YI-YI
(Yi Yi)

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REGIA:    
Edward YANG

PRODUZIONE:   Taiwan/Giappone   -   2000   -   Dramm.

DURATA:  173'

INTERPRETI:
Nien-Jen Wu, Elaine Jin, Issey Ogata, Kelly Lee, Jonathan Chang, Hsi-Sheng Chen, Su-Yun Ko

SCENEGGIATURA:
Edward Yang

FOTOGRAFIA: 
Wei-han Yang

SCENOGRAFIA: 
Peng

MONTAGGIO: 
Bo-Wen Chen

MUSICHE: 
Kai-Li Peng

Trama

I fatti della vita di una famiglia borghese di Taipei.

Recensioni

 

 

 

Freddi quadri di vita

Nessun dramma epico, nessun intrigo complicato, squarci di una vita nella quale si penetra con dolcezza. Eventi semplici: un uomo che, ritrovando una donna del passato, passa al vaglio la sua esistenza; sua figlia che vive un'amicizia e un amore con i tormenti tipici della sua età; una moglie che si accorge che la sua vita è fatta di niente, la nonna che, caduta in coma, diviene lo specchio nel quale la famiglia tutta va a riflettersi per scoprire un'immagine di sè sconosciuta o rimossa, a volte la foto impietosa di una magra esistenza. E' una saga in tono minore quella che Yang ci presenta, una saga che non racconta nulla a parte la vita ed è difficile non riconoscere al regista la capacità di penetrarne i meccanismi con finezza e, talvolta, con garbo gustoso.
Osannato, a Cannes 2000 si gridò al capolavoro, YI YI suggerisce la sua poetica delle piccole cose, dell'evento minimo, con innegabile grazia, in virtù di una notevole regia, una strepitosa direzione d'attori, una variegata scelta di prospettive, a tratti incantevoli, una ricercata composizione dell'immagine che, non di rado, sfiora la suggestione. Yang ha l'indubbio merito di non sentenziare, guarda lo snodarsi del vissuto con occhi da entomologo, distaccato seppur interessato, non trancia giudizi, non impone morali. E' assolutamente notevole la divagatoria scelta di campo dell'autore, il suo entrare e uscire dal quotidiano dei caratteri - in alcuni casi reso con trasparente efficacia -, il suo soffermarsi su un dettaglio, come su una panoramica di insieme, prediligendo l'una o l'altra possibilità a seconda dei casi, a volte avvicendandole, a volte usandole in significativa sequenza, quasi sempre, comunque, imbroccando la strada giusta (basti l'alternarsi delle scene del padre con la vecchia fiamma e della figlia col ragazzo dell'amica come fulgido esempio). Ma, a ben guardare, non è tutto oro quello che luccica: il ritratto, proprio perche' cosi' impeccabile e misurato, manca di emozione, non vibra, non coinvolge, (lo dico?) manca di vita, cosa non da poco tenendo conto che è la vita che si intende ritrarre. Dietro l'apparente perfezione di YI YI si nasconde un gelo, e davanti si forma una patina di ghiaccio che, trasparente, non avvertiamo subito ma che alla lunga appanna tutto, tutto avvolgendo e risolvendo l'intento descrittivo dell'autore in una serie di frigide miniature. L'altro guaio sta nella scoperta volontà di una rappresentazione esistenziale che, senza essere dittatorialmente didattica, vuol comunque significare qualcosa ad ogni costo. Si prenda il personaggio del bimbo, così saggio, così compito, così amabilmente birbante: è un contributo pittoresco che fa precipitare tutto verso un poeticismo di bassa lega che contraddice, nella sua trita matrice letteraria (fumettistica, banalmente paradigmatica, va), l'assunto naturalistico sul quale il film si era retto fino a quel punto. L'ultima parte, poi, lascia troppo spazio a un didascalismo e a un patetismo fino a quel momento assenti e intacca l'equilibrio di un'opera che, pur nella sua rimarchevole fattura, denuncia un vuoto corposo (mi si passi l'ossimoro) che è difficile non avvertire. Se l'intento di Yang e' quello di consentirci l'ingresso nel piccolo mondo dei suoi personaggi, di farci vivere la loro vita, di regalarci lo spaccato di una situazione,
posso dire (chè l'impressione è mia e non mi azzardo a rivendicarla per altri) che di quello che dice e mette in scena me ne impippo alquanto (e questo, quel che fa più male, già dopo mezz'oretta) e che entrare in queste
microstorie e' come uscirne: ugualmente indifferente. Rebus sic stantibus la scena chiave risulta quella in cui la ragazza, riportando all'amica una discussione, dice che se un film deve essere un quadro della vita tanto varrebbe restare a casa e vivere la propria. E' un evidente e divertito scherzare, da parte dell'autore, con la potenziale critica esprimibile nei confronti del suo film. Apprezzo il disincanto che Yang manifesta in questa occasione ma confesso essere del partito.

