Recensioni
|
Corpi in mutazione
costante
Paul Verhoeven, ovvero colui che fu il regista di Robocop, era quasi una scelta obbligata nel momento in cui ci si è trovati di fronte al problema di trovare qualcuno che dirigesse the hollow man, la next big thing hollywoodiana in tema di mutazioni di corpi. Il corpo è il filo conduttore, e a ben vedere, sembra l'unica cosa (davvero l'unica) che interessi a Verhoeven, e le conferme arrivano da chi conosce a fondo la sua carriera cinematografica nella sua interezza (leggere l'illuminante articolo di Pier Maria Brocchi su Cineforum 396). La lamiera è stata in Robocop la corazza di protezione imperforabile che trasudava sentimenti umani e qui l'invisibilità è la negazione di un corpo che soccombe. Il corpo invisibile di Caine è presente più di ogni altra cosa, una presenza assillante, fortissima, esplosiva, carnale, basti vedere la sequenza della scomparsa (visuale) del corpo dello scienziato, la pelle che prima di scomparire oppone una resistenza dolorosissima, strenua come non mai, che cerca di imporsi e soccombe. Verhoven dimostra di essere pienamente a proprio agio nel costruire intorno al corpo umano mutazioni protettive, che lo celino e lo isolino dagli agenti esterni. In Robocop scompariva la mollezza, qui scompare l'impatto visivo e al cinema, a dire il vero, non è impresa facile. Cosa succede quando l'immagine scompare? L'invisibile al cinema e in fotografia (arti del visibile) equivale all'inesistente, ma Verhoeven riesce nell'ardua impresa di ridare una potente fisicità a un corpo che non c'è, la cui fisicità è nascosta, e lo fa attraverso le immagini, proprio quelle immagini che l'invisibilità dovrebbe aver negato. I migliori risultati li ottiene attraverso la fusione del corpo con gli elementi (l'acqua nella piscina, la terra nella solidità incerta della maschera di lattice, l'aria in forma di vapore e infine il fuoco) elementi che lo attaccano e vorrebbero intaccarlo, coprendone ogni millimetro quadrato, aderendogli furiosamente, squarciandone prepotentemente il velo d'invisibilità che lo protegge, smascherandolo in tutta la sua fragile nudità. Una nudità profondissima, feroce, assoluta e selvaggia quella che Verhoeven mette in scena, la nudità come visibilità di ogni meandro del corpo, ogni tessuto, ogni organo, ogni vaso capillare e ogni osso, sostanze molli e corruttibili che scompaiono e ricompaiono faticosamente, rischiando ogni volta di liquefarsi mollemente. Il lavoro intorno al corpo di Caine è insomma esemplare, ma sembra proprio che Verhoeven si sia preoccupato soltanto di questo, cosa peraltro lodevole, dal momento che non si può far altro che inchinarsi di fronte a un uomo che riesce a coniugare con tanta indifferenza la propria ricerca stilistica con le più becere esigenze di mercato. Le parole di Kevin Bacon (colui che interpreta Sebastian Caine) pronunciate sul terrazzo di un ristorante suonano decisamente come una dichiarazione d'intenti pura e semplice: "io amo la grandeur, lo spettacolo, non posso preoccuparmi delle inezie". E infatti come l'intera vita di Caine è stata vissuta in funzione di quelle poche, grandi scoperte scientifiche che ne attestavano la superiorità , così il film vive di quelle "scene madri" che esplodono tutto il talento visionario di Verhoeven. Il resto, ovvero tutto ciò che a Verhoeven non interessa, sembra abbozzato e lasciato al caso (una sceneggiatura incredibilmente prevedibile non aiuta di certo), come la storia d'amore tra la "ex" di Caine e un altro scienziato dal volto così fastidiosamente plasticato e soap-operistico da cadere ben presto nel ridicolo, o il crollo psicologico di Caine verso il Male, o ancora il catastrofismo inutile forse troppo marcatamente parodistico (ma non giurerei che si tratti di parodia) del finale. Le incursioni nel cinema di genere sono molto interessanti (una trovata fantastica quella di Verhoeven- anche se mal riuscita-, quella di passare in rassegna l'impatto che avrebbe la scoperta dell'invisibilità sui vari generi cinematografici, a partire dall'erotismo, passando per l'horror e lo splatter fino ad approdare al thriller) ma prive di spessore.
Non è forse nemmeno il caso di far notare come Verhoeven possa contare su tecnologie ormai avanzatissime in fatto di effetti speciali (anche se l'invisibilità credo sia frutto del caro vecchio Chroma Key debitamente perfezionato, un procedimento elettronico che in tv vediamo ogni giorno, tanto per intenderci), una volta tanto utilissimi e sfruttati in maniera magistrale (credo che i passaggi dei corpi dal visibile al non visibile inchioderebbero alla poltrona qualsiasi spettatore).
Stefano Trinchero
Un brutto finale puo' rovinare un film?
