HANNIBAL
(Hannibal)

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REGIA:    
Ridley SCOTT

PRODUZIONE:  U.S.A.   -   2001   -   Thriller

DURATA:  128'

INTERPRETI:
Anthony Hopkins, Julianne Moore, Ray Liotta,
Giancarlo Giannini, Gary Oldman, Francesca Neri,
Frankie R. Faison, Enrico Lo Verso, David Andrews,
Ivano Marescotti, Fabrizio Gifuni

SCENEGGIATURA:
David Mamet - Steven Zaillian
(dall'omonimo romanzo di Thomas Harris)

FOTOGRAFIA:
John Mathieson

SCENOGRAFIA: 
Norris Spencer

MONTAGGIO: 
Pietro Scalia

COSTUMI: 
Janty Yates

MUSICHE: 
Hans Zimmer

Trama

Hannibal Lecter, evaso dal manicomio criminale, ripara a Firenze. A cercarlo, pero', non e' solo l'FBI ma anche Mason Verger che col mostro ha un conto da regolare.

Recensioni

 

 

 

Hannibal (o del denaro)

Forse bisognava svolgere azione di stravolgimento, rovesciare il senso del progetto, tentare un esperimento ardito. Ma c'erano troppi soldi in ballo, davvero troppi. Allora basta sognare, guardiamo la realta': il bello (o il brutto, fate voi) di Hannibal  e' che non poteva essere migliore di cosi'. Qualsiasi tentativo non avrebbe condotto a risultati piu' convincenti.Troppo pesante l'eredita' del predecessore, troppo vincolante il pregresso, troppo brutto il libro dal quale e' tratto il film. Inaccettabile l'iniziativa, prima ancora della pellicola, dunque. Inaccettabile pensare di scrivere un romanzo solo per dar seguito a un film di enorme successo tratto dall'opera precedente. Non me la prenderei quindi con Scott solo perche' ha avuto la debolezza di dire si' a un bel mucchio di quattrini, in fondo ha fatto il suo mestiere (la prostituta, che coerentemente al suo ruolo e' costretta anche a dire alla stampa: ho accettato perche' mi piacciono le sfide); anche De Laurentiis pensava ai dollaroni che poteva ricavarci (lui piu' di tutti) e non e' andato tanto per il sottile - gia' aveva ceduto i diritti de Il Silenzio degli Innocenti e si mordeva ancora le mani - : adesso toccava a lui mungere il cannibale, per quanto cio' che rimaneva nelle sue mammelle fosse acqua calda. Ma la scoperta dell'acqua calda ha il suo valore, i luoghi comuni non funzionano sempre, se la si puo' spacciare per qualcos'altro e se, mancando Demme e la Foster, si puo' contare su un Harris compiacente, sul Lecter originale e su un regista di nome (e il successo planetario de IL GLADIATORE e' divenuto, imprevedibilmente, un ulteriore punto a favore delle potenzialita' commerciali del film). Thomas Harris non lo ammettera' mai, ma Hannibal anziche' celebrare il riscatto del suo antieroe, la liberta' delle sue prodezze, ne sancisce il definitivo tramonto: il romanzo, ammorbante come pochi, non ha un briciolo della tensione dei due primi capitoli (Drago Rosso e Il Silenzio) e commette l'imperdonabile errore di svuotare il protagonista di tutto il suo perverso carisma.
David Mamet (quoque tu), chiamato a corte, fa quel che puo', scrive una sceneggiatura corretta (l'imperativo: sfrondare!), ritocca qui e la' (taglia il personaggio della sorella lesbica di Verger; glissa sulla pedofilia sfrenata del miliardario, riduce a comparsa Barney, il guardiano di colore), soprattutto cambia l'illeggibile finale (Hannibal e Clarice finalmente insieme a pasteggiare e amoreggiare - una perla ve la regalo: "Per Clarice Starling il loro rapporto ha molto a che fare con la penetrazione, che lei incoraggia e accoglie avidamente. Per Hannibal Lecter, invece, ha molto a che fare con il profondo coinvolgimento, che va ben oltre i confini della sua esperienza. E' possibile che  Clarice Starling riesca aspaventarlo. Il sesso e' una splendida struttura che loro arricchiscono giorno dopo giorno"- ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere), con  la bella idea del "manus tua vita mea" che, nella sequela di scene d'azione meccaniche e barbosissime, da film poliziesco di quart'ordine, e' davvero l'unico brivido che regala l'opera(zione), anche se dura solo mezzo secondo. La tanto contestata scena del cervello fritto e' invece splendida metafora di quello del pubblico che va in pappa, lobotomizzato anch'esso di fronte a cotanta (tele)visionarieta'; la salverei dunque, credendo (/sperando) che Scott stesso si rendesse conto della splatterita' del tutto e che, contento, ci giocasse.
Hopkins, piu' vicino al maggiordomo di Quel che resta del Giorno che allo psichiatra mostro, appare patetica, sciatta figurina. La Moore "fostereggia" come puo'e dimentica di essere l'ultima vera icona americana sulla quale contavamo. Resta Giannini, l'unico a dare un po' di carattere a un personaggino perfetto per lo stanco sceneggiato da prima serata su Canale 5 (la parte italiana del film). Oddio, a ben guardare anche Scott ha i suoi torti, si perde in effettacci, predilige un montaggio sincopato a tratti, fa un uso smodato di immagini strascicate e videoclippare piuttosto grossolane. Certo, dietro la maschera elephantmaniana di Verger si cela Gary Oldman, mica uno qualsiasi, e un piccolo sussulto di piacere ammettiamo di averlo provato, ma nulla in confronto a quello che avremmo avuto se si fosse scelto di lavorare maggiormente sulla depravazione di quel personaggio, di gran lunga il piu' interessante della novella. Eppure, lo ripeto, difficile fare meglio: in un cinema tutto di storia se e' quella a latitare e' arduo rinvenire senso e qualita'.

