NESSUNO SCRIVE AL COLONNELLO
(El Coronel no tiene quien le escriba)

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REGIA:    
Arturo RIPSTEIN

PRODUZIONE: Fra/Mex/Spa  -  1999  -  Dramm.

DURATA:  122'

INTERPRETI:
Fernando Lujan, Marisa Paredes, Salma Hayek,
Esteban Soberanes, Patricia Reyes Spindola,
Rafael Inclan, Daniel Gimenez Cacho, 
Ernesto Yanez, Odiseo Bichir, Julian Pastor

SCENEGGIATURA: Paz Alicia Garciadiego
(dall'omonimo romanzo di G. Garcia Marquez)

FOTOGRAFIA: Guillermo Granillo

SCENOGRAFIA: Antonio Muno-Hierro

MONTAGGIO: Fernando Pardo

COSTUMI: Guadalupe Sanchez

MUSICHE: David Mansfield

Trama

Vecchio colonnello attende da ventisette anni che gli venga pagata la pensione che gli spetta per legge. Ogni venerdì si reca in posta fiducioso per non vedersi puntualmente recapitare alcunchè. La vita nell'attesa prosegue tra gli stenti, la malattia e i tentativi di conservare la propria dignità, sperando che il gallo da combattimento del figlio morto possa fruttare il denaro necessario per campare.

Recensioni

 

 

 

I nostri padri mangeranno merda

Qui è sempre la stessa storia, la storia di un sole che tutti i venerdì, fedelissimo e immancabile ingiallisce le acque del fiume, illumina poco (e magnificamente) un pontile, una barca, un colonnello, un postino. E poi la pioggia, l’umidità che corrode e consuma uomini e cose, come l’ombrello reso inutilizzabile, da non aprirsi nemmeno in caso di necessità, pena la vergogna per la pubblica ammissione di povertà. La povertà e la miseria sono, forse paradossalmente, la più rabbiosa negazione del capitalismo, ovvero dell’ossessione del possesso che ne è l’istanza suprema.
Il colonnello e sua moglie (“la spagnola”, interpretata dalla splendida Marisa Paredes) attendono, e nell’attesa vivono con poco, rischiando di giorno in giorno di vivere con nulla. Una casupola in attesa di esproprio (l’ipoteca, lo strozzinaggio delle banche, armi nuove per colonizzatori nuovi in procinto di conquistare, comprare, tutte le terre del paese), un urinale rotto, un orologio rotto (il tempo è finito, un tempo che non è più scandito dai secondi e dai minuti, ma dalle settimane, di venerdì in venerdì, “oggi è venerdì, è il tuo giorno” recita puntualmente la moglie al colonnello che, riaccesa la speranza, finisce ogni volta col farsi umiliare). E un gallo. Un gallo da combattimento, a quanto pare l’ultimo guerriero ancora in attività di una famiglia che ha ormai smesso le armature, dopo anni di lotte, guerre, risse, rivoluzioni, scontri tra sindacato e polizia e una coltellata nel ventre dell’unico figlio, l’ultimo erede (“il mio sangue è morto”).
 
Il colonnello appare per la prima volta seminudo, al risveglio, e il film procede in uno spogliarsi ulteriore, continuo, lento eppure costante: gli oggetti che si perdono a poco a poco, le ultime “cose” rimaste, vendute per sopravvivere ogni giorno, le cose che hanno resistito a un quarto di secolo di stenti ora rischiano di scomparire. Ripstein si sofferma tragicamente su ognuna di esse, quasi volesse filmarne la lenta agonia, o meglio l’agonia tutta interiore di chi deve separarsene dopo anni di convivenza. 
L’audacia tecnica di Ripstein emerge invece intorno ai corpi dei due protagonisti, all’interno delle mura cascanti della loro casa. La macchina da presa sembra procedere stancamente (eppure inesorabile) a legare i corpi dei consorti, seguendoli e poi aggirandoli, catturandoli senza mai schiacciarli, saldandone il legame cogliendo a volte il riflesso dell’uno accanto alla presenza fisica dell’altro, attraverso piani sequenza sinuosi e avvolgenti che finiscono con lo sfiorare specchi consunti dal tempo e dall’umidità. E quando l’assenza si manifesta in tutta la sua crudeltà si giunge alla sequenza più struggente: “la spagnola” esce per andare al cinema e la macchina da presa ruota intorno al colonnello seduto al tavolo fino a fermarsi inquadrandolo solo, accanto alla sedia vuota e fiocamente illuminata: “non credevo che mi amassi così tanto”.
Il film si interrompe poco dopo il momento in cui la vicenda ha raggiunto la massima vicinanza con il punto di rottura che, ovvio, non ci sarà. Nulla è cambiato da ventisette anni a questa parte, se non che certe cose sono andate perdute nel corso del tempo e perduta ogni cosa (perduta o rifiutata) per vivere non resta che mangiare merda, perché di dignità e rigore morale, al limite, si muore.

Stefano Trinchero

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