NON HO SONNO
 

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REGIA:    
Dario ARGENTO

PRODUZIONE:  Italia   -   2000   -   Thriller/Horror

DURATA:  117'

INTERPRETI:
Max Von Sydow, Stefano Dionisi, Chiara Caselli,
Gabriele Lavia, Rossella Falk, Roberto Zibetti,
Paolo Maria Scalondro

SCENEGGIATURA:
Dario Argento - Franco Ferrini - Carlo Lucarelli

FOTOGRAFIA: Ronnie Taylor

SCENOGRAFIA: Antonello Geleng

MONTAGGIO: Anna Napoli

COSTUMI: Susy Mattolini

MUSICHE: Goblin

Trama

Torino. Ritorna l'incubo di un serial killer creduto morto conosciuto come "il nano" che aveva insanguinato la città negli anni '80 trucidando 3 donne. L'ex-commissario Ulisse Moretti, che seguì il caso all'epoca, ricomincia ad indagare in proprio, con l'aiuto del figlio di una delle vittime richiamato a Torino da un amico.

Recensioni

 

 

 

Non ho sonno

I meccanismi cinematografici della paura sono cosa ardua, eppure Zemeckis ha abilmente dimostrato come riutilizzando stereotipi e cliché di un cinema dagli albori lontanissimi si possa ancora spaventare, giocandosi tutto sull'istantaneità dello shock, su un meccanismo classico (ma non per questo poco interessante) che muove alla perfezione la suspance e il seguente trauma visivo nella mente e negli occhi dello spettatore. A Dario Argento evidentemente questo tipo di cinema non deve interessare affatto, e allora scende in profondità, sospinto da un tema terribilmente insondabile quale quello della serialità di un omicida, perché è un tema che pretende per sua stessa natura quell'indagine psicologica dettagliatissima che al pur buon film di Zemeckis mancava del tutto.
L'agire di un assassino seriale è fatto di movimenti che paiono casuali ma che rivelano una metodicità profonda, una prevedibilità che non sarà tale fino al momento in cui l'ossessione motrice non sarà svelata, richiedendo quindi che una somma di indizi ed errori diano forma a poco a poco a un substrato della psiche che si è manifestato con violenza. E' per questo motivo che l'ultimo lavoro di Argento acquisisce una credibilità progressiva, è per questo che spiazza e sorprende lentamente, perché Non ho sonno quasi non spaventa, ma inquieta terribilmente mettendoci di fronte all'operato di un folle che colpisce metodicamente. La grandezza del film di Argento sta qui e la sia può cogliere in una breve e magistrale sequenza che, a parere di chi scrive, assume i toni di una vera e propria dichiarazione d'intenti: lo spavento più grande nel corso del film da cosa è dato in fondo? Da null'altro che un pupazzo a molla che salta improvvisamente fuori dal suo rifugio. E' quindi esattamente in questo punto che Argento scopre le proprie carte e dichiara la vera natura del suo film, il suo preciso tentativo di liberarsi di quegli stereotipi cinematografici che si possono in effetti cinicamente ricondurre al classico pupazzo a molla che ne sintetizza perfettamente l'essenza: la camera si avvicina lentamente a un determinato punto, la suspance tra il pubblico cresce, esplode l'evento che spaventa. 
Argento invece di versare la paura sul pubblico la diffonde, consapevole del fatto che la vera dose di paura si manifesterà solo una volta concluso il caso, nel momento in cui il meccanismo si chiuderà e lo spettatore potrà rivisitare le sequenze salienti del film dando però un volto all'assassino tenuto fino ad allora ovviamente fuori campo (non basta tappare i buchi di sceneggiatura per garantirsi una coerenza profonda nel momento del colpo di scena, la coerenza va distribuita sequenza per sequenza), e qui si concentra in tutta la sua vertigine l'esperienza cinematografica dello spettatore di Non ho sonno, perché viene anch'esso inserito nello stesso schema che ha mosso il protagonista interpretato da