Luca Pacilio


Il gusto del nuovo

Chiariamo subito un punto: nessuno si aspetti di vedere Il silenzio degli innocenti 2. Fin dalle primissime battute ci accorgiamo che il clima emotivo è profondamente diverso da quello del film di Jonathan Demme: Scott ha capito che non avrebbe senso ricercare un'unità stilistica dove non c'è identità di contenuto, e di questo, dopo un decennio di mortificanti imitazioni delle atmosfere del Silenzio, non possiamo che essergli grati. 
Hannibal non è un thriller della psiche, una "caccia al mostro" strutturata come una lotta interiore per superare i traumi infantili. Lo psichiatra ora è libero, e solo momentaneamente in pausa: basterà poco a farlo tornare in servizio. Le immagini si succedono febbrili, il racconto procede a rotta di collo, alla stessa velocità con cui Lecter dilaga indisturbato per il mondo: lasciata la minuscola cella del carcere di Baltimora, il buon dottore è ovunque (a Firenze, ove risiede quale raffinato esperto di arte e letteratura medievale, a Washington, nella mente di Clarice, che pensa a lui "ogni giorno per trenta secondi", negli archivi federali, nel desiderio di vendetta di Mason Verger, unica vittima sopravvissuta al suo furore, nell'ossessione prezzolata dell'ispettore Pazzi) e insieme in nessun posto (vive in incognito, e, una volta scoperto, sparisce senza lasciare tracce). 
Un soggetto, quindi, meravigliosamente cinematografico: e Ridley Scott ci dà dentro da par suo, incrementando il numero degli angoli di ripresa, moltiplicando i punti di vista, deformando le prospettive, giocando con la luce e le sgranature, sfoggiando un gusto e una voglia di sperimentare che, bisogna ammetterlo, hanno pochi termini di paragone, nel meschino panorama cinematografico contemporaneo. La stessa enfasi barocca, quasi teatrale, si avverte nella fusione dei generi cinematografici: Hannibal parte come un poliziesco, vira al thriller con humour, prosegue come uno splatter venato di commedia, termina con toni da melò stranamente pacificato, si spegne abbozzando un autoironico quanto improbabile sequel. 
Il cannibalismo, l'inesausta passione di nuovi stimoli intellettuali, è la cifra peculiare non solo della storia ma della rappresentazione stessa: la vena citazionista degli autori non conosce freni o pudori, spazia dalle raffigurazioni medievali al pulp, dal teatro "alto" (l'opera su versi di Dante) al telefilm (la sequenza dopo i titoli di testa), dalla tradizione cristiana (la crocifissione di Hannibal) all'universo gore del giovane Shakespeare (la cena finale, che allude maliziosamente al "Titus" della Taymor, interpretato proprio da Sir Hopkins). 
Ma il film, pur incentrato essenzialmente su Hannibal, è anche una coraggiosa rilettura del rapporto tra il cannibale e l'agente Starling: non più, per dirla con D'Annunzio, un semplice "vergiliato psichiatrico" (anche se l'immagine dell'agnello fa ancora capolino), ma una relazione passionale, erotica, a tratti sadomasochistica (si veda l'ultima scena nella casa sul lago), costruita come un progressivo avvicinamento, un contatto man mano sempre meno evitabile e sempre più ricercato, la cui (momentanea?) conclusione è scandita da un'immagine (i fuochi artificiali) estremamente allusiva.
Insomma, se ci fosse stata una vera sceneggiatura, anziché un supponente canovaccio denso di incongruenze, buchi e battutine da due soldi, Hannibal sarebbe stato un tentativo, interessante e a tratti geniale, di rileggere con piglio iconoclasta un personaggio e un genere cinematografico ormai imbalsamati nel loro mito. Ma il cannibale non perdona: l'impeto devastante del personaggio ha finito per divorare il film, rendendolo un banchetto pantagruelico ma disordinato (chiediamo scusa per la metafora…).
L'inverosimiglianza dell'intreccio e dei dialoghi scoraggia buona parte del cast: Ray Liotta è decisamente monocorde nel ruolo del "vero" cattivo, Gary Oldman si limita a farsi ricoprire di silicone per interpretare lo psicopatico vendicativo. Julianne Moore, alle prese con il ricordo della Foster, è come al solito impeccabile, lucida e determinata come un'agente FBI deve essere, ambigua e "carnale" quanto basta per non scomparire al cospetto di Sir Hopkins, che, oltre al noto carisma interpretativo, sfoggia un piglio dionisiaco perversamente affascinante: assolutamente irresistibile. Una lode particolare per Giancarlo Giannini, che con la sua prova nevrotica ed elegantissima rischia di offuscare il primato del mattatore inglese. Buoni i comprimari, tra cui i "nostri" Marescotti e Gifuni, tutto sommato tollerabile (anche grazie all'esiguità della parte) Francesca Neri.
Musica pompieristica di Hans Zimmer.

