A.I. - INTELLIGENZA ARTIFICIALE
(A.I. Artificial Intelligence)

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REGIA:    
Steven SPIELBERG

PRODUZIONE: U.S.A.   -   2001   -   Fantascienza

DURATA:  146'

INTERPRETI:
Haley Joel Osment, Jude Law, Frances O’Connor, Brendan Gleeson, Sam Robards, William Hurt 

SCENEGGIATURA:
Steven Spielberg
(dal racconto Supertoys Last All Summer Long di Brian Aldiss)

FOTOGRAFIA:
Janusz Kaminski

SCENOGRAFIA: 
Rick Carter

MONTAGGIO: 
Michael Kahn

EFFETTI SPECIALI:
Stan Winston - Michael Lantieri

COSTUMI: 
Bob Ringwood

MUSICHE: 
Paul Barker – Al Jourgensen – John Williams

Trama

In un futuro mai così prossimo, i coniugi Swinton, genitori di un bambino affetto da una malattia incurabile, adottano un robot. David è un bimbo meccanico, un automa programmato per concedere amore senza condizioni…

Recensioni

 

 

 

Casa di Teddy

Fin dagli esordi del cinema la “macchina vivente” è stata, sotto le forme più svariate, dal mostro metallico all’androide, al centro dell’attenzione di molti sceneggiatori e registi, non solo fra quelli dediti al genere fantascientifico. Attraverso la settima arte, nata in un’epoca d’importanti scoperte scientifiche, molti hanno tentato di anticipare con l’immaginazione non solo l’evoluzione delle tecnologie, ma soprattutto come tali cambiamenti avrebbero inciso sulla vita quotidiana. Da questo punto di vista, il nuovo film di Spielberg s’inserisce alla perfezione in una tradizione decennale, anzi, quasi secolare.
Quello che cambia è lo sguardo rivolto ai robot: non più lo sguardo del costruttore, Michelangelo contemporaneo che contempla, con percepibile fastidio, l’imperfezione di ciò che ha creato, ma quello della creatura, dell’essere mostruoso, del “diverso” (da sempre l’angolo di osservazione prediletto dal regista). La domanda alla base di “A. I.” non è “quanto di umano c’è in un robot?”, ma piuttosto “quanto di meccanico c’è in tutto quello che consideriamo umano?”: e davvero si stenta a definire “umani” (nell’accezione ordinaria del termine, che lega, con un’equazione davvero disinvolta, al concetto di umanità quello di pietà) persone incapaci di sentimenti disinteressati (Henry, che “adotta” David solo per compiacere i superiori), sempre preda di dubbi e rimorsi ma restii ad ammorbidire il proprio egoismo (Monica, in cerca di un surrogato del figlio, che allontana il “mecha”, senza ascoltare le sue suppliche e le sue spiegazioni, subito dopo che le mutate circostanze lo hanno reso superfluo), quasi involontariamente colpevoli dell’infelicità altrui (il professor Hobby, profondamente affezionato a David, che dà il colpo di grazia alle massime aspirazioni del bambino mostrandogli la sua origine e, in un certo senso, la sua discendenza).
Alla fine, i più umani sono i robot, perché – come nel caso del protagonista – hanno almeno uno scopo per cui continuare a vivere e a sperare. Il riferimento, esplicito ed insistito, è al romanzo di Collodi, ma si può scorgere, in questo essere coccolato da adulti in mala fede, improvvisamente costretto a crescere e determinato ad affermarsi come individuo, il fantasma di Nora Helmer. David non razionalizza la sua ricerca di adempiere “ai doveri verso se stesso”, ma l’avverte, anche se in modo oscuro, sotto forma di riconquista dell’amore materno.
Ma, se l’eroina di Ibsen alla fine del dramma trova il coraggio di cominciare una nuova vita, per quanto irta di difficoltà, il bambino automatico di Spielberg ha meno fortuna: la sua lunga ricerca approderà al cerchio della mente, ed il solo appagamento che gli sarà concesso, dopo millenni di preghiere rivolte ad un idolo bellissimo e fragile, non potrà essere che un sogno lungo un solo giorno. Forse neppure Kubrick avrebbe saputo essere più sconsolato e più disperatamente romantico di così.
Inquietante nella sua algida perfezione formale, “A. I.” è, oltre che un romanzo di formazione, un ripensamento non stupido del valore artistico e “sociale” (la definizione è brutta, ma calzante) del genere fantascientifico: parlando di robot, il regista mette in scena, senza concedere “pietosi” sconti, la commercializzazione e la meccanizzazione dei sentimenti e, più ancora, la strumentalizzazione degli altri che operiamo nella vita quotidiana, senza rendercene (quasi) conto. Le riflessioni di W. Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica sono applicate agli esseri viventi (come sono i robot della nuova generazione), a provare per l’ennesima volta che l’economia non solo fa girare il mondo, ma determina la vita affettiva e la costruzione del sé.
Spielberg dirige con mano sicura, calibrando gli effetti in base all’espressione degli affetti, e realizza il suo film più solido e compatto da molto tempo a questa parte. “A. I.”, all’apparenza solo una fiaba postmoderna, è forse il più lucido apologo firmato dal regista statunitense: la retorica roboante e molesta di film come “Il colore viola” è attenuata dal tono onirico, fuori dal tempo e da ogni altra coordinata razionalizzabile, della messinscena, e dall’andamento sussurrato, appunto “da fiaba”, del racconto.
Gli ambienti disegnati da Rick Carter (scene) e Bob Ringwood (costumi), con gli effetti sorprendenti di Michael Lantieri, lasciano senza fiato, e alcune trovate (il gran saggio – motore di ricerca) sono memorabili, ma in questo spettacolo astrale la fanno ancora da padroni gli attori (a dispetto di chi lo vorrebbe sostituire integralmente con insipide figurette realizzate al computer). Frances O’Connor ha tutta l’acuminata, dolente ambiguità del ruolo, William Hurt è efficace e misurato come non gli era mai successo nel corso della sua carriera; bene gli altri. Ma sono i “mecha” i veri prodigi: Jude Law, levigato come una bambola di porcellana, si tiene in miracoloso equilibrio tra la verve della “spalla” comica (geniali gli optional) e la pietrificante certezza della propria immutabilità. Haley Joel Osment, poi, non recita la parte di un robot, ma “è”, alla lettera, David: un bambino – mostro (di bravura), tanto perfetto da sembrare finto e troppo commovente, nella sua solo apparente imperturbabilità, per non essere vero: i suoi occhi (dis)chiusi sono i fari che inaugurano la navigazione nel millennio.