Stefano Dionigi che, bambino, rimane confinato in un buco senza uscita mentre l'assassino trucida sua madre, ovvero si trova in una posizione in cui il suo campo visivo è chiuso e ristretto, proprio come lo schermo cinematografico in cui l'immagine svanisce in corrispondenza dei bordi, quel fuoricampo in cui è concentrata l'essenza di questo thriller, quel fuori campo che agisce ai limiti della perfezione per non farsi scoprire e vedere, eppure prende vita quando ogni cosa si chiude. E infatti la chiusura di un giallo altro non è che questo, uno sguardo su ciò che prima non era dato di vedere, ciò che prima di essere visto deve essere svelato tramite una raccolta di segnali disseminati lungo tutta la vicenda. Interverrà a cercare di ricostruire una vicenda frammentata da 17 anni di silenzio l'ex commissario Achille Moretti, interpretato da Max Von Sydow, figura interessante ma un po' banale e poco approfondita di vecchio e saggio poliziotto all'antica che rispolvera ricordi e ossessioni di un passato che sembrerà sommergerlo. Senz'altro buona la sua interpretazione, ma cosa dire del resto del cast? Diremo che un film come questo necessita di una certa dose di perfezione e non può assolutamente permettersi cadute che equivalgono a crolli di tensione. Le psicologie dei personaggi sono le forze motrici della vicenda, in quanto l'unico modo di scoprire l'identità di un killer seriale è indagarne la psiche per svelarne i tortuosi ragionamenti, e allora non sembra logico che ci si possa permettere di affidarsi a un cast di tale indecente livello (su Von Sydow e Lavia nulla da dire, li conosciamo), senza contare il fatto che anche da attori del tutto privi di talento si potrebbe cavare qualcosa di buono con una direzione forte, cosa che ad Argento sembra difettare. A Stefano Dionisi andrebbe assegnato un premio per aver ottenuto il maggior numero di ruoli importanti con la minima dose di talento a disposizione: il suo volto monolitico e le sue parole mal recitate nel tentativo di conferire un qualche patetico spessore alla sua interpretazione sottraggono al film una buona parte di fascino, soprattutto se nell'importantissima sequenza finale finiscono per dover interagire con quelle di un certo Roberto Zibetti, appena credibile nel ruolo di annacquato rampollo altoborghese ma scandalosamente ridicolo nel momento in cui cerca di dare prova di grande capacità attoriale sviscerando l'inconscio del suo complesso personaggio. Chiara Caselli non offre nulla di particolarmente significativo. Altro difetto in sede di fotografia, dal momento che il tanto acclamato ritorno a Torino non è poi stato supportato dal fascino delle immagini, in quanto c'era come minimo da aspettarsi una città dipinta a tinte fosche, dai colori inesorabilmente cupi e che invece finisce per essere piuttosto anonima. 
Un vero peccato perché un film del genere, anche se costruito su una sceneggiatura non proprio tesissima (che presumiamo riassestata dall'intervento di Carlo Lucarelli), avrebbe potuto essere davvero grande e ad Argento in sede di regia non si può rimproverare quasi nulla (vedere le sequenze iniziali sul treno) avendo una precisissima cognizione di cosa va mostrato e cosa va tenuto nascosto, descrivendo ottimamente la supposta strategia del killer, offrendo brevi squarci degli ultimi momenti delle vite delle vittime, cogliendole nella loro casuale significatività agli occhi dell'assassino e poi di nuovo mostrandone il momento dell'annientamento, filmando con la stessa ossessiva veemenza che muove l'assassino.
Resta il fatto che il meccanismo non avrebbe dovuto incepparsi mai e il film è inesorabilmente ferito dalla mancanza di cura in quei pochi ma significativi frangenti che ne destabilizzano la struttura profonda.

