TABU' - GOHATTO
(Gohatto)

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REGIA:    
Nagisa OSHIMA

PRODUZIONE:   GB/Jap/Fra   -   1999   -   Dramm.

DURATA:  100'

INTERPRETI:
Takeshi Kitano, Tadanobu Asano, Shinji Takeda, 
Ryuhei Matsuda, Yoichi Sai, Koji Matoba,
Tomoro Taguchi, Masa Tommies

SCENEGGIATURA:
Nagisa Oshima

FOTOGRAFIA:
Toyomichi Kurita

SCENOGRAFIA: 
Yoshinobu Nishioka

MONTAGGIO: 
Tomoyo Oshima

COSTUMI: 
Emi Wada

MUSICHE: 
Ryuichi Sakamoto

Trama

Kyoto 1865: nell'area di tirocinio della truppa Shinsen-gumi, gli aspiranti samurai si esibiscono in combattimenti davanti ai selezionatori. Ne vengono accettati due: Sozaburo Kano, giovane e aitante schermitore di Kyoto, e Hoyzo Tashiro, ex-samurai di basso rango del clan Kurume. 
L'ammissione di Kano, a causa del suo aspetto femmineo, e' motivo di grande irrequietezza tra i samurai e mettera' in crisi le rigide regole a cui aderiscono.

Recensioni

 

 

 

Tutti pazzi per Kano

Dalla notte dei tempi l'uomo ha deciso di sopravvivere all'animale che e' in lui costruendo delle regole in cui incanalare le pulsioni che lo attraversano. La storia ha insegnato che i maggiori divieti, dietro a un'apparenza di ordine, hanno gonfiato le pulsioni rendendole malsane e gravandole di un opprimente senso di colpa.
Il contrasto tra le regole, il potere e la natura intima dell'uomo e' alla base del nuovo film di Nagisa Oshima, che torna al cinema dopo quattordici anni di inattivita' e continua a colpire, questa volta senza scandali, tessendo una trama sottile intorno a un gruppo segreto di samurai. Un microcosmo in cui la serenità ha bisogno di regole ferree per contenere l'uomo e la tangibile inquietudine finisce con il trovare sfogo sul nuovo adepto Nako. Il giovane e' tanto femmineo nell'aspetto quanto violento nella determinazione di diventare una perfetta macchina da guerra e la sua psicologia inafferrabile e' sicuramente il motore dell'azione. Tutti sono irrimediabilmente attratti da lui, tutti lo vorrebbero possedere e lui si concede, alimentando proprio cio' che maggiormente si teme: il disordine. Il regista rappresenta questa distanza tra l'uomo e la sua natura attraverso una messa in scena rigorosa e fredda, non concedendo allo spettatore alcun coinvolgimento emotivo ma immergendolo in un mondo tanto lontano per cultura ed epoca quanto vicino ed attuale per le dinamiche psicologiche che lo animano.
La sceneggiatura a volte sembra dire troppo, altre volte pare tacere piu' del necessario e gli interpreti non sempre sono specchio del loro travaglio interiore. Di grande atmosfera le musiche di Sakamoto e davvero forte, nel suo simbolismo, l'immagine che chiude il film, unica concessione lirica in grado di sintetizzare in modo poetico il pessimismo di fondo sulle capacita' dell'uomo di arrivare a una chiarificazione pacifica con se stesso.