Stefano Selleri


Spielberg o Kubrick?

Dopo anni di gestazione e buona pace tra chi vede inconciliabile la linea registica di Stanley Kubrick con quella di Steven Spielberg, ecco finalmente il frutto di tanta fatica. Intanto è bene subito chiarire, per evitare ulteriori discussioni al riguardo, che "A.I." è un film di Steven Spielberg, che ha curato anche la sceneggiatura, nato da un'idea e da un progetto di Stanley Kubrick. E il risultato è un film forse non equilibrato, nei tre atti in cui, per comodità, può essere suddiviso, ma sicuramente capace di suscitare grandi emozioni.
Tutto parte in un futuro non troppo lontano, dove l'evoluzione ha portato a costruire sofisticati robot in grado di provare emozioni. Uno dei primi prototipi viene affidato in via sperimentale ad una famiglia. In questo contesto intimo e raccolto si svolge la prima parte del film, a cui segue un momento di grande commozione prima di seguire l'evoluzione del piccolo David, sempre  più umano e meno robot. Del resto quando si parla di madri, figli, abbandoni, le lacrime sono sempre in agguato, ma il regista riesce a colpire senza cadere in facili patetismi grazie alla forza della storia che racconta.
La parte centrale, che segue il cammino del piccolo David attraverso un efficace e poetico parallelo con la favola di "Pinocchio", è forse quella meno convincente. Da un'atmosfera silenziosa e introspettiva si passa ad un fuori caotico, dove trionfano gli effetti speciali, i personaggi diventano a senso unico e la narrazione incappa in qualche buco logico. Interessante la figura del gigolo Joe, ben interpretato da Jude Law, ma un po' irrisolto il suo legame con il protagonista e il modo frettoloso con cui viene liquidato.
Con la parte finale, invece, si giunge ad un bivio. Se prevale la razionalità si rischia di trovare la conclusione patetica, se invece si riesce a spogliarsi di qualsiasi corazza critica, o meglio da critico (e il film ha la capacità di condurre a questo stato emotivo), si entra nella poesia, nel lirismo, nella favola, nel sogno e nella sincera commozione. Peccato per il disegno poco originale dell'ulteriore evoluzione umana, forse un omaggio alle stilizzate creature di "Incontri ravvicinati del terzo tipo".
Tante le considerazioni suggerite dal film: i limiti etici della tecnologia, l'incerto futuro dell'uomo, l'integrazione tra diversità, ma su tutte domina il lato emozionale, acceso nella prima parte, in stand-by in quella centrale e in loop nella struggente conclusione. Chissà, forse nelle mani di Kubrick avrebbe avuto un taglio diverso, ma che importa! Godiamoci l'opportunità di tornare bambini con una bella favola! Senza difese razionali e con gli occhi spalancati!