Stefano Trinchero


Il fantasma di Argento

Tutto come ai vecchi tempi (almeno nelle intenzioni): una città oscura ed ammaliante, una villa solitaria (anzi, due), una catena di delitti atroci, un omicida mostruoso, un bambino traumatizzato, una cantilena infantile bislacca e rivelatrice. In occasione del suo ritorno al giallo "classico", dopo il deludente horror gotico de "Il fantasma dell'Opera", Dario Argento richiama i suoi collaboratori storici (in particolare i tecnici) e aggiunge guest stars di classe. Quello che il regista vorrebbe, risulta sin troppo chiaro, è un "Profondo rosso" venticinque anni dopo, vale a dire un giallo vecchio stampo in grado di fondere il tradizionale, genuino terrore, un'insolita melanconia esistenziale e un pizzico di garbata ironia sulle "nuove leve" (la figura del vecchio commissario, che si rivela molto più in gamba dei suoi giovani e presuntuosi colleghi, è un riferimento malizioso allo stesso regista, la cui opera è stata copiata all'infinito da mestieranti di dubbio talento). Ma il nostro Dario sembra essersi dimenticato che non bastano un po' di scene di bassa macelleria (peraltro abbondantemente inflazionate, oggi si vedono cose più truculenti in una normale seconda serata televisiva) e qualche geniale intuizione visiva (il piano sequenza dell'omicidio in teatro, che mostra solo i piedi dei personaggi, è un'idea folgorante) per fare un film, o almeno, un film degno di quel genio della paura che è (o dovremmo dire è stato?) Argento. Il terrore vero, quello che si insinua seducente nell'animo dello spettatore per artigliargli lo stomaco e lasciarlo senza via di scampo, si costruisce più con la potenza suggestiva e la coerenza della narrazione che con gli effetti speciali o con un uso esagitato, "tempestoso", della macchina da presa: una storia agghiacciante, lucida e perfettamente, diabolicamente logica, cosparsa di ambiguità e colpi di scena realmente sconvolgenti, è ciò che distingue il giallo vero, quello di "Profondo rosso" tanto per non fare nomi, da uno splatter qualunque. Le ultime opere di Argento, come "La sindrome di Stendhal", mostravano, oltre ad un indiscutibile talento visivo, almeno le schegge di una grande intelligenza drammatica. In questo "Non ho sonno" tutto appare slavato, privo di senso, amorfo, sgraziatamente paratelevisivo: i personaggi coinvolti nell'intrigo sono stereotipati e per di più antipatici, e non riusciamo ad essere davvero in ansia per il loro destino. I dialoghi sono un'accozzaglia di frasi fatte, banalità e ripetizioni francamente noiose, in cui naufraga miseramente qualche barlume di ironia. Le sequenze arrancano a fatica, in penosa attesa della successiva scena di omicidio, la musica dei Goblin, con la sua presenza ossessiva, impedisce quasi ogni momento di reale tensione. Il finale, pur restando assolutamente forzato, è un po' più interessante del resto, ed in ogni caso non è che una copia di quello di "Profondo rosso", persino nella scelta delle inquadrature. Recitazione generalmente sotto il livello di guardia: Dionisi è inespressivo come al solito, la Caselli scipita come non mai. Le cose vanno un po' meglio con i "veterani": Lavia è abbastanza convincente, la Falk assolutamente inutile ma comunque molto decorativa, mentre von Sydow si rivela perfetto nel ruolo del "vecchio segugio". Nel complesso, un eccellente rimedio al problema del titolo.

Stefano Selleri


Argento lucidato

Argento torna e rivederlo cosi' plasticamente efferato ci infiamma. Fa lavorare il suo assassino con mezzi tradizionali (coltelli, accette, forbici) ma anche con arnesi piu' inconsueti (un corno inglese, una penna) e, nell'alta macelleria, ovviamente esplicita e mai parca di particolari, si ricorda di essere un talento vero. 
Splendido nell'inizio in treno, una corsa con lo scatto del ventenne, con una composizione delle immagini e un montaggio incalzanti che davvero fanno bene al cuore di chi questo autore gratuito e narciso, pronto a buttare dalla finestra logica e conseguenzialita' in nome anche di un solo secondo di cinema puro ed emozionante, lo ha amato davvero (e lo ha anche rimpianto, alla luce delle ultime deludenti prove). 
Il regista ricomincia da Profondo Rosso le cui gocce si rinvengono nella Torino livida e trasversale che si muove dietro i personaggi, nel ricorso del trauma infantile, nella musica kitch dei Goblin, nella presenza non casuale di Lavia (e qui il doveroso silenzio sulla trama mi impedisce di fare una curiosa considerazione che verra' inevitabile a chi ha visto il cult del 1975); frammenta il suo passato e ne attinge elementi ed ossessioni; mette da parte velleita' fallimentari che avevano pesato non poco negli ultimi film (raccapriccianti certo, ma non proprio per i motivi che ci si aspetterebbe) e di nuovo si riappassiona alle atmosfere, agli effetti folgoranti, alle ombre e alle luci, cantilene di un passato di sangue, cadaveri sui quali si infierisce per puro gioco (il cinema); inganna con pupazzi e simulacri, nani e deformita' fisiche, sempre pronto, pero', a ritornare sulle deformita' della mente; crea tensione giocando, come un tempo, sulle attese, le concitazioni, su quello che non si vede e si puo' immaginare mille volte piu' orribile (basta un lenzuolo che copre una misteriosa figura a scatenare nello spettatore le piu' terrorizzanti fantasie); gira una carrellata su un tappeto (Kubrick?) che si conclude, magistralmente, con una testa recisa che vi rotola attesa, puntuale, perfetta.
Non e' forse il risveglio che ci aspettavamo, pieno di lacune, sfilacciature e tempi morti come si presenta, ma e' abbastanza per sottolineare che in Italia cinema di questa fatta non se ne vede mai, che Argento e' l'unico a saperlo/volerlo firmare. Non che l'avessimo dimenticato (la prima parte de La Sindrome di Stendhal e' tra le cose migliori del cinema nostrano dello scorso decennio) ma certe brutture e inutilita' avevano ottenebrato alquanto questa certezza. Oggi, di fronte al nostro (?) cinema, che langue nella sua patetica sbruffoneria, presentare il servizio buono, lucidato per l'occasione, ci pare davvero doveroso.

