Recensioni
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Sguardi al di là del fumo
Quest'amore è una specie di mostro, bello, bellissimo ma mostruoso per la sua tragica ironia di scherzo del destino, due persone che si attraggono e sarà il tradimento, la sofferenza per l'amore perduto ad avvicinarli. E poi tragedia di un amore che non avrebbe dovuto essere ma che invece è stato, solo che nessuno se lo aspettava e sovverte, rompe, ferisce, allontana, sgretola, porta via. Immaginate tutto questo rivissuto, rivisto da dietro un vetro polveroso, come racconta una voce fuori campo alla fine di tutto.
Una serie di sguardi brevi, rapidi e contorti, filtrati, distorti, rotti e poi ricomposti da tanti riflessi che li riconducono a noi spezzati, malconci, fugaci e bellissimi, finti come deve essere il cinema, meravigliosamente plastici, scolpiti sulla pellicola come deve essere il grande cinema., una serie di glaciali fotografie che si agitano, rallentano, scompaiono e ricompaiono in un altro momento, sotto una luce diversa, o sotto la pioggia. E se qualcuno dovesse ancora, per caso, tirare il ballo una certa estetica da videoclip nei confronti di Wong Kar
Wai, dimostrerà soltanto di non aver capito proprio nulla dell'essenza di questo meraviglioso strumento di riproduzione dell'immagine che è il cinema. Per fortuna ogni tanto arriva qualcuno, un
Kar-Wai, un Michael Mann, un Sokurov, a ricordarci fin dove il cinema può spingersi.
Allora vetri polverosi, specchi, Kar Wai reinquadra tutto, pone una serie di ostacoli allo sguardo frammentandolo all'interno di inquadrature che rimbalzano da uno specchio all'altro, che incastrano volti e corpi, a volte brandelli di corpi, oggetti all'interno di figure plastiche che decostruiscono spazi e tempi filmici fino alla dispersione, in un continuo e infinito spostarsi di ogni punto di riferimento, muovendosi dentro spazi angusti, riesplorati ogni volta dietro l'opacità di un ricordo doloroso, attraverso lo smuoversi lento di due corpi incastrati nell'incertezza di una situazione delicata e fragile, a tratti ostile, pericolosa.
Incontri fugaci, come amanti colpevoli, per le strade piovose di una Hong Kong fragile e politicamente inquieta, senza che mai la luce del sole appaia a rischiarare, sempre soffocati da muri, corridoi, stanze, scale, uffici, notti, fumo che scorre lento e disperato, come il corpo sinuoso di Maggie Cheung che sfila e rallenta, sottolineato da musiche splendide, magari riuscendo a ricreare quel momento di epica austerità che tanti kolossal hollywoodiani ricercano ossessivamente cadendo immancabilmente nel ridicolo.
Un melodramma terribilmente scarno, costruito intorno a due personaggi drammaticamente condannati all'isolamento, alla perdita, che si incontrano solo nel momento in cui si manifesta l'assenza dei propri compagni, presenze invisibili e nascoste ma pur sempre forze motrici dell'azione. Due personaggi che si inseguono e si respingono impauriti, che non si scoprono mai davvero del tutto, giungendo a una separazione inevitabile che culminerà nell'unica sequenza girata in esterni, nella quale Tony Leung, ormai solo e lontano in un monastero della Cambogia, confida i suoi segreti a un albero secolare, rinchiusi dentro a un buco che forse li soffocherà ma che li conserverà davvero per sempre. La separazione sembra provvisoria, intaccata dagli ultimi timidi e disperati tentativi di rovesciare il destino, tentativi fatti di tracce di rossetto, telefonate mute, incontri mancati, indizi incerti e una porta chiusa che rimarrà tale.
Tony Leung (miglior attore allo scorso Festival di Cannes) e Maggie Cheung sono strepitosi, bellissimi e glaciali. I lineamenti austeri di Leung sono perennemente offuscati dal fumo delle tante sigarette mentre i magnifici vestiti di Maggie Cheung oltre a fasciarne il corpo meraviglioso sembrano scandire i tempi del racconto più dell'orologio che viene inquadrato di tanto in tanto: quando il vestito cambia da un'inquadratura all'altra ci accorgiamo che forse (forse) è passato un altro giorno.
La colonna sonora è straniante e vive di motivi ricorrenti fascinosissimi. Per quanto riguarda la fotografia diretta da Cristopher Doyle e Mark Li Ping Bing temo non ci siano parole appropriate per descriverla. Il talento visivo di Kar
Wai sembra oggi paragonabile soltanto a quello di Sokurov, mentre la sua abilità registica sembra quasi inarrivabile.