Luca Baroncini


Né Stanley Spielberg, né Steven Kubrick

Per valutare la bontà di A.I. conviene forse improvvisarsi chirurghi e sezionare il cuore dell’opera; da una parte abbiamo il ventricolo delle “intenzioni”, dall’altro quello dei “risultati”. Le intenzioni di Spielberg sono più che evidenti e si respirano dal primo all’ultimo minuto di pellicola: palesare, omaggiare e rendere modestamente e rispettosamente giustizia all’ombra che il Gigante Stanley proietta sul film (Stanley Kubrick è il primo nome proprio che compare nei titoli di testa). A ogni costo. A costo di rimuovere gran parte della propria personalità. Non è di Spielberg l’atmosfera  cupa, a tratti disperata, che aleggia sulle peripezie del piccolo mecha David; non è di Spielberg una galleria di personaggi che sfugge con evidente intenzionalità ad ogni tentazione manichea; non è di Spielberg lo humour scuro che strappa sorrisi tutt’altro che rassicuranti; non è da Spielberg la scelta di un referente fiabesco splendido e terribile come il Pinocchio collodiano; non è di Spielberg la misura e la ricercatissima freddezza con cui sono tratteggiati i momenti potenzialmente commoventi e di grande intensità emotiva; non sono di Spielberg (benché da lui scritti, insieme all’intera sceneggiatura, il che è una vera rarità nel  suo cinema) i dialoghi amaramente (para)filosofici messi in bocca a mecha, orga e supertoys; non è di Spielberg la deriva (quasi) astratta, (quasi) enigmatica a cui il film si abbandona nell’ultimo terzo della sua vita incerta e contraddittoria. Infatti il risultato di tutti gli evidentissimi e fin troppo manifesti sforzi di Steven Spielberg si cristallizza in un'opera assolutamente incoerente, sofferta e faticosa che alla fine sembra accasciarsi sotto l'immane peso delle sue ambizioni. Fondere armonicamente due delle anime più distanti del Cinema contemporaneo era impresa impossibile, benché (poiché) l'una abbia (ha) deciso di annullarsi in nome dell'altra, di interpretarla alla lettera e al massimo di filtrarla appellandosi alla propria sensibilità. Il che, e veniamo al punto, non è semplicemente giusto; non è giusto perché l’uno, Stanley Kubrick, non c’è più, e nessuno (senza bisogno di ricordare il maniacale modus operandi kubrickiano, l’estrema personalizzazione del suo cinema che diventa culto della [sua] personalità) sa cosa avrebbe fatto Kubrick se. Coi se e coi ma la Storia del Cinema non si fa. E non è giusto perché l’altro, Steven Spielberg, non aveva il diritto di rinunciare agli slanci patetici, alle schematizzazioni, alla melassa, alla retorica, alle lacrime, all’ingenuità e alla montagna di infantili giochi (Spiel-Berg per l’appunto…) che SONO il suo (gran bel) cinema, anche se lo stesso Spielberg sembra troppo spesso dimenticarselo. Non è un caso, infatti, che quando si azzarda ad alzare il tiro, quando “ambisce” e abbandona l’entertainment puro, combina disastri e gira banali filmetti francamente inutili: Il colore viola, Amistad, Salvate il soldato Ryan e Schindler’s List su tutti -(tra parentesi, quello Schindler’s List che proprio Kubrick non considerava un film sull’Olocausto perché “l’Olocausto riguarda sei milioni di persone che vengono ammazzate, S.L. parla di seicento persone che non vengono ammazzate”. Stanley dixit, indispettito dallo Steven "impegnato")-. A.I., che va ad aggiungersi a questa fallimentare Spielberg's List, eredita dai suoi compagni di sventura la pretenziosità di pseudoambizioni che si sciolgono come neve al sole, visto che tutto il precedente cinema serio(so) di Spielberg è alfine riassumibile nell'assunto "guerra e razzismo sono brutte cose", mentre A.I. ripropone/propina il risaputo incontro-scontro uomo-macchina , con progressiva umanizzazione di quest'ultima (HAL9000 e il Nexus6 Roy non avevano già detto tanto forse tutto?); ma non solo, a questo peccato originale A.I. ne aggiunge un altro originalissimo e già parzialmente illustrato: l'imitazione umile ma inopportuna e ovviamente fallita di un cinema altrui radicalmente "altro" dal proprio, cosa questa tanto più evidente proprio nel momento di maggiore mimesi, quando cioè A.I. "diventa" 2001 e David-Odisseo termina il suo peregrinare spingendosi "oltre l'infinito"… è proprio qui, nel momento della verità, che la "convivenza coatta" della strana coppia raggiunge il suo apice e il fallimento si fa palese: in Kubrick l'indicibile rimaneva tale e regnavano solo il silenzio e la pura, cristallina, criptica bellezza dell'Immagine. Spielberg non resiste. Riesce solo a scimmiottare le atmosfere della Space Odyssey ma si affida alle spiegazioni, che in breve diventano verbosità e che infine saturano il tutto con un sovraccarico informativo (per far rivivere la mamma viene scomodata perfino la clonazione) che lascia perplessi. Ecco quello che si ottiene sovrapponendo gli alieni (autocitati) di Incontri ravvicinati del terzo tipo (i mecha pronipoti di David) alle enigmatiche visioni indotte da un levigato monolite nero: un pasticcio. La somma di Due Anime non ne fa (ness)Una.