Luca Baroncini


Le Grand Macabre à Kyoto

Una didascalia bianca su fondo nero ci introduce non solo alla vicenda, ma allo spirito del nuovo film di Oshima, essenziale ed enigmatico, raramente calligrafico e in ogni caso rifuggente da ogni cedimento tanto all'estetica da cartolina quanto al buonismo consolatorio oggi di moda, in Oriente come in Occidente. Il "bello stile" caratterizzante le immagini ed i maliziosi cartelli giapponesi che fanno loro da contrappunto è funzionale alla narrazione di un mondo cristallizzato, immutabile nei costumi, nei volti e nei pensieri, segnato fin dall'inizio da una catastrofe sotterranea, che esplode con dolcezza, poco a poco, fino al repentino colpo di grazia che mette fine ad ogni sogno di redenzione spirituale. 
È poco importante sapere che siamo nel Giappone ottocentesco, così come è meno che accessorio l'elemento gay: il disegno generale dell'opera è eterno, criptico ed essenziale quanto luminosa la sua manifestazione sensibile. Il regista mette in scena la decadenza di un gruppo sociale che si ritiene portatore di verità e valori eterni, capaci di rendere gli adepti superiori ai comuni mortali: tale declino viene osservato dall'esterno (l'imminente fine dello shogunato e conseguentemente dello strapotere dei samurai) e dall'interno (l'ingresso nella milizia Shinsen-gumi dell'inquietante Kano). 
Ma perché inquietante? Perché reca in sé la contraddizione, il dubbio (nel senso etimologico di duo - habeo, maschile e femminile, bambino e uomo), il pensiero ed il desiderio di morte (la sua passione per le esecuzioni capitali, e più in generale per la vendetta, l'espiazione). Altra domanda: come è possibile che uomini che servono la Verità siano attratti dall'elemento corruttore? È facilmente comprensibile, se si considera che il ragazzo possiede in sé l'esca della bellezza, capace di catturare non tanto l'amore, quanto la devozione dei commilitoni, sottraendo le loro forze al servizio della Causa. Non è in questo senso errato paragonare il fanciullo all'angelo sterminatore, se non che, in questo caso, non abbiamo un inviato divino giunto a sopprimere i trasgressori delle regole sociali, ma un essere il cui indomabile furore abbatte tutti coloro che hanno rinnegato la vita per fossilizzarsi nel loro sogno di rettitudine ultraterrena: simili uomini, che non possono essere vinti dalla spada, saranno sconfitti da una parola d'amore, poco importa se simulata o meno. 
Attraverso il messia dai capelli muliebri, la Natura punisce i suoi servi infedeli, che l'hanno abbandonata ritenendosi migliori degli altri: quasi una tragedia greca, rispettosa delle unità aristoteliche, trattata con stile inflessibile ed una buona dose di feroce ironia. Il messaggero di morte è infatti "disumano" quanto coloro che deve punire, e la sua fine è rapida e irreparabile quanto quella di una qualsiasi delle sue vittime (vedi il parallelo tra l'esecuzione capitale che segna l'ingresso di Kano nella milizia e l'abbattimento dell'albero che conclude il film). L'Universo è incantevole, ma, come in Leopardi, non perdona. Mai.
La tragedia della condizione umana, costantemente minacciata da una catastrofe strisciante ed alla disperata ricerca di una soddisfazione dei sensi che profuma di rovina, è resa sullo schermo con colori brillanti (perfetta la fotografia di Kurita) e inquadrature preparate con cura maniacale, che creano infinite corrispondenze interne al testo (la doppia prova cui sono sottoposti i candidati alla milizia, il combattimento e l'esame delle genealogie, o ancora le inquadrature dedicate a un valoroso guerriero e ad un'ammaliante geisha) e si sovrappongono ai dialoghi, svelandone il senso nascosto (il lungo piano sequenza della cena degli alti comandi della milizia, in cui la macchina da presa si avvicina sempre più ai personaggi, ad esprimere l'atmosfera sommessamente elettrica causata da punti di vista conflittuali) e traducendo con stupefacente facilità i gesti e i pensieri dei personaggi (il combattimento che coinvolge gli amanti, ripreso con inquadrature ben più mobili e "disordinate" rispetto a quelle riservate agli altri incontri). 
I buchi della sceneggiatura sono colmati e quasi cancellati dalla partitura di cangiante fissità scritta da Sakamoto, che si fonde alla perfezione con quella visiva orchestrata da Oshima. I limiti espressivi di alcuni attori (specie di quelli più giovani) non sono un problema, dato che nell'economia dell'opera gli interpreti rivestono importanza non maggiore delle scenografie di Nishioka e dei sontuosi costumi disegnati da Emi Wada.

Stefano Selleri


"Perdonami!"