Luca Pacilio


Dall'Oriente immagini limpide ma lontane

Il cinema ha il grande potere di creare un punto di vista diverso rispetto alla realta' delle cose. Ecco quindi l'occasione di vedere l'impossibile entrando nella traiettoria del sudore sulla fronte di Brad Pitt in "Fight Club", o nella camminata delle cimici sul cuoio capelluto ne "La citta' dei bambini perduti". In altri casi, pero', dall'infinitamente piccolo si passa all'infinitamente grande e il cinema permette di vedere due personaggi in lontananza, persi nel paesaggio, e di sentire distintamente cosa dicono, come nella passeggiata autunnale per Central Park tra Woody Allen e Juliette Lewis in "Mariti e mogli".
Sono entrambi estremi di un mezzo espressivo che riesce, abbinando la fantasia e la tecnica, la' dove i rigidi limiti imposti dalla realta' e dalle sue regole fisiche, falliscono. 
Ecco quindi l'orientale "Yi Yi", premio alla regia al Festival di Cannes del 2000, che si inserisce in questa prospettiva attraverso la rappresentazione della ciclita' della vita, con le sue stagioni e i suoi amori e disamori, da un punto di vista spesso distante che consente, non senza una certa fatica, di arrivare all'interno di sentimenti ed amozioni.
La storia si apre con un matrimonio e si chiude con un funerale. In mezzo la quotidianita' di un nucleo familiare di TaiPei. La narrazione procede suguendo un ritmo molto "orientale", almeno nell'accezione occidentale del termine. Gli eventi, infatti, anche forti, si succedono in modo pacato e senza clamori, attraverso una messa in scena tanto semplice quanto attenta ai dettagli. Alla freddezza esteriore corrispondono moti interiori potenti, che il piu' delle volte restano inespressi. E la regia rispetta appieno questa interiorita' soffocata, costruendo con grande cura intere sequenze dove i protagonisti diventano parte di un contesto che visivamente prende il sopravvento. Ecco quindi un'intensa confessione d'amore lasciata in sottofondo a una stanza in penombra, dove in primo piano c'e' un letto mentre i protagonisti, di cui si intravedono solo le sagome, parlano sullo sfondo. 
Se la scelta risulta stilisticamente interessante, anche per la sua poetica forza espressiva, arriva pero' al cuore dello spettatore con il filtro della razionalita' e le tre ore di proiezione, pur lievi, hanno piu' di un inceppo nell'attenzione con cui si seguono gli eventi.
La sensazione e' di entrare all'interno di un nucleo familiare con cui si entra in confidenza, ma alle cui vicissitudini si partecipa mantenendo comunque una certa distanza. Come se tra lo spettatore e lo schermo ci fosse un vetro sottile in grado di trasmettere immagini limpide trattenendone pero' l'emozione.

Luca Baroncini

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