Gianluca Pelleschi

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Là dove nascono i sogni

Così è giunto l’ultimo film di Spielberg, come un lampo, che abbaglia disturbando un po’. In cosa si può sperare all’inizio del terzo millennio? Ora che tutto sempre andare per il verso sbagliato? L’amore sembra rispondere l’ormai uomo Spielberg, l’amore che lega un bambino alla propria mamma, l’amore che fa credere nei miracoli, l’amore che può rendere eterno un attimo della nostra esistenza. C’è molto in questo “A.I.”; c’è il tema dell’evoluzione dell’uomo, del rapporto tra scienze e natura, tra progresso e morale, ma c’è soprattutto l’amore. Questa parola acquista un significato grandioso, che sa di sfida; verso il proprio essere, verso gli altri, verso il mondo. Ciò che sembra lontano e irrealizzabile è in realtà ad un passo, ma questa piccola distanza non si può colmare senza credere in qualcosa. Il sentimento ancestrale che lega un figlio alla propria madre, è un qualcosa che neanche l’evoluzione dell’uomo verso altre forme di se stesso (vedi i robot che convivono con gli esseri umani) può modificare o distruggere. Al contrario, è proprio la forza del legame che s’instaura tra questo robotico piccolo David ( uno straordinario Haley Joel Osment!!!) e la sua mamma adottiva, che farà credere a questo bambino figlio del genio (perverso?) dell’uomo che l’amore lo possa far diventare come tutti gli altri, che finalmente potrà sedersi a tavola e mangiare, e che la mamma gli possa rimboccare le coperte prima che si addormenti. Questo desiderio di normalità, di chi si sente uomo in un corpo d’acciaio, di chi sente scorrere al proprio interno amore e non soltanto corrente elettrica, è il grido intero di una razza, quella umana, che ha bisogno delle sue macchine per ricordarsi che non c’è cosa più importante dell’amore. E francamente poco importa se l’opera sia a tratti prolissa, se il tutto non risulti perfettamente omogeneo e coerente, se lo spirito che Kubrick (sempre sia lodato) avrebbe voluto dare all’opera non è presente; l’unica cosa che conta, e che deve colpire lo spettatore (a meno che noi stessi amanti del cinema non ci scopriamo essere dei robot privi di sentimenti!), è la bellezza della favola, perché di questo si tratta, nulla di più, una gigantesca favola miliardaria prodotta dalla tanta odiata Hollywood, che lascia lo spettatore senza fiato per la bellezza della sua realizzazione.
E non venite a parlarmi dei difetti che indubbiamente sono presenti nell’opera, ma cercate di sentire quello che questo film vi ha trasmesso; cercate di ricordare quando eravate piccoli e qualcuno vi leggeva le favole, e pensate che la visione di questo film sia più o meno la stessa cosa. Sedetevi, guardate con gli occhi, ma soprattutto ascoltate con il vostro cuore. Questo film vi emozionerà, perché vi colpirà la dove nascono i sogni…ed oggi tutti hanno bisogno di sognare.