La bellezza è una sintesi, indistinguibile e non analizzabile sopravvive negli occhi, negli occhi di chi tenta di vedere. Durante le selezioni per novizi samurai del battaglione Shinsengumi i combattimenti si susseguono, i tre giudici commentano la qualità del duellare, in una prospettiva obliqua, dettata dalle linee dei tatami: la scelta cade su Sozaburo Kano e Hyozo Tashiro. 
Nel 1865 Kyoto è sede imperiale, l'epoca Tokugawa (1613 - 1867) collassa, lentamente il contatto con l'Occidente ed i contrasti tra shogunato ed imperatore hanno creato un complesso di forze centrifughe: i samurai e tra questi gli Shinsengumikai sono i detentori della purezza morale e politica. 
Kano su cui si soffermano le parole e lo sguardo, pallido, quasi di pezza, acconciato come un fanciullo, con un kimono bianco raccoglie luce attorno a se', infonde ai movimenti leggermente imbarazzati da adolescente una pesante spossatezza (dice d'avere diciotto anni ma non gli si crede). A lui il comandante Kondo affida l'esecuzione di un samurai colpevole di aver infranto il codice di comportamento, una raggiera di sangue sprizza di lì a poco, sporca Kano che impassibile, fedele al rituale, ha appena onorato la tradizione. 
L'infiltrarsi della pulsione omosessuale è un semplice ed usurato correlato per mostrare lo scivolare nella decadenza, qui Oshima distilla ben più di un affresco storico e politico, costruisce per giustapposizioni lineari una meditazione sull'animo in disgregazione. 
La monade dominante è il dubbio, "non domandare, non dire". Il timore che serpeggia al fianco dell'insinuante macchina da presa (molto ricorda Mizoguchi) non si configura nella dimensione del Fatto quanto della possibilità, l'aprirsi della realtà estremamente formalizzata del mondo guerriero e del Giappone tutto alla parola, al dialogo ed all'accusa; è il tremore dell'uomo di fronte alla modernità in cui l'ambiguo, e tale è Kano sin dal suo primo sguardo, asciutto e incurante, si configura come la nebbia dei sensi, l'annullamento del passato.
In quadri fissi si condensa la pura essenza dello sguardo, tetti illuminati dal sole, pagode che sono slanci verso il cielo, direttrici che ammiccano, costringono un muoversi di percezione, al di là della volontà, fino al trasfigurare pittorico delle nubi al tramonto: i dialoghi, i tentativi da parte del Comandante e del capitano Toshizo Hijikata (Beat Takeshi, vera chiave di volta della costruzione) di ristabilire l'equilibrio pulsionale come ci era stato presentato dalla voce narrante nel puntiglioso resoconto del regolamento, il banchetto, il comico capitano della decima divisione sono i passaggi necessari a coprire i tratti di definizione dell'ambiente.
La rottura avviene per insinuazione, prima figurativa con fluidi raccordi e tendine orizzontali, ambienti lindi e fughe prospettiche calcolate sull'eternità di un concetto, quello di /bellezza/ centrale nella filosofia giapponese, fino a divenire palpabile nei dialoghi, nei confronti tra personaggi, in dinamiche di sguardi che alludono, ammiccano alla comune incertezza. Queste due attenzioni si fondono in un finale di splendore abbacinante, dominato dal piano sequenza del dialogo tra il capitano Hijikata ed il suo giovane amico: accuse, gelosie fittizie e reali si fanno sgomento palpabile e visibile. La freddezza di Kano nel dare la morte all'amato Tashiro, esattamente come allo sconosciuto colpevole iniziale, non è manifestazione di crudeltà ma l'aprirsi di una dimensione incomunicabile in cui l'assoluto - bellezza, sentimento, purezza - cozza con la necessità fenomenica.
Lo sconvolgimento si racchiude in un gesto, una vendetta silenziosa, stupefacente, un gesto a cancellare un peso insopportabile; un ciliegio in fiore, smagliante nella notte scivola frusciando, non semplice ellissi formale ma "spettacolo naturale che rivela al tempo stesso la profondità più emozionante e il simulacro totale di quella profondità" (J. Baudrillard). L'inconfessabile diviene gesto, un gesto che crea bellezza.

Luigi Garella

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L'Ombra dei Samurai

Ectoplasmi impalpabili, gli ultimi samurai vagano come automi, avvertono riflessi di passione, distinguono l'ombra di un brivido. Chiusi nella decadente tomba di un sistema implacabile, che mostra impietosamente all'esterno le sue crepe, vivono e sono morti, agitano invano le loro armi bianche, amano altri cadaveri. Kano sconvolge i gia' fragili equilibri di questa comunita' di fantasmi, ma la sua bellezza efebica non nasconde innocenza fanciullesca, piuttosto l'animo torbido e coerentemente mortifero di una femme fatale. Mentre Sakamoto decora le immagini con un ricamo di note, austero e penetrante, tra i suoi più riusciti, Oshima fa parlare la macchina da presa, filma un occhio, una spalla, una mano e significa tutta la fatiscenza del desiderio raggelandolo in un particolare; il suo incedere elegante avvolge l'attenzione, la imbriglia in una griglia geometrica rarefatta, la conquista in virtu' di un sottotesto di cui si avverte, stentorea, l'eco seduttiva. Tramonti come quadri, il frusciare leggero dei kimono (di sua maestà Emi Wada), l'ironico contrappunto delle didascalie. Le corde dell'ispirazione cessano di vibrare nella parte centrale, meccanica e alquanto inutile, l'espressionismo da freddo si fa surgelato e non basta il colpo di coda del finale, onirico e fastosamente simbolico, a dissipare il dubbio di un appuntamento mancato con il capolavoro.

Luca Pacilio


Luca
Baroncini
7

Daniele
Bellucci
8

Stefano
Selleri

Luigi
Garella
9
Stefano
Trinchero
8
Luca
Pacilio
7
Manuel
Billi
Alberto
Zambenedetti
7
       
 

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