LuCa P@cilio


Ai margini si scivola

Dario Argento torna al thriller e lo fa con una storia ambientata a Torino nell'arco di diciassette anni. Ci sono tutti gli elementi cari al geniale ma discontinuo regista: una filastrocca ispiratrice degli omicidi, il morboso dettaglio degli efferati delitti, una casa misteriosa lontano dalla citta', i mitici Goblin per un sound datato ma efficace, la recitazione impossibile degli attori e, soprattutto, una mancanza di equilibrio tra cura meticolosa del dettaglio e sciatteria. Il primo omicidio, ad esempio, è costruito con grande senso del ritmo e crea tensione nel suo lento ma inevitabile sviluppo, mentre altri momenti, come i dialoghi al ristorante o la sequenza al pronto soccorso, suonano falsi e privi di logica. Ma questa sembra essere una caratteristica dell'intera produzione di Dario Argento che, spesso, all'interno dello stesso film, cura con attenzione certi aspetti, mentre non si preoccupa minimamente di altri, come appunto la resa degli attori. Nel caso specifico, a parte un carismatico ma tiepido Max Von Sydow, la direzione degli attori risulta ai minimi storici. Dionisi appare inerte e, come suo solito, fisicamente aderente al personaggio ma stonato nell'espressivita'. Da annali del trash, l'esordio in kimono al ristorante cinese. Chiara Caselli ha una breve parte, ma e' piu' che altro il suo personaggio a non avere spessore. Ed è forse la sceneggiatura, intricata e articolata ma meccanica, a riservare i migliori momenti di umorismo involontario, con collegamenti telefonati e dialoghi nonsense. Anche il montaggio, soprattutto nella parte finale, forza l'unione di un paio di sequenze in modo imbarazzante. Eppure, nonostante tutti questi elementi e numerose incongruenze, il film ha un suo fascino magnetico che incuriosisce e spinge a voler sapere chi è l'assassino, con una conclusione approssimativa ma assai disturbante. Dopo la visione si resta indecisi tra la stroncatura e il fascino di una certa costruzione e del modo morboso con cui viene rappresentata. Del resto i film di Dario Argento, a parte forse il compatto "Profondo rosso", sono cosi': incerti tra la sottigliezza e il trash. Ed e' forse in questa inconciliabile ma genuina scissione che riescono a colpire!

