione degli attori, la buona regia, l'attenta fotografia, i colori giallastri che conferiscono al tutto un'aria da cartolina invecchiata in un cassetto.
Memorabile e' sicuramente la colonna sonora e il motivetto che rende quello degli evasi il gruppo piu' acclamato e "ricercato" del momento.
Giada Bernabei
Fuori sintonia
E' sempre interessante vedere un film in un cinema gremito di persone e confrontare le proprie reazioni con quelle del pubblico presente in sala. Nel caso specifico, a una maggioranza sonnecchiante si contrappone una minoranza fragorosa e partecipe. Con buona pace di Nanni Moretti, mi sono identificato pienamente con il torpore della maggioranza, incapace di aderire all'Odissea infarcita di rimandi colti ideata dai fratelli Coen: Joel, in regia, e Ethan, produttore e
co-sceneggiatore. Il poema omerico, trasferito nell'America rurale della Grande Depressione, e' pero' solo un pretesto per una scorribanda cinematografica e citazionista in cui il talento visivo degli acclamati fratelli, pur trovando modo di esprimersi, risulta soffocato da una sceneggiatura sgangherata e piena di tempi morti che non appassiona e non diverte (George Clooney si chiama Ulisse e sua moglie Holly Hunter e' invece Penny alias Penelope, "uh! che risate!!!"). Non bastano neanche la particolare cura fotografica che vira le immagini in un seppia d'altri tempi, e nemmeno l'interpretazione sopra le righe, ma convincente, degli interpreti per evitare la sensazione di una mancanza di sintonia con l'immaginario dei fratelli Coen, ricco, fantasioso, musicale, ma poco comunicativo. E il film non ammette mezze misure. O si e' dentro, e si partecipa al gioco, o si e' fuori, come nel mio caso, e ci si annoia a morte.
Luca Baroncini
(Ri)nascita di una Nazione, ovvero Fratello, dove sei?
I fratelli Coen ci regalano un altro piccolo grande film dove l'eclettismo della loro sceneggiatura e la magistrale regia di Joel danno vita un lavoro divertente ma che ha il raro pregio di far pensare pur essendo spensierato. Come se per un miracolo cinematografico la genialità umoristica dei Fratelli Marx si mettesse al servizio dell'ambizioso storicismo di D.W. Griffith, assistiamo a un anti-kolossal in cui il "melting pot" di generi più disparati non è stridente ma vive di un'armonia basata soprattutto su una colonna sonora (e portante) memorabile.
Fratello, dove sei? è infatti un film picaresco, storico (si svolge nel sud degli Stati Uniti agli inizi del Novecento), mitologico (si basa sull'Odissea), ed è soprattutto un grande musical.
Con grande ironia si fa un affresco suggestivo dell'America e del suo sogno infranto e, tra musica blues e gag irresistibili, assistiamo agli anni che rappresentarono una svolta nella sua storia: lo sviluppo urbano, il progresso dell'industria, dei mezzi di trasporto e di comunicazione di massa (con i primi esempi di politica spettacolo). I protagonisti sono tre evasi un po' spostati che, a forza di cantare insieme a carcerati di colore, cantano come neri pure avendo la pelle bianca. Il viaggio intrapreso dal trio non è solo una traversata nello spazio geografico ma anche in quello sociale e culturale, così il loro destino è in balia delle contraddizioni che hanno fatto dell'America il paese che è oggi: alla demagogia, al razzismo, alla cupidigia, e al moralismo fanno da contraltare il senso di libertà, di purezza e di modernità di un mondo dove tutto è ancora possibile. L'epopea dei Coen è un viaggio nel DNA di un paese, è un'esplorazione delle pieghe più nascoste del suo tessuto sociale. Attraverso il linguaggio del blues i tre decifrano le complessità di un territorio travolto dal progresso e, attraverso una sorta di percorso liturgico, svelano il volto delle due anime dell'America: quella dannata e quella redenta.
Il film si ispira apertamente all'Odissea di Omero ma l'Ulisse dei Coen (George Clooney) è un Nessuno molto moderno, un anti-eroe che non forgia il proprio destino ma è in balia dei rovesci della sorte. Il mitico ingegno di Odisseo viene traslato nella goffa intraprendenza di uno strampalato intrallazzatore che nel finale viene premiata dal potere corrotto di un astuto governatore. È un Ulisse che non resiste al canto delle sirene (una scena sensualissima) e si fa pestare da chi ha trovato ben poca resistenza nel prendere il suo posto accanto alla ben poco paziente "Penelope" della situazione.
Per ceri versi Fratello, dove sei? è la risposta è la risposta a quel polpettone edulcorato, e pluridecorato, di
Forrest Gump. All'amabile bugia secondo la quale se sei fesso, ma onesto, l'America di premia, i Coen rilanciano con un più realistico teorema secondo il quale non importa quanto sei fesso se sai fare fessi gli altri. Ciò non vuol dire che l'ironia è solo al servizio del cinismo più bieco, al contrario,
Fratello, dove sei? è, in assoluto, una delle più efficaci parabole cinematografiche contro il razzismo e la demagogia.
Massimo Innocenti
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