LAVAGNE
(Takhté Siah)

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REGIA:    
Shamira MAKHMALBAF

PRODUZIONE: Iran   -   1999   -   Drammatico

DURATA:  93'

INTERPRETI:
Said Said Mohamadi, Reeboir Bahman Ghodadi,
Halaleh Behnaz Jafari, Rafat Moradi

SCENEGGIATURA:
Mohsen Makhmalbaf - Shamira Makhmalbaf

FOTOGRAFIA:
Ebrahim Ghafori

MONTAGGIO: 
Mohsen Makhmalbaf

MUSICHE: 
Mohamad Reza Daryishi

Trama

Nel Kurdistan iraniano un gruppo di maestri armati di lavagne sulle spalle è alla ricerca di alunni per sbarcare il lunario. Uno di loro, Reeboir, va per monti dove si unisce ad un gruppo di ragazzini che, a rischio della vita, cercano di contrabbandare pesanti pacchi attraverso il confine iraqeno. Un altro, Said, si dirige verso la città dove si offre di guidare un gruppo di profughi curdi alla ricerca del loro villaggio distrutto dalle bombe.

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La forza dei simboli

Dopo il finissimo sorprendente film d'esordio "La Mela", Shamira Makhmalbaf allarga i propri orizzonti culturali e geografici nella sua rapida maturazione, proponendo un'opera ambiziosa e a più livelli di lettura con quelli che si dimostrano ormai tratti caratteristici di una personalità autonoma come individuo e come artista, pur raccogliendo in eredità le peculiarità dei maestri della precedente generazione. Uno stile asciutto, quasi astratto nel tentativo di rappresentare l'essenziale, con l'ausilio della m.d.p. a mano per rendere ancora più "documentario" le storie raccontate; sprazzi di lirismo e di poesia sempre funzionali al rigore realistico della rappresentazione, più misurati e meno pindarici rispetto al padre, dal quale eredita il sistematico utilizzo di pochi efficacissimi simboli, facilmente leggibili ma potenti e suggestivi. Una visione del mondo (del suo mondo) pessimista e disillusa, a dispetto di un'età prodiga di illusioni.
E' sufficiente la prima sequenza del film ad illuminarci al riguardo: un gruppo di insegnanti si inerpicano sulle assolate e impervie montagne del Kurdistan con delle enormi lavagne sulla schiena. Arrivati in cima ad una di queste, rimangono impietriti alcuni secondi terrorizzati da qualcosa che inizialmente è fuori campo: degli elicotteri che si avvicinano minacciosi e che faranno fuoco sul gruppo che si mette in fuga. Gli insegnanti, forse ispirandosi alla storia romana, formano una "testuggine" con le loro lavagne per proteggersi dalla pioggia di colpi. Una delle scene più intense e complesse che si siano viste negli ultimi tempi. Due simboli vengono qui introdotti e sviluppati lungo tutta la pellicola. Il più evidente è il mito di Sisifo, non solo sottinteso dalle lavagne degli insegnanti. Se questa metafora è palese e ostentata nella sua accezione più immediata di "generica pesantezza dell'esistenza" pur nella sua genialità figurativa, le sue varianti e le possibili interpretazioni sono molteplici e mai banali: dalla cultura che, nel momento in cui sembra fare breccia in qualche individuo, torna inutile perché quell'individuo non c'è più, è morto (e la cultura non è servita a salvarlo: terribile l'epilogo di una delle due storie); a un gruppo di bambini costretti a portare senza tregua pesanti fardelli da contrabbandare al di là del confine, perennemente inseguiti dai militari (il tema dell'infanzia violata si rivela sempre più centrale nella poetica dell'autrice); la zavorra di un figlioletto o di un padre, non autosufficienti, da trascinarsi dietro in condizioni disperate; il peso di ricominciare a ricostruire la propria città distrutta dalle bombe, con l'incubo di una nuova distruzione, una nuova fuga, un nuovo nostos.
L'altro simbolo è sempre rappresentato dalla lavagna, non più come masso o fardello, ma strumento che perde la propria funzione "fisiologicamente" didattica e teorica, per trasformarsi grottescamente, con un processo che genera un'irrefrenabile comicità (seppur a denti stretti), in un oggetto di rara efficacia contingente: riparo contro i proiettili, cancelletto per una casa, barella, addirittura un pegno di matrimonio, insomma la constatazione amara che la cultura, adesso, proprio non può servire a questa gente.
Tuttavia una simbologia così potente non è sempre supportata a sufficienza da una narrazione vivace e coinvolgente (se non, di riflesso, per le problematiche): in pratica non sono le metafore che arricchiscono la storia ma piuttosto questa ad aggrapparsi ai simboli. Non è certo un problema di scrittura di poco conto, tanto più che anche i dialoghi sono spesso trascurati e talvolta fastidiosamente tautologici e inutili. La prevalente tonalità da commedia, utilizzata per "alleggerire" la drammaticità delle situazioni, avrebbe avuto bisogno di ben altro brio per movimentare la staticità dell'"on the road", mentre invece poche idee brillanti si fanno strada in una generale piattezza di varianti: la scena più riuscita è sicuramente quella in cui Said si chiude nella baracca di sua moglie e, dopo qualche secondo di impallamento in cui immaginiamo dal tenore del dialogo che l'uomo voglia espletare le sue funzioni coniugali, lo vediamo nel tentativo vano di convincere la riottosa moglie... a imparare le operazioni.
Comunque, a modesto parere di chi scrive, i pur rilevanti difetti di "Lavagne" passano in secondo piano davanti alla potenza simbolica di certe sequenze, alla forza emotiva di alcune scene, ad inquadrature che posseggono le geometrie e gli equilibri di un grande pittore. 
La piccola Makhmalbaf già è cosciente che il suo piccolo imperfetto film non smuoverà di una virgola lo status quo del suo paese (ce lo ha fatto capire con il fallimento dei due maestri), ma contribuirà a rendere meno lungo, agli occhi di noi occidentali, quel fuori-campo iniziale in cui vengono inizialmente nascosti gli elicotteri "infernali" dispensatori di pena, in quell'Ade che oggi si chiama Kurdistan.

Daniele Bellucci

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Daniele
Bellucci
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Luca
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