RITORNO A CASA
(Je rentre a la maison)

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REGIA:    
Manoel DE OLIVEIRA

PRODUZIONE:   Fra/Por   -   2001   -   Drammatico

DURATA:  90'

INTERPRETI:
Michel Piccoli, Catherine Deneuve, John Malkovich, 
Antoine Chappey, Leonor Baldaque, Ricardo Trepa, Leonor Silveira, Jean-Michel Arnold, Adrien De Van, Sylvie Testud, Andrew Wale, Robert Dauney

SCENEGGIATURA: Manoel De Oliveira

FOTOGRAFIA: Sabine Lancelin

SCENOGRAFIA: Yves Fournier

MONTAGGIO: Valerie Loiseleux

COSTUMI: Isabel Branco

Trama

Un anziano attore teatrale perde in un incidente la moglie, la figlia ed il genero.

Recensioni

 

 

 

Lo sguardo crudele dell'altro

Prima scena. Un camerino teatrale: tra costumi sontuosi e specchi illuminati, un manichino parzialmente coperto da drappeggi di stoffe. Ultima scena. Un vecchio grottescamente truccato arranca per le scale: ed è difficile distinguerlo dal manichino dell'incipit. In questa associazione d'immagini, che solo al cinema è possibile realizzare in modo soddisfacente, è il senso e la bellezza del nuovo film di Manoel De Oliveira, opera sulla perdita di ciò che ci è caro (le forze, gli affetti, gli oggetti), ennesima dimostrazione di un talento figurativo, di un senso del racconto e di una vena ironica che non hanno forse uguali nel panorama contemporaneo. Ironia, beninteso, come "parlare d'altro": il regista ci offre una tragedia umana, dura e senza sconti, presentandocela come un madrigale dai toni brillanti, lievemente smorzati, che si presta a molteplici chiavi di lettura. 
La prima, forse non la principale, è quella documentaria: il film comprende tre estratti da classici della letteratura europea (Ionesco, Shakespeare, Joyce), "messi in scena" con un assoluto rigore che non esclude fantasia e senso del teatro, recitati con adamantina abilità da una compagnia ineccepibile. In ognuno di questi tasselli teatrali è possibile rinvenire tracce del dramma del protagonista, ma non sarebbe giusto ridurli a mero completamento narrativo: in fondo, De Oliveira posiziona la prima "digressione", se così vogliamo definirla, all'inizio del film, quando i personaggi non sanno ancora dell'incidente in cui hanno perso la vita i parenti dell'artista, ed il raddoppiamento offerto dal teatro può essere compreso solo a posteriori. È questo uno dei segnali più forti che il regista invia agli spettatori: non bisogna ridurre il film a semplice veicolo di una trama, ma considerare in maniera paritaria (quanto meno) il contenuto e il contenitore, la storia e la messinscena. 
Certo, "Ritorno a casa" è anche la storia di un lutto insuperabile: ma questo plot, un po' scontato e negli ultimi tempi decisamente inflazionato (non occorrerà fare nomi), è trattato in maniera assolutamente originale. Innanzitutto, i morti sono del tutto invisibili: quando inizia il film la loro fine si è già consumata, lo spettatore non ne vede l'agonia, né la sepoltura, né ha ulteriori indizi sulla loro esistenza. In una scena, questo tabù sembra sul punto di infrangersi: al mattino, Gilbert fissa e sfiora un ritratto posto sulla sua scrivania, ma il buio della stanza da letto e l'angolazione della foto ci impediscono di saperne di più sul soggetto. Non assistiamo a dibattiti etici, politici o religiosi sulla morte, che viene accettata senza fiatare, con compostezza, se non con serenità: non una scena madre, non una battuta plateale. 
De Oliveira incornicia e fissa il dolore del suo personaggio impedendo consapevolmente allo spettatore di ottenere in maniera facile ed univoca le risposte alle domande sollecitate dalla trama, ad esempio quelle riguardanti l'affetto possibile tra l'anziano attore e la giovane collega. Le menzogne, le incertezze, le illusioni che intessono la vita quotidiana sono veicolate da piccoli gesti insignificanti, gag apparentemente inutili (espressione della bellezza del superfluo), scarti improvvisi: chi sta all'esterno, al di là del vetro, come un voyeur superficialmente interessato alla vita altrui, non può capire tutto, non ne è degno e forse neppure lo desidera fino in fondo. Il regista fa dello straniamento il proprio codice morale, oltre che estetico: chi siamo noi, osservatori non ratificati e spesso affrettati, per esprimere giudizi su ciò che vediamo? Crediamo davvero che tutto sia riconducibile ad una formula preconfezionata, come quella che sta alla base di una miniserie televisiva qualunque? L'invettiva affidata all'attore principale è una considerazione amara ed ironica non solo sulla mercificazione dell'arte, ma sulla pigrizia mentale di un pubblico omogeneizzato, che non scorge nelle pause, nei silenzi, nei giochi umoristici la bellezza del "perdere tempo", alla base dell'arte quanto del vivere. 
In realtà, ogni tassello del film è riconducibile al tema principale, all'isotopia narrativa: il cliente del bar che è costretto a rinunciare al "suo" tavolo e tenta a tutti i costi di impossessarsene di nuovo, senza peraltro riuscirvi, è come il vecchio attore, che subisce una perdita irreparabile dalla quale fatica a riprendersi: il tentativo di compensare almeno in parte questo vuoto attraverso l'acquisto di un elegante paio di scarpe è frustrato dal furto subito poche ore dopo, quasi un "doppio" nella vita della spoliazione degli attributi regali ai danni del re di Ionesco. Le immagini, in De Oliveira, sono imperscrutabili, potentissime nella loro apparente semplicità (emblematica l'inquadratura finale, che fissa il volto del nipote di Gilbert nell'attimo in cui scopre la fragilità del suo idolo), e nella loro luminosa "leggerezza" veicolano oscuri ricordi o presagi: quasi ogni sequenza presenta, fuori campo, rumori di automobili in corsa, a replicare senza fine la catastrofe alla base del dramma, e in una scena nonno e nipote, con una vivacità quasi macabra, scherzano con le macchine radiocomandate, simulando incidenti inevitabilmente allusivi. 
La realtà di De Oliveira è squisitamente decentrata: ogni scena inizia e finisce sempre un po' prima e un po' dopo di quanto sia strettamente necessario alla comprensione degli eventi, ma è questa ricchezza dell'inutile che permette al regista di fotografare corrispondenze inaspettate, d'impagabile intelligenza, tra i diversi elementi della rappresentazione. L'attenzione al linguaggio visivo - che, almeno per ora, costituisce l'essenza del fare cinema - non esclude un'elaborazione puntigliosa dei dialoghi, "casuali" quanto densi, laconici quanto efficaci.
Michel Piccoli, in un ruolo da vero virtuoso (un attore che vive e, in più, dà la vita a tre personaggi diversi e difficilissimi), è perfetto, come tutti gli altri, dalle comparse di lusso Catherine Deneuve e John Malkovich (di nuovo insieme dopo "I misteri del convento") ai fedelissimi del regista, tra i quali Leonor Silveira, Isabel Ruth e la giovane Leonor Baldaque. 
Un film che ha solo un difetto: è troppo corto. Inoltre, una piccola annotazione a margine dell'edizione italiana: perché doppiare un film parco di dialoghi e girato in due lingue? Dato che in ogni caso l'ultima mezz'ora mantiene il bilinguismo, perché non sottotitolare l'intero film, facendoci gustare le voci originali di tutti gli attori? I misteri della distribuzione…