E' curioso constatare quanto sia influente il finale di un film sulla sua valutazione complessiva. La sensazione e' che gli ultimi fotogrammi siano i primi ad essere oniricamente elaborati per produrre quel mix di istinto e ragionevolezza che si aggira per la mente con il nome di retrogusto. Tutto cio', per capire come mai l'ultima parte del nuovo film, del sempre interessante Verhoeven, sia in grado di svalutare, di colpo, l'intera pellicola. E' come se le tante ovvieta', che si succedono nel modo piu' becero nella parte finale, fossero in grado di smascherare la reale natura di blockbuster di grana grossa, piu' volte scongiurata nel corso della visione, grazie alla predilezione del regista, ormai marchio d'autore, per i lati oscuri della personalita' dell'individuo. Il fatto di essere invisibile, infatti, scatena nel protagonista molteplici opportunita' di risultare impunito nella realizzazione di desideri sopiti o capricci della mente, che la visibilita' avrebbe comodamente messo a tacere. Ed e' interessante questo aspetto, come anche l'incredibile riuscita visiva degli effetti speciali, che abbinano in modo molto naturale e fluido la maschera vuota del protagonista (l'"hollow man" del titolo originale) con il resto del set. Peccato, quindi, che gli aspetti psicologici dei personaggi, ben motivati nella prima parte, sfocino in un horror dei luoghi comuni, debitore di "Alien" e di mille altri film. L'unica consolazione, a tutela dell'autore, e' l'ipotesi di ingerenze produttive per evitare di rendere il film troppo "nero", e quindi poco adatto a una vasta audience, sottovalutando, come ormai solito, l'intelligenza e le aspettative del pubblico.
Luca Baroncini
Un tema classico per un film classico
Ritorna sullo schermo uno dei temi cari all'antica fantascienza hollywoodiana, vale a dire lo scienziato che altera il suo corpo. La sfida tra la natura umana, che può essere mutata e manipolata, e gli uomini, in questo caso uno scienziato, che vuole sfidare se stesso e il suo essere, è uno degli argomenti più utilizzati dai vecchi classici, e la lista di film che s'ispirano a questo genere di trama è sterminata. Inquadrato il genere di film, si ha ben chiaro in mente ciò che c'aspetta, anche considerando il caro vecchio Paul Verhoven, regista capace di buone prove ma anche di pessime, e sempre in bilico tra un cinema commerciale-alternativo, che la maggior parte delle volte non riesce ad essere né l'una né l'altra cosa. Ma cimentandosi in un'opera concreta e ben sceneggiata, questa volta non fallisce il colpo, anche se di certo non lascia una produzione memorabile. Un film ben congegnato, anche se un po' scontato, degli attori bravi, e soprattutto degli effetti speciali veramente coinvolgenti e convincenti. Un buon equilibrio, dato dal manierismo del regista, dona al film un ritmo ed una successione scenica del tutto equilibrate e piacevoli, evitando accuratamente inutili spiegazioni o superflui dialoghi. Da notare e sottolineare, l'ottima riuscita della sequenza della trasformazione di Kevin Bacon, veramente avvincente nel suo irreale realismo. Ma c'è una grande pecca che mina tutto l'esito del film; ci si chiede infatti per quale motivo non si sia sfruttata a pieno la capacità di creare situazioni da parte dell'uomo invisibile. Sembra poco credibile che uno scienziato, appena acquisito questo tipo di potere, si limiti a spiare o a molestare la donna che ha sempre osservato dalla finestra, ed invece non vada in giro a seminare il panico. Risulta troppo immediato e repentino il cambiamento che colpisce questa persona, e sinceramente il finale, anche se ben girato, risulta al di sotto delle aspettative. C'è una buona costruzione della tensione, ma alla fine si sciupa tutto in uno scontro all'interno del laboratorio, prevedibile a livello situazionale e troppo schiavo dei cliché di sorta.
Esistevano circa 6000 modi per terminare questo film in maniera originale, o per lo meno, più avvincente, ma si è optato per la soluzione più comoda e scontata.
In definitiva una produzione che vi farà passare due buone orette, anche se qualcosa in più era giusto aspettarsi.
Matteo Catoni
Quel che resta del corpo
Diciamolo: ci si attendeva qualcosa di piu' da Verhoeven alle prese con un soggetto che coniuga i suoi due "interessi" piu' forti, sesso e fantascienza. Ci si aspettava qualcosa che andasse oltre, volendo essere ben disposti, l'uso dello stereotipo con intenti parodistici gia' visto (ma molto piu' riuscito e beffardo) in Starship Troopers. Tralasciando lo strambo e noioso finale (pur imbellettato in qualche modo dall'ormai inevitabile citazionismo), le solite facce da soap opera dei protagonisti e la svogliata sceneggiatura, rimangono a salvare il film qualche spettacolare e succoso (!) effetto speciale, ma soprattutto l'intuizione che regge l'intera parte centrale (la migliore) del film. L'invisibilita' dello scienziato si trasforma in paranoia di tutti i suoi collaboratori. Questo e' sottolineato magistralmente da Verhoeven con un lavoro complesso di cambi di inquadrature e punti di vista, che spesso passano attraverso la soggettiva del protagonista. Non sappiamo se stiamo guardando la scena con gli occhi invisibili (senza palpebre: ossessione scopica, coazione a vedere) di Bacon o con quelli impersonali e oggettivi del film, non sappiamo dove siamo, dove sia il protagonista, anzi forse ora siamo lui: eccoci a condividere paranoia e sospetto, mentre inseguiamo sullo schermo un personaggio, un attore che non troveremo perche' spesso non c'e', realmente, nell'inquadratura. Altro che effetti speciali, la zampata di Verhoven sta proprio qui: il film e' piu' prezioso, piu' interessante dove e' piu' "semplice", dove addirittura del protagonista si
puo' fare a meno, letteralmente. Si fosse pure fatto a meno del finale...
Angelo Taglietti
|