Una sequenza: Li-zhen interroga un uomo di spalle sul suo presunto tradimento. Lui dopo qualche esitazione ammette e lei lo colpisce, piano. La macchina da presa svela l'identità dell'uomo, non può essere che Chow, è soltanto una prova in attesa del confronto con i coniugi "veri". Riprovano la stessa scena da capo, ancora una volta, fino a che Li-zhen piange, si spaventa, nel momento in cui la finzione rischia di assumere i contorni tragici della realtà. Chow interviene per consolarla: <Non è niente, ricordati che stiamo solo fingendo>. Ecco, il cinema.
Stefano Trinchero
I silenzi dell'amore
Difficile parlare di "IN THE MOOD FOR LOVE", tutto costruito sui gesti, sui silenzi, su un non-detto esplicativo piu' di mille parole, sull'intensita' degli sguardi e la pregnanza dei dettagli, su atmosfere sospese e significative. Tentare di descrivere l'operazione che il regista riesce a compiere in questo film significa, in qualche modo, limitarla, sminuirla, intaccarla. La rappresentazione del sentimento purissimo che vivono i due protagonisti, dell'incontro delle loro anime, viene solo suggerita, si manifesta con cio' che s'intuisce esservi fuori dall'inquadratura, si nutre di minuziose analisi di particolari, di rinvii, ritorni di discorsi e comportamenti. E' un equilibrio delicatissimo quello su cui si regge la meravigliosa tessitura dell'opera, raffinata escursione nei meccanismi dell'amore e della perdita. Difficile parlare di un film come questo, gioiello lucente che non va appannato con il fiato ma goduto ad occhi aperti e cuore spalancato, conservato nello scrigno della nostra memoria cinematografica. Kar Wai, in stato di grazia ineffabile, affida ad immagini portentose le emozioni dei protagonisti, fa un uso superbo delle dissolvenze, dei ralenti, della struggente musica di Galasso, dei corpi degli attori, infilando una serie di quadri di valore inestimabile: spazi incorniciati, colori saturati, le volute di fumo di una sigaretta, figure intravviste nella smerigliatura di un vetro. Ci tocca dentro e ci fa credere che anche questa e' una stagione al cinema che non passa invano. Difficile parlare di un film come questo. Una volta tanto lo si guardi e basta: chi non lo amera' da subito esca dalla sala o taccia per sempre.
Luca Pacilio
In the mood for what?
In the mood for love, ovvero come infrangere la prima regola dell'intrattenimento: non fare agli spettatori ciò che fai ai tuoi personaggi. Nel cinema si può nascondere agli spettatori ma non ai personaggi o, al contrario si può mostrare agli spettatori ciò che i personaggi ignorano. Il film di Wan Kar Wai nasconde tutto a tutti. È una grande promessa continuamente rinviata e puntualmente mancata.
In the mood for love ha il pregio di porre subito in chiaro quali sono i suoi obiettivi e il difetto di mancarli tutti. L'ambizioso progetto di entrare nelle pieghe di una relazione non consumata, di una passione frenata, di un amore solo alluso ed infine deluso, finisce per affliggere il film stesso. L'opera del regista di Hong Kong vuole essere così evocativa che essa stessa è si riduce a un'evocazione di se stessa. Si ha l'impressione di vedere un video musicale di una canzone romantica, un trailer su un film d'amore le cui parti più coinvolgenti sono riservate a chi va al cinema. E il film dov'è? Non c'è. Si è perso nei meandri dei virtuosismi di un regista che sembra aver dimenticato il suo dono più grande: la capacità di emozionare con i piccoli momenti e con i dettagli della follia quotidiana. L'idea sofisticatissima di tracciare i lievi contorni dei sentimenti, i limiti che circondano una passione virtuale e gli spazi tra due (non)amanti, naufraga in un opera che muore la stessa morte dei propri protagonisti: del film ci sono solo i contorni e le atmosfere insomma l'evocato ma non l'evocante.
La consapevolezza che Wong sia un gran maestro suscitare emozioni attraverso il "non detto", la musica e l'atmosfera (vedi
Fallen Angels e Happy Together) è un'ulteriore aggravante. A differenza delle sue opere precedenti, ammiccanti, patinate, furbe ma indubbiamente poetiche ed emozionanti,
In the mood for love rimane sterile e conserva solo gli attributi superficiali, come la colonna sonora accattivante, le immagini al rallentatore, i primi piani suggestivi e un certo intimismo nella sceneggiatura. In breve, il film è, come sempre per
Wong, un prodotto dalla raffinatissima confezione, ma suscita un dubbio angosciante: stiamo parlando di un piccolo artigiano che gioca a fare il grande poeta? Oppure, come ho sempre creduto (e sperato), di un grande artigiano con le geniali doti di un piccolo poeta?
Massimo Innocenti
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