Stefano Selleri


Più Spettacolo che Angoscia

E' il 1986 e un serial-killer sta per entrare nell'immaginario collettivo per non uscirne piu'. Solo che e' troppo presto, il pubblico ha bisogno di un impatto piu' spettacolare, Brian Cox non e' carismatico come Anthony Hopkins e la distribuzione non crede pienamente nel progetto. Cosi' il bello e visionario "Manhunter frammenti di un omicidio" di Michael Mann, passa come una meteora e non lascia postumi, se non nei pochi che lo hanno visto. La vera consacrazione arriva dopo qualche anno con Hannibal Lecter protagonista assoluto de "Il silenzio degli innocenti". Tra i tanti pregi del film, colpisce la sottile morbosita' con cui lo spettatore si ritrova inconsciamente a parteggiare per lo spietato serial-killer, cannibale feroce ma anche abile manipolatore, capace di scavare in profondita' negli irrisolti meandri psicologici del suo interlocutore. E' il trionfo, e la matrice comune dei romanzi di Thomas Harris porta lo scrittore alla scelta quasi obbligata (se non altro per le sue tasche) di un ulteriore seguito, fatto su misura per la star Anthony Hopkins. Ecco cosi' giungere sugli schermi, dopo il discusso successo editoriale e la dettagliata cronaca delle diverse fasi della lavorazione del film, il tanto atteso "Hannibal". Difficile essere obiettivi con cosi' tante aspettative, ma tentando di mantenere un candore di visione privo di pregiudizi (missione quasi impossibile), bisogna riconoscere che il film funziona. Nuocciono i paragoni con i due lungometraggi che lo hanno preceduto perche' le intenzioni sembrano puntare, pur mantenendo la tensione psicologica tra i protagonisti, soprattutto su un grande spettacolo. E Ridley Scott riesce ad imprimere un taglio personale che, se non conquista, riesce comunque ad avvincere. L'incedere notturno di Hopkins/Hannibal in una Firenze caotica, ricorda molto da vicino il vagare di Harrison Ford nella Los Angeles del 2019. Anthony Hopkins mantiene carisma e fascino (anche se a piedi nudi in versione dandy casalinga rischia un po' il ridicolo), ma e' Hannibal ad essere meno affascinante e il predominare del lato sentimentale su quello viscerale lo rende meno imprevedibile e spaventoso. In fondo alla fine diventa una sorta di supereroe romantico che libera il mondo, a modo suo, da chi lo inquina. Julianne Moore sostituisce egregiamente Jodie Foster, anche se appare meno vulnerabile. Bravo Giancarlo Giannini, protagonista della parte fiorentina e ben strutturata la sceneggiatura, capace di rendere fluidi la visione e il collegamento degli eventi. Sulla paura ancestrale delle pulsioni, ha pero' la meglio il ribrezzo, e la fascinazione del male non diventa mai protagonista. Cio' che viene mostrato toglie ambiguita' e impedisce al film di lavorarti dentro e di porre domande. In fondo Ridley Scott si conferma un bravo regista di intrattenimento e mantiene una tensione capace di coinvolgere per il tempo della visione, ma non lascia spazio a strascichi emotivi. Puo' sembrare poco ma, come gia' detto, cio' che nuoce e' il confronto con il diverso spessore dei due film che lo hanno preceduto. Non dimenticando di considerare che, probabilmente, era diverso anche il taglio dei due romanzi da cui traevano origine.

Luca Baroncini

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