Stefano Selleri

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(Il) Silenzio si gira

E' strano vedere De Oliveira maneggiare il silenzio: pochissime parole, schegge di un quotidiano che "non vuole dire" ma semplicemente dice (Moretti, guarda e impara). La vita si svolge dietro una vetrina, dialoghi attutiti, si restituisce, con levita', l'essenza di un'esistenza che si aggrappa ancora ai minuti, che nasconde le macerie sotto un velo di placida routine. Le parole, stavolta, sono per lo piu'quelle del teatro e della letteratura, in una sorta di raffinato gioco speculare, in cui la realta' si decodifica nel confronto col testo rappresentato. Un film dolcemente funereo in cui la morte c'e' dappertutto ma rimane anch'essa muta, implicita e sottotraccia (come giustamente sottolineato da Selleri). PALAVRA E UTOPIA, il film precedente, ancora non distribuito (dubito lo sara'), nella sua estrema, fluviale massa di forbitissime parole ha costituito, probabilmente, il punto di non ritorno: De Oliveira ricomincia dal gesto, dal frammento minimale, costruendo un'opera densa e sospesa che, affermandosi agli antipodi della precedente, ma vantando un eguale orgoglio radicale, vive di momenti altissimi, di un narrato pudicamente divagatorio che risuona su un tono antipoetico e magicamente elusivo. Il regista usa i suoi stilemi con maestria ormai scontata (e forse la sua massima consapevolezza puo' suonare come un difetto, aleggiando un sospetto di maniera), come in MON CAS gioca con la reiterazione del testo, ponendolo in prospettiva diversa (la scena dell'ULISSE attraverso lo sguardo del regista e poi riproposta de visu), affida a un Piccoli prosciugato un ruolo bello e difficile, sviluppa l'ordito in vista di una conclusione angosciante che, giocando con l'ultima rappresentazione, propone il ritorno alla sua Itaca di un Odisseo sconfitto, finalmente sopraffatto dal dolore.

Luca Pacilio


Stefano
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Luca
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8

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