Matteo Catoni


Dovere Artificiale

Gesù incontra in Paradiso un vecchio e, chiestogli chi sia, si sente rispondere: "Sono un falegname, ho un figlio, nato in modo un po' anomalo che non ho più visto: è in giro per il mondo". Gesù gli grida: "Papà!" e il vecchio, abbracciandolo: "Pinocchio!" . Questa famosa barzelletta, con mille varianti, rende in maniera spicciola la somiglianza tra la figura del burattino collodiano e quella di Cristo. I paralleli si sprecano (dalla Fata Turchina\Madonna, agli zecchini d'oro\trenta denari, dal grido di Pinocchio agonizzante: "Oh babbo mio, se tu fossi qui!"\ Gesù sul Golgota: "Dio mio, perchè mi hai abbandonato?", alla trasformazione del burattino in bimbo in carne e ossa\ Gesù uomo che, risorto, si congiunge al Padre e cambia la propria natura) e basterebbe una lettura superficiale del testo per trovare montagne di associazioni più o meno
velate. Il film di Spielberg si rifà a Collodi in modo dichiarato e letterale: la mamma legge la favola e questa, una volta citata, viene vissuta\riprodotta da David (in cerca della fata
Turchina\madre, raggiunta dopo aver scampato la Fiera della Carne\ teatrino di Mangiafuoco, in compagnia di un "mecha" gigolò\Lucignolo) ma mi pare chiara, d'altra parte, la volontà di operare anche il collegamento evangelico nella scena in cui David manifesta, con simulacrale disorientamento, l'incoscienza della propria condizione, e nutre il "naturale" dubbio (tutto umano) sulla sua essenza (con toni più marcati rispetto al racconto di Brian W. Aldiss "Super-Toys Last All Summer Long" : Tu e io siamo veri, Teddy, giusto? L'orsacchiotto di peluche lo guardò senza battere ciglio. - Tu e io siamo veri, David - asserì. Era specializzato in consolazioni); oppure in quella della Fiera della Carne (il nuovo spauracchio nella serie dell'autore) in cui si alza l'inequivocabile grido: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra". Materia dunque interessante, ricca di spunti (tralascio volutamente il nucleo tematico del film: ragione e sentimento naturali e artificiali): non sorprende che Kubrick ne fosse preso al punto da rimuginarci per un bel po'. Ma qual è il risultato? L'autore di 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (curioso - ma mica tanto: che la scadenza fosse commercialmente tassativa? - che il film esca proprio nel fatidico anno) ci pensa su per anni e non si arrischia a cominciare le fatidiche riprese, Spielberg, "ereditati" i suoi appunti e gli storyboard, fa il film in un lampo e si vede. Non starò a soppesare quanto dell'uno e dell'altro ci sia nell'opera (lavoro, questo, da esperto filologo: leggersi, a tal proposito, la splendida recensione del sempre illuminante Paolo Cherchi Usai su SEGNOCINEMA n.111, che dice tutto e anche di più), nè mi metterò a deprecare l'operazione in nome di sentimenti kubrickiani che non ho mai avuto; nel mio piccolo, leggo il film per quel che è, cercando di non farmi influenzare dagli umori extratestuali che trasudano da ciascun fotogramma. Badiamo al fatto: AI è una pellicola (di Steven Spielberg) tirata via, in cui ad alcune intuizioni, talvolta notevoli, non solo sul piano tematico - concettuale ma anche su quello visivo, fanno