CANICOLA
(Hundstage)

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REGIA:    
Ulrich SEIDL

PRODUZIONE:   Austria   -   2001   -   Drammatico

DURATA:  120'

INTERPRETI:
Maria Hofstatter, Alfred Mrva, Erich Finsches, Gerti Lehner, Franziska Weiss

SCENEGGIATURA: Ulrich Seidl - Veronika Franz

FOTOGRAFIA: Wolfgang Thaler

SCENOGRAFIA: Andreas Donhauser - Renate Martin

MONTAGGIO: Andrea Wagner - Christof Schertenleib

COSTUMI: Sabine Volz

MUSICHE: Markus Davy

Trama

Austria, sobborghi metropolitani. Mentre dardeggia la canicola, un gruppo di esseri variamente infelici e/o crudeli e/o annoiati si trascina a fatica tra le proprie miserie quotidiane.

Recensioni

 

 

 

Pulp Wien

Se questo film voleva essere uno scherzo, d’accordo, fa abbastanza ridere (soprattutto per merito della logorroica autostoppista interpretata da Maria Hofstatter, la ragazza sbagliata ad ogni momento), si passano due ore senza annoiarsi troppo e alla fine siamo tutti moderatamente soddisfatti.
Ma se c’è la pretesa che sia considerato un film “serio”, uno studio dell’alienazione e della deriva dei rapporti urbani nelle periferie desolate dell’Occidente contemporaneo (ed averlo invitato a competere per il Leone d’Oro fa propendere per questa seconda ipotesi), allora è inevitabile riconoscere che questa sottospecie di affresco sull'isteria collettiva è un medaglione di luoghi comuni trattati con grevità, tra umorismo alla Porky’s e ambizioni altamente tragiche, in cui gli interpreti sbraitano e si scatenano (anche in un’orgia hard, peraltro fulminea, quasi un errore di montaggio), ma senza alcun costrutto.
A questo punto, meglio Tarantino, che per lo meno ha un briciolo di autoironia e sa come si utilizza una macchina da presa.

Stefano Selleri


Alla deriva

"Cosa c'è da raccontare sulla felicità? La vita non tratta della felicità, al massimo tratta della ricerca di essa e della delusione nel riconoscere che è pressoché impossibile da raggiungere!"
Questa dichiarazione del regista austriaco Ulrich Seidl è sicuramente il miglior commento alla sua opera prima di finzione cinematografica.
È, infatti, un'umanità disperata e senza coscienza quella che popola il suo film, che vive alla periferia di Vienna nel silenzio di candide villette a schiera, in un paesaggio delimitato unicamente da autostrade, iper-mercati e grandi magazzini. Sei micro-storie si sfiorano in questo ambiente, ma più delle singole storie sembra importante per il regista colpire lo spettatore, mostrandogli desolazione, solitudine e squallore. E in questo senso Ulrich Seidl pare odiare i suoi personaggi: li umilia, li rende ridicoli, li priva di qualsiasi dignità. L'unica simpatica e vitale (un'autostoppista cresciuta con la televisione che gira sciorinando classifiche e dicendo tutto quello che pensa) è mezza pazza e verrà ingiustamente punita.
Come se nemmeno nella pazzia ci si potesse salvare.
Disturba il film, nonostante gli intenti di critica sociale siano presto chiari e lo sviluppo degli intrecci raccontati sia soffocato da una certa prolissità. Disturba riscontrare l'ennesimo vuoto di una classe sociale (la borghesia? Ma ha ancora senso usare questo termine?) cresciuta all'ombra di un successo esclusivamente materiale fondato su soldi, status-symbol, possesso, dove l'impossibilità di comunicare è un dato di fatto contro cui si è ormai smesso di combattere.
Ogni tanto però, nella perfetta e crudele geometria delle location, si aggira lo spettro di un giudizio morale. Come se un rapporto sadomasochista o il sesso tra persone anziane debba per forza essere sinonimo di squallore e vacuità, e questo rischia di inquinare la lucidità della critica sociale. Nell'insieme, comunque, la deriva umana di cui si è testimoni, punto di arrivo le cui motivazioni vengono lasciate allo spettatore, colpisce e scuote dal torpore di una rassicurante indifferenza mascherata da sorrisi.

Luca Baroncini


Ordinarie storie di straordinaria follia

Sudati, appesantiti e affannati dal caldo dell’estate austriaca, i corpi di Seidl si esprimono attraverso tre linguaggi ai quali l’uomo puntualmente ricorre ogni giorno della sua vita: la parola, il sesso e la violenza. Tuttavia, Seidl nega ai suoi personaggi la possibilità di comunicare attraverso di essi, e l’inevitabile frustrazione che ne deriva sfocia inesorabilmente in manifestazioni di aggressività, che ancora si canalizza e si esprime attraverso varie combinazioni di tali linguaggi. L’intera triade quindi è privata del suo messaggio, e ogni tentativo di avvicinamento ricade nella perpetrazione di maltrattamenti e umiliazioni. La parola, o la sua totale assenza, è usata per ferire tanto quanto la violenza, che si abbatte impietosamente sui corpi stanchi, grassi, vecchi e nudi dei personaggi. Le abrasioni, i tagli, le bruciature, non sono altro che le conseguenze del fallimento di ogni tentativo di ricerca di un contatto umano. L’eccessiva ma innocente verbosità di un personaggio verrà quindi punita con violenza e stupro, che non è che il risultato della somma di due elementi della triade. Viceversa, il personaggio afasico subirà lo spettacolo del tradimento, altra variante del binomio sesso+violenza. Nel film di Seidl, chi fa sesso subisce violenza, verbale e fisica: non c’è traccia di amore in esso. I suoi corpi sono oltraggiati, umiliati, violentati, picchiati e derisi; la stessa macchina da presa li fotografa crudamente, svelandone le imperfezioni, il decadimento, la fragilità. La vecchiaia come la gioventù non sono che fasi della vita delle cellule, non contengono ne saggezza ne bellezza, ne maturità ne ingenuità. Vediamo solo organismi con una loro durata, che si rincorrono animalescamente nella speranza di trovare comprensione e sostegno, o forse semplicemente una spiegazione. L’unico piacere che accomuna gli animali dello zoo Seidliano è l’esposizione al sole, che piove indisturbato sui corpi arrossati e madidi di sudore, esibiti impudicamente e ironicamente immortalati nella loro momentanea statica fragilità.
Oltre a questo, non c’è nulla, (come conclude l’anziano ingegnere quando raccoglie il cadavere avvelenato del suo povero cane che giace esanime nell’amato giardino), perché “la gente è cattiva”.

Alberto Zambenedetti

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