Recensioni
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La peste, oggi
Una manciata di polvere candida può influenzare l'esistenza di centinaia di persone: non solo coloro che ne sono coinvolti direttamente, come i boss dei cartelli della droga, i loro uomini, i corrieri, i poliziotti e gli alti commissari governativi, ma potenzialmente ogni famiglia, ogni bambino, ogni feto.
Soderbergh, nel suo nuovo film, ci mostra esclusivamente modici quantitativi di droga (qualche striscia di coca, un po' di filtri, pochi bicchieri di alcool, alcuni pacchetti pronti per essere spediti), ma si sofferma sugli effetti degli stupefacenti, primo fra tutti quello di portare alla luce i mali oscuri dell'occidente contemporaneo. La droga non è (solo) male, ma espressione di malessere, di sfiducia nelle istituzioni tradizionali (famiglia e Stato), di corruzione burocratica, di tradimento, di menzogna domestica, di violenza a stento trattenuta e pronta ad esplodere, di desiderio di serenità posticcia (il whisky che Wakefield consuma prima di cena, per essere in grado di affrontare la noia del focolare), di deriva consumistica (gli adolescenti dell'alta borghesia che passano le serate a sniffare, il bambolotto "tutto speciale"). E non c'è scampo per nessuno: la seduzione del male attanaglia tutti, infetta la vita che ancora deve sbocciare (il bambino di Helena), conduce alla disgregazione quella appena inaugurata (l'adolescente in overdose), porta gli adulti ad arroccarsi ulteriormente nelle proprie meschinità (il funzionario preoccupato solo della sua immagine pubblica, il narcotrafficante vendicativo, il generale dalle amicizie tutt'altro che irreprensibili).
"Traffic" è un film che coniuga il meglio e il peggio del cinema statunitense: oceanico nella durata e nel cast, coraggioso, girato con notevole intelligenza, ma non del tutto riuscito, ripetitivo, mortificato da un eccesso di schematismo. In questo puzzle alla Altman, composto da tre storie i cui protagonisti non si parlano mai ma si incrociano spesso, poche, magnifiche invenzioni visive (ad esempio il viraggio in blu o in giallo delle scene, a seconda dell'ambiente e dello stato d'animo dei personaggi) sono ripetute fino allo stremo, finendo per perdere gran parte del loro potenziale espressivo, mentre la sceneggiatura di Stephen Gaghan, tesa nell'intreccio e brillante nei dialoghi, appare ingoffita da pesanti incongruenze e approssimazioni psicologiche e troppo propensa a servirsi dei luoghi comuni del poliziesco (la coppia multietnica di poliziotti, il pentito arrogante, il militare ambiguo). Il ritmo dell'azione è sostenuto (tanto che non si avvertono minimamente le quasi due ore e mezza di proiezione), ma nell'ultima parte il film diviene prevedibile, inverosimile e decisamente noioso, e la disperazione autentica, per nulla patinata, che costituisce il tratto originale dell'opera cede il passo ad un ottimismo insincero, distillato in tre finali lieti (o quasi).
"Traffic" è soprattutto una grande prova di regia: Soderbergh si ricorda della funzione principale del cinema, che, come dice David Mamet nel suo nuovo "State and Main", è "prendere un'idea e tradurla in immagini". Le scene più belle del film sono quelle quasi prive di dialogo (Javier che abborda il killer, Helena imprigionata nella propria casa, la giovane Wakefield che vaga alla ricerca di droga), in cui l'immagine abolisce l'uso della parola senza che ciò incida negativamente sulla comprensione dell'intreccio e sulla potenza drammatica del film. Si veda la scena in cui la macchina da presa inquadra in campo lungo, alla frontiera tra Usa e Messico, le poche auto (tra cui quella di Javier) che lasciano gli States e, con una carrellata a sinistra, svela il fiume di veicoli che vanno nella direzione opposta: uno zoom distingue, fra essi, il veicolo di Helena. Con una sola inquadratura, il regista è riuscito a mettere a confronto i destini paralleli ed opposti non solo di due personaggi, ma anche di due nazioni che pure dovrebbero essere unite nella lotta alla droga. Molti autori anche europei dovrebbero prendere appunti, e meditare…
Interpreti di gran nome e, strano a dirsi, di buon livello: Michael Douglas e Amy Irving, nei panni dei genitori tormentati, se la cavano con onore, Catherine Zeta - Jones, bellissima nella sua maternità imminente (e non simulata), è capace di una prova sobria ed intensa, Benicio Del Toro sembra nato per questa parte di eroe provinciale, sornione e impavido, la cui aria svanita non può non ricordare, almeno in parte, il dr. Gonzo di "Paura e delirio a Las Vegas" di Gilliam. Ma le prestazioni migliori sono quelle dei giovanissimi Erika Christensen e Topher Grace, al tempo stesso angelici e contaminati, emblema della devastazione che minaccia la bellezza, non solo quella americana.
Stefano Selleri
Cinema d'autore americano
Da dove arriva questo film? Da dove è uscito il coraggio di realizzare una produzione del genere?
