Recensioni
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I nostri padri mangeranno merda
Qui
è sempre la stessa storia, la storia di un sole che tutti i venerdì,
fedelissimo e immancabile ingiallisce le acque del fiume, illumina poco (e
magnificamente) un pontile, una barca, un colonnello, un postino. E poi la
pioggia, l’umidità che corrode e consuma uomini e cose, come
l’ombrello reso inutilizzabile, da non aprirsi nemmeno in caso di
necessità, pena la vergogna per la pubblica ammissione di povertà. La
povertà e la miseria sono, forse paradossalmente, la più rabbiosa
negazione del capitalismo, ovvero dell’ossessione del possesso che ne è
l’istanza suprema.
Il colonnello e sua moglie (“la spagnola”, interpretata dalla
splendida Marisa Paredes) attendono, e nell’attesa vivono con poco,
rischiando di giorno in giorno di vivere con nulla. Una casupola in attesa
di esproprio (l’ipoteca, lo strozzinaggio delle banche, armi nuove per
colonizzatori nuovi in procinto di conquistare, comprare, tutte le terre
del paese), un urinale rotto, un orologio rotto (il tempo è finito, un
tempo che non è più scandito dai secondi e dai minuti, ma dalle
settimane, di venerdì in venerdì, “oggi è venerdì, è il tuo
giorno” recita puntualmente la moglie al colonnello che, riaccesa la
speranza, finisce ogni volta col farsi umiliare). E un gallo. Un gallo da
combattimento, a quanto pare l’ultimo guerriero ancora in attività di
una famiglia che ha ormai smesso le armature, dopo anni di lotte, guerre,
risse, rivoluzioni, scontri tra sindacato e polizia e una coltellata nel
ventre dell’unico figlio, l’ultimo erede (“il mio sangue è
morto”).
Il colonnello
appare per la prima volta seminudo, al risveglio, e il film procede in uno
spogliarsi ulteriore, continuo, lento eppure costante: gli oggetti che si
perdono a poco a poco, le ultime “cose” rimaste, vendute per
sopravvivere ogni giorno, le cose che hanno resistito a un quarto di
secolo di stenti ora rischiano di scomparire. Ripstein si sofferma
tragicamente su ognuna di esse, quasi volesse filmarne la lenta agonia, o
meglio l’agonia tutta interiore di chi deve separarsene dopo anni di
convivenza.
L’audacia tecnica di Ripstein emerge invece intorno ai corpi dei due
protagonisti, all’interno delle mura cascanti della loro casa. La
macchina da presa sembra procedere stancamente (eppure inesorabile) a
legare i corpi dei consorti, seguendoli e poi aggirandoli, catturandoli
senza mai schiacciarli, saldandone il legame cogliendo a volte il riflesso
dell’uno accanto alla presenza fisica dell’altro, attraverso piani
sequenza sinuosi e avvolgenti che finiscono con lo sfiorare specchi
consunti dal tempo e dall’umidità. E quando l’assenza si manifesta in
tutta la sua crudeltà si giunge alla sequenza più struggente: “la
spagnola” esce per andare al cinema e la macchina da presa ruota intorno
al colonnello seduto al tavolo fino a fermarsi inquadrandolo solo, accanto
alla sedia vuota e fiocamente illuminata: “non credevo che mi amassi così
tanto”.
Il film si interrompe poco dopo il momento in cui la vicenda ha raggiunto
la massima vicinanza con il punto di rottura che, ovvio, non ci sarà.
Nulla è cambiato da ventisette anni a questa parte, se non che certe cose
sono andate perdute nel corso del tempo e perduta ogni cosa (perduta o
rifiutata) per vivere non resta che mangiare merda, perché di dignità e
rigore morale, al limite, si muore.
Stefano
Trinchero
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