seguito colate irrefrenabili di noncurante schifezza. L'inizio, per esempio, e' l'abusata, volgare infornata di informazioni che ha la funzione di far schiantare lo spettatore nel cuore della vicenda, con un William Hurt (c'era una volta... un grande attore! diranno subito i miei piccoli lettori; no ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno) che fa la sua lezione al pubblico. Puro Spielberg: nessun sottinteso, nessun lieve suggerimento, solo spiattellamento didascalico, (il diktat: non disorientare il pubblico; è forse proprio in questo aspetto l'abisso tra Steven e Stanley). Che l'immediato prosieguo sia la parte migliore del film vuol dire poco , visto che la seconda e la terza tranche di AI sono di rara, autocitante bruttezza. Il regista non rinuncia (ma qui se c'e una colpa è, come dire, ab ovo) al suo cinema infantile e moraleggiante che si vorrebbe fiabesco (HOOK, la noia); svogliato, rimane in superficie senza mai approfondire un risvolto, senza mai dimostrare un autentico interesse per quanto sta mettendo in scena, con la testa già a MINORITY REPORT (e a un carnet che prevede altri due film per il 2002 e il 2003). Stupisce la piattezza della messinscena, la striminzita creatività del design laddove bello, invece, è l'insistere sulla semplicità di qualche dettaglio (la smerigliatura del vetro all'interno della casa, uno schermo che separa metaforicamente organico e meccanico), così come piuttosto efficace appare la descrizione del rapporto tra madre e figlio artificiale (e riuscito, mi pare, l'intento di creare un disagio in chi guarda nel valutare la figura del protagonista che lo spettatore non vede mai completamente robot, ma neanche umano al punto da farsi amare), le crisi familiari, quella rabbrividente risata a tavola (se una scena rimarrà sarà questa). Sempre nella prima parte l'intuizione (di Aldiss) di un esterno che filtra, opaco, dalle finestre, e' ben assecondata; peccato che le scene in esterni banalizzino tutto, nel loro (probabilmente voluto) anonimo carattere. Il botteghino USA non lo premia come al solito ma il maestro e' tranquillo. Questa e' una delle sue opere doverose, non realizzate a fini di lucro: la causa razzismo (IL COLORE VIOLA, AMISTAD), la causa Olocausto (SCHINDLER'S LIST), la causa pacifista (SALVATE IL SOLDATO RYAN), oggi la causa Kubrick... In questi casi rientrare nei costi e' gia' un successo, la vera causa (il prestigio autoriale) è servita senza eccessivi danni, talvolta (spesso) con ricavi al netto, magari alla fine ci scappa pure l'Oscar e si è galvanizzati e pronti per il prossimo (barbosissimo) blockbuster. Sento (leggo) che questo film avvince il cuore, che tocca le corde dell'anima, che riesce a coinvolgere quella parte di noi che ama farsi cullare dalle illusioni. L'ultima parte (l'idea della New York sommersa, di chiunque fosse, meritava di più) mi pare invece di un calcolo (sballato) evidente... Spielberg fallisce e non riesce nemmeno in quella che (altri da noi) dicono essere la sua specialita': appassionare, commuovere, coinvolgere. La sincerità? Suvvia... Non credo che l'industria abbia un cuore (neanche artificiale), non vedo perche' Spielberg dovrebbe fare eccezione.