Luca Baroncini


Profondo sonno

Nessun regista può permettersi di costruire il suo film su una sceneggiatura così debole, incongruente, insensata, ridicola. Nessuno. Neanche se di cognome fa Argento. Se è vero come è vero, infatti, che storia, dialoghi e psicologia dei personaggi non sono mai stati il forte del buon Dario, la sua ultima fatica mostra davvero la corda da questo non trascurabile punto di vista. Mai come in questo caso, infatti, Argento sembra portare alla luce quello che è probabilmente il suo metodo di lavoro: elaborare (partendo dai suoi incubi, come ha più volte affermato…) la struttura delle sequenze "criminali" e appiopparci intorno uno straccio di storia che nessuno, lui per primo, prende troppo sul serio. Arrivo a dire che questo opinabile modus operandi ha anche esercitato, in passato, un suo perverso, morboso fascino: film di sconcertante ingenuità ma nondimeno capaci di turbare, sorta di acquerelli naïf raffiguranti atroci torture…è il caso dei primi whodunit fino alla provvisoria svolta paranormale inaugurata da Suspiria (al quale, come ai successivi Inferno, Tenebre e Phenomena, nessuno chiedeva coerenza e veridicità narrativa). Poi le cose sono vieppiù peggiorate, il delicato giocattolo del bambino cattivo si è rotto e il regista ha iniziato ad arrancare tra inattesi colpi d'ala (il tutto sommato non disprezzabile La sindrome di Stendhal) e tonfi clamorosi (l'inguardabile Fantasma dell'opera). Nonhosonno, checché se ne dica, non è un ritorno ai (già precari) fasti di Profondo rosso, ma un tentativo, invero un po' patetico, di recuperare quell'antico, un po' magico, squilibrato equilibrio a base di ridicolo involontario e pugni nello stomaco girati con innegabile talento visionario e (non sempre) senso del ritmo e della suspense. In quest'ultima fatica, infatti, si salva solo il primo quarto d'ora, teso, claustrofobico e truculento al punto giusto…non da antologia ma da Bignami del thriller, quello almeno sì. Il resto è un'accozzaglia di tentativi di ricercatezza formale (il piano sequenza del tappeto, davvero gratuito), di battute da antologia ("perché tutti quelli a cui voglio bene muoiono? E' la maledizione del nano!"), di dialoghi improbabili messi in bocca ad attori ancora meno probabili (Dionisi…mamma mia! Von Sydow timbra il cartellino…da pensionato) e di colpi di scena campati in aria, come il finale, con l'improvvisa uccisione dell'assassino. E' forse racchiuso lì, negli ultimi minuti di pellicola, tutto il cinema di Dario Argento: arriva la polizia e, dalla strada, spara alla testa di un indiziato senza neanche il canonico -"getta la pistola"- e senza, presumibilmente, aver modo di rendersi conto di cosa l'indiziato stesso stava realmente facendo. Dal punto di vista narrativo è un classico "errore", una forzatura dettata dal fatto che ad Argento piaceva, in quel momento, far esplodere all'improvviso la testa del suo assassino per poi indugiare, nei titoli di coda, sul suo corpo riverso a terra in una pozza di sangue. Non solo. Proprio i titoli di coda sulla fine del film e non dopo evidenziano l'amore per il cinema di un regista che "obbliga" il suo pubblico a restare lì, seduto, mentre scorrono i nomi degli artefici di ciò che è appena passato sullo schermo a 24 fotogrammi al secondo…sana abitudine che ogni buon cinéphile dovrebbe avere e che Argento "incoraggia" anche negli svogliati spettatori della domenica. Tutto Argento in una sequenza, si diceva: ingenuità da vendere indotta da un incondizionato (e infantile?) amore per il Cinema. Prendere o lasciare. Io stavolta lascio.

Gianluca Pelleschi


Ritorno al passato...

A tredici anni di distanza dall'ottimo "Opera", dopo uno stupido litigio con Romero e tre pellicole più o meno ignobili, il buon vecchio Dario Argento è tornato a Torino, la sua città fortunata, per girare in grande stile questo "Non ho Sonno", un giallo, che almeno nelle intenzioni, vorrebbe essere una specie di "Profondo Rosso" per la gente del duemila. In realtà, il film (scritto dal regista con l'amico di una vita Ferrini e Carlo Lucarelli, nuovo messia del trash ultra-gore in salsa bolognese), nonostante gli ottimi contributi tecnici (fotografia di Ronnie Taylor, scenografie di Geleng e colonna sonora dei Goblin riuniti alla bisogna), vuoi per un talento che ormai assuefatto a tanta spazzatura fa fatica a venir fuori (Argento dà il meglio solo in un paio di sequenze), vuoi per attori che definire scarsi sarebbe un complimento (a cominciare dalla già di per se improbabile accoppiata Von Sydow-Dionisi), resta ad anni luce dalla visionarietà del modello, funzionando al limite come antologia di tutti gli elementi che hanno fatto nel bene e nel male la fortuna del thriller argentiano, a partire dal classico maniaco nerovestito. Ma al di là di queste considerazioni, "Non ho Sonno" diverte e si lascia seguire con interesse fino all'incredibile mega-dicitura finale, in cui si scopre che la filastrocca che fa da filo rosso agli omicidi è scritta nientemeno che da una certa Asia Argento (ogni commento mi sembra superfluo...). Senza contare che come panacea, il film offre un fantastico primo piano del sedere della Caselli. Tutto sta ad accontentarsi, insomma: Discorso che, in fin dei conti, vale per ogni film di genere.

Andrea Carpentieri

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