Recensioni
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Pulp
Wien
Se
questo film voleva essere uno scherzo, d’accordo, fa abbastanza ridere
(soprattutto per merito della logorroica autostoppista interpretata da
Maria Hofstatter, la ragazza sbagliata ad ogni momento), si passano
due ore senza annoiarsi troppo e alla fine siamo tutti moderatamente
soddisfatti.
Ma se c’è la pretesa che sia considerato un film “serio”, uno
studio dell’alienazione e della deriva dei rapporti urbani nelle
periferie desolate dell’Occidente contemporaneo (ed averlo invitato a
competere per il Leone d’Oro fa propendere per questa seconda ipotesi),
allora è inevitabile riconoscere che questa sottospecie di affresco
sull'isteria collettiva è un medaglione di luoghi comuni trattati con
grevità, tra umorismo alla Porky’s e ambizioni altamente
tragiche, in cui gli interpreti sbraitano e si scatenano (anche in
un’orgia hard, peraltro fulminea, quasi un errore di montaggio), ma
senza alcun costrutto.
A questo punto, meglio Tarantino, che per lo meno ha un briciolo di
autoironia e sa come si utilizza una macchina da presa.
Stefano
Selleri
Alla
deriva
"Cosa
c'è da raccontare sulla felicità? La vita non tratta della felicità, al
massimo tratta della ricerca di essa e della delusione nel riconoscere che
è pressoché impossibile da raggiungere!"
Questa dichiarazione del regista austriaco Ulrich Seidl è sicuramente il
miglior commento alla sua opera prima di finzione cinematografica.
È, infatti, un'umanità disperata e senza coscienza quella che popola il
suo film, che vive alla periferia di Vienna nel silenzio di candide
villette a schiera, in un paesaggio delimitato unicamente da autostrade,
iper-mercati e grandi magazzini. Sei micro-storie si sfiorano in questo
ambiente, ma più delle singole storie sembra importante per il regista
colpire lo spettatore, mostrandogli desolazione, solitudine e squallore. E
in questo senso Ulrich Seidl pare odiare i suoi personaggi: li umilia, li
rende ridicoli, li priva di qualsiasi dignità. L'unica simpatica e vitale
(un'autostoppista cresciuta con la televisione che gira sciorinando
classifiche e dicendo tutto quello che pensa) è mezza pazza e verrà
ingiustamente punita.
Come se nemmeno nella pazzia ci si potesse salvare.
Disturba il film, nonostante gli intenti di critica sociale siano presto
chiari e lo sviluppo degli intrecci raccontati sia soffocato da una certa
prolissità. Disturba riscontrare l'ennesimo vuoto di una classe sociale
(la borghesia? Ma ha ancora senso usare questo termine?) cresciuta
all'ombra di un successo esclusivamente materiale fondato su soldi,
status-symbol, possesso, dove l'impossibilità di comunicare è un dato di
fatto contro cui si è ormai smesso di combattere.
Ogni
tanto però, nella perfetta e crudele geometria delle location, si aggira
lo spettro di un giudizio morale. Come se un rapporto sadomasochista o il
sesso tra persone anziane debba per forza essere sinonimo di squallore e
vacuità, e questo rischia di inquinare la lucidità della critica
sociale. Nell'insieme, comunque, la deriva umana di cui si è testimoni,
punto di arrivo le cui motivazioni vengono lasciate allo spettatore,
colpisce e scuote dal torpore di una rassicurante indifferenza mascherata
da sorrisi.
Luca
Baroncini
Ordinarie storie di straordinaria follia
Sudati,
appesantiti e affannati dal caldo dell’estate austriaca, i corpi di
Seidl si esprimono attraverso tre linguaggi ai quali l’uomo puntualmente
ricorre ogni giorno della sua vita: la parola, il sesso e la violenza.
Tuttavia, Seidl nega ai suoi personaggi la possibilità di comunicare
attraverso di essi, e l’inevitabile frustrazione che ne deriva sfocia
inesorabilmente in manifestazioni di aggressività, che ancora si
canalizza e si esprime attraverso varie combinazioni di tali linguaggi.
L’intera triade quindi è privata del suo messaggio, e ogni tentativo di
avvicinamento ricade nella perpetrazione di maltrattamenti e umiliazioni.
La parola, o la sua totale assenza, è usata per ferire tanto quanto la
violenza, che si abbatte impietosamente sui corpi stanchi, grassi, vecchi
e nudi dei personaggi. Le abrasioni, i tagli, le bruciature, non sono
altro che le conseguenze del fallimento di ogni tentativo di ricerca di un
contatto umano. L’eccessiva ma innocente verbosità di un personaggio
verrà quindi punita con violenza e stupro, che non è che il risultato
della somma di due elementi della triade. Viceversa, il personaggio
afasico subirà lo spettacolo del tradimento, altra variante del binomio
sesso+violenza. Nel film di Seidl, chi fa sesso subisce violenza, verbale
e fisica: non c’è traccia di amore in esso. I suoi corpi sono
oltraggiati, umiliati, violentati, picchiati e derisi; la stessa macchina
da presa li fotografa crudamente, svelandone le imperfezioni, il
decadimento, la fragilità. La vecchiaia come la gioventù non sono che
fasi della vita delle cellule, non contengono ne saggezza ne bellezza, ne
maturità ne ingenuità. Vediamo solo organismi con una loro durata, che
si rincorrono animalescamente nella speranza di trovare comprensione e
sostegno, o forse semplicemente una spiegazione. L’unico piacere che
accomuna gli animali dello zoo Seidliano è l’esposizione al sole, che
piove indisturbato sui corpi arrossati e madidi di sudore, esibiti
impudicamente e ironicamente immortalati nella loro momentanea statica
fragilità.
Oltre
a questo, non c’è nulla, (come conclude l’anziano ingegnere quando
raccoglie il cadavere avvelenato del suo povero cane che giace esanime
nell’amato giardino), perché “la gente è cattiva”.
Alberto
Zambenedetti
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