Sono questi gli interrogativi che ti assalgono alla fine della visione di un'opera sconcertante per il suo stile realistico e per i suoi intenti documentaristici (anche se un po' romanzati) del complicato mondo che gira intorno alla droga. L'intreccio delle vicende, costruito con bravura e rara maestria, non ha altro intento che quello di mostrarci le varie facce di una stessa medaglia, che ruotano senza sosta intorno allo stessa parola: droga. Da vendere, da sequestrare, da usare. Questi sembrano essere i tre momenti chiave che Steven Soderbergh, regista del film, cerca d'evidenziare e approfondire. Lo fa donando ad ogni storia un colore diverso, che va dal fastidioso seppia per l'arido Messico terra di conquista dei narcotrafficanti, al blu tronfio e conservatore della Washington dei palazzi del potere dove si discute ma in realtà non si fa niente. Soderbergh non si preoccupa d'indirizzare il pubblico, o di mostrargli ciò che lui pensa del problema trattato, si limita soltanto a raccontare quelli che sono fatti, e non è un caso che per la realizzazione di questo film si sia messo personalmente dietro la macchina da presa. Non ci sono falsi moralismi a coprire le azioni dei buoni, ne tanto meno giustificazioni per le azioni dei cattivi: in questo film ognuno tira l'acqua al proprio mulino, ognuno persegue il suo intento, con l'unico scopo di uscire vivo da una guerra che in se stessa sarà sempre l'unica a rimanere in vita, alimentata dalla violenza, dalla stupidità e dalla superficialità dei molti. Non c'è dubbio che tutte le storie raccontate abbiano la stessa forza e bellezza, ma se proprio si dovesse scegliere una sequenza che ci ha particolarmente colpito, viene in mente quella in cui Michael Douglas, bravo come sempre e forse anche di più, non riesce a portare a termine la sua conferenza programmatica sulla lotta alla droga, in seguito alla scoperta che la figlia è una tossicodipendente. Le sue ultime parole: "E' difficile combattere un nemico che a volte è la tua stessa famiglia, che vive sotto il tuo stesso tetto", rappresentano il pensiero del regista, che individua nel nucleo familiare, nella sua debolezza, il primo anello debole dell'intera catena che ruota intorno alle sostanze stupefacenti. Se gli sforzi si concentrassero sulla prevenzione invece che combattere inutili battaglie contro i cartelli della droga, probabilmente qualche risultato si otterrebbe. Il cast che partecipa al film, oltre al già citato Douglas, e composto dalla Zeta Jones, finalmente alle prese con un vero ruolo, dopo i film in cui era la bambolona di lusso del regista di turno, per giunger allo strepitoso Benicio Del Toro. L'attore portoricano, che può già vantare nella sua carriera film come "Paura e Delirio a Las Vegas" di Gillian e "Fratelli" di Abel Ferrara, risulta, nella sua interpretazione forte e sentita del poliziotto messicano, di essere una spanna sopra gli altri, e di candidarsi come uno dei grandi del cinema che verrà. Finalmente un grande film che ci arriva da Hollywood e che stranamente ha ricevuto più di una candidatura agli Oscar.
Un lampo di luce isolato in una notte eterna…
Matteo Catoni
Avaro anche di thriller di buona fattura (con
l'eccezione forse dei film di Michael Mann e volendo escludere, perché
non americano, il grande Takeshi Kitano e il bellissimo Ghost dog di Jim Jarmush) il cinema di Hollywood produce questo Traffic
(2000) di Steven Soderbergh (affermatosi con il sopravvalutato Sesso,
bugie e videotape) che può a buon diritto collocarsi tra le pellicole
più interessanti di un genere giunto ad una fase di incertezza e mancanza
di idee forti.
Il film di Soderbergh innanzitutto si svolge sulla base di due colori
netti e contrapposti, il giallo e il blu, ossia la polvere del Messico e
il nitore nordamericano, o se si vuole, più la povertà e la ricchezza.
Il canovaccio in apparenza non sembra discostarsi dai codici del genere:
la lotta fra buoni e cattivi fino alla catarsi finale. I piani narrativi
si confondono invece (sia pur in una stesura condotta troppo sul filo del
politically correct) quando militari e studenti borghesi modelli si
rivelano corrotti e drogati, quando il poliziotto onesto si scopre
traditore del proprio compagno e infine quando la moglie dello
spacciatore, vittima indifesa, si rivela essere, invece, complice del
marito. Basato su una struttura narrativa polifonica (dunque in montaggio
parallelo, mai tuttavia analogico come vedemmo in Short
cuts di Robert Altman) che appunto ce lo rammenta, come anche Magnolia
(1998) di Paul Thomas Anderson. Ma qui il gioco di incastri, di
incroci e di coincidenze si limita ad alcuni "spostamenti" dei
personaggi dall'alto (America) verso il basso (Messico) uniti naturalmente
da un comune denominatore, la caccia. E' altresì indubbio che Traffic risenta di uno stile composito che mescola con fin troppa
disinvoltura (ma anche superficialità) noir, cinema processuale e
thriller "verticistico" (sulla scorta di certi best-seller
contemporanei, v. Le Carré, Grisham etc.) richiamandosi talora ad altre
opere (come ad esempio alla figura del padre borghese che va alla
disperata ricerca della figlia finita nell'ambiente del porno in Hardcore
di Paul Schrader).
Un film
bicefalo, schizofrenico, con una parte "americana" volutamente
piatta e una "messicana" intensamente cromatica, di un realismo
di grande efficacia e sobrietà.
Maurizio
Fantoni Minnella
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