Luca Pacilio

Spazio lettori

 

 

Il significato dell'Arte

Ritengo fermamente che non abbia senso questo infantile bisogno di confronto e di contrasto tra due mostri del cinema, il compianto Kubrick (pace all'anima sua) e mastro Spielberg. Sono due registi fondamentalmente diversi, e questa pellicola porta la firma del secondo. Poste queste premesse, ecco il miglior film da parecchio tempo a questa parte; nelle ultime annate cinematografiche non è facile trovare qualcosa che eguagli il valore di questo "A.I.". Se andiamo a trovare il pelo nell'uovo, è chiaro che alcune incongruenze escono fuori: ma proprio perché il genere è fantascientifico, possiamo passarci sopra, per rimanere estasiati dal fascino di una fiaba triste. Spielberg rielabora il concetto tribale di Cinema e finalmente ce lo restituisce: la Settima Arte è semplicemente quella più fiorente, visivamente devastante; abile nel distribuire stupore, emozione, commozione, pensieri e dubbi, la telecamera di Spielberg è una scheggia impazzita che pare impossibile fermare. La fotografia raggiunge livelli eccelsi, soprattutto nei giochi di colore; la scenografia ti toglie il fiato dai polmoni.
Il regista prende in considerazione il rapporto uomo-macchina, un "topos" ormai caratteristico del mondo del cinema, fin dai tempi dell'immenso Fritz Lang. Però stavolta il "topos" viene rivoltato: il classico dubbio, "se le macchine sanno amare", muta la sua connotazione con la disinvoltura di una metamorfosi kafkiana. La domanda che Spielberg (si) pone è la seguente: gli uomo sanno ricambiare l'amore? Il concetto viene approfondito attraverso il viaggio di formazione di David e l'approdo finale alla Manhattan sommersa, dove si cela la Fata Turchina. Qui era fin troppo facile affogare nel pozzo della retorica, quella brutta bestia che aveva sfigurato il finale di "Salvate il soldato Ryan"; ma stavolta Spielberg ha deciso di tornare ad essere davvero grande, ed ogni goffo manierismo è mandato a farsi benedire. Di conseguenza, la conclusione si rivela incantevole e poetica, attraverso la forza di un grande paradosso: un robot diventa il custode della memoria umana.
La bravura di H. J. Osment è francamente sconcertante; il suo sguardo sempre vagamente triste lo rende perfetto per quel ruolo, estremo e difficile. Se si trova in quelle condizioni alla sua età, non oso pensare quale pezzo di attore possa diventare tra una manciata di anni; forse sarà un nuovo Jude Law, che anche qui dissemina scampoli di talento come coriandoli. Il suo ruolo ambiguo e complesso (ama meglio di un uomo, ma non è un uomo) viene nobilitato da una sceneggiatura spesso illuminata. Gli ultimi periodi cinematografici sono stati piuttosto mediocri; ci voleva qualcuno che ci ricordasse il significato del grande schermo. L'arduo compito è stato egregiamente svolto da Spielberg, che viene costantemente accusato di eccessivo nazionalismo e di moralismo buonisti; proprio per questo è essenziale sgombrare la mente dai pregiudizi per godersi "A.I." nella sua interezza.
Kubrick è morto, ma il Cinema a tratti riesce ancora ad essere Arte; coinvolgimento, lacrime e terreno di fertile riflessione. Si propone di esaminare a fondo l'Amore e di rivoluzionare concetti acquisiti, verità precostituite; vi riesce ampiamente.

Emanuele Di Nicola


Stefano
Selleri
9

Luca
Baroncini
8

Daniele
Bellucci

Simone
Ciaruffoli
Matteo
Catoni
8
Luigi
Garella
3
Luca
Pacilio
Gianluca
Pelleschi
5
Oboo
 
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Manuel
Billi
10
Alberto
Zambenedetti
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