KIPPUR
(Kippur)

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REGIA:    
Amos GITAI

PRODUZIONE:  Isr/Fra/Ita  -  2000  -  Dramm.

DURATA:  123'

INTERPRETI:
Liron Levo, Tomer Ruso, Uri Ran Klauzner,
Yoram Hattab, Ran Kauchinsky, Juliano Merr,
Guy Amir, Koby Livne, Liat Glick Levo

SCENEGGIATURA:
Amos Gitai - Marie-José Sanselme

FOTOGRAFIA: Renato Berta

SCENOGRAFIA: Miguel Markin

MONTAGGIO: Monica Coleman

COSTUMI: Laura Dinulesco

MUSICHE: Jan Garbarek

Trama

1973. In Israele si celebra la festa di Kippur e le armate siriane ne approfittano per sferrare un attacco a sorpresa. I soldati israeliani accusano il colpo e cercano di riguadagnare posizione. Il film, rifacendosi alla reale vicenda biografica del regista, che partecipo' al conflitto, segue le vicende di una missione di soccorso che raccoglie e cura i feriti nei campi di battaglia.

Recensioni

 

 

 

La Guerra, semplicemente

Una macchia di colore, un'altra, un'altra ancora. Dita mischiano tinte, altre dita, un'altra mano, un braccio, un corpo, due corpi cosparsi di pittura multicolore fanno l'amore in un letto impregnato. Frammento allo stesso tempo astratto e reale, il lungo spezzone dell'amplesso funge da cornice che, coerentemente, a mo' di parentesi, si riproporra' nel finale. Non solo: costituisce a suo modo, per l'impatto visivo, lo stile quasi godardiano, un intelligente riferimento agli anni 70, epoca nella quale il film e' ambientato. L'uomo di li' a poco sara' costretto a partire: la guerra e' ricominciata all'improvviso. Il suo percorso e' quello del film: la disperante constatazione delle conseguenze della guerra, rullo compressore che lascia dietro se' uomini urlanti, sangue rappreso, polvere, corpi orrendamente mutilati, orrore, paura. Gitai non propone intreccio, segue la squadra di soccorso nelle sue missioni, consegna al pubblico il suo personale documento: agghiacciante, mai concessivo, privo di effettismi. Come gia' in KADOSH il regista, saggiamente, non punta il dito (l'abominio bellico non ha patria, e' di tutti), scivola sugli avvenimenti, rende atmosfere e sofferenze con vibrante sincerita'. Il film evita lo scavo dei personaggi, li suggerisce, affida la definizione delle loro figure a brevi, intensi dialoghi, ad azioni che sottendono caratteri, timori, pulsioni. Messi definitivamente al bando i pesanti simbolismi che avevano offuscato gli esiti di un passato non remoto, tornato ormai ad uno stile asciutto e dolente, Gitai lascia fluire le immagini, predilige, con oculatezza e misura, lunghe riprese geometriche prive di stacchi, non rievoca i combattimenti ma getta lo sguardo sui desolati campi in cui la battaglia si e' spenta e gli effetti della cui ferocia languono in pozze di sangue e fango. Di fronte a immagini di questa potenza e sobrieta' ancora piu' ipocrite, calcolate e insensatamente spettacolari ci sembrano alcune recenti operazioni fintamente eversive e "altre", ma in realta' solo hollywoodianamente corrette (Spielberg in primis). Straziante il piano sequenza della squadra che cerca di trasportare un ferito in un acquitrino: il pantano rende gli sforzi vani, il ferito casca piu' volte, i soccorritori estenuati le tentano tutte, uno di loro e' preso da una crisi isterica, disperazione e rabbia sembrano prevalere; scena semplice, magistrale, dilaniante. Alla fine l'uomo ritornera' a casa, sopravvissuto per miracolo a un'esplosione che ha devastato l'elicottero della squadra, riabbraccera' la sua donna, di nuovo la avvinghiera' in un letto spalmato di vernici. Dopo il grigio della guerra riuscira' a riassaporare ancora i colori brillanti dell'amore.

LuC@ Pacilio

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