Recensioni
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Gin e fiele
È
di moda, in questi sciaguratissimi tempi, salutare l’uscita di un film
di patria (co)produzione con fanfare di osanna sulla “rinascita del
cinema italiano”. Questa volta, con sommo piacere e una punta di
esasperazione, possiamo invece affermare che no, il cinema italiano non è
rinato, almeno per ora: in compenso, abbiamo assistito ad un lavoro
imperfetto, ma per certi aspetti molto valido, scritto, interpretato e
diretto da artisti italiani. C’è una differenza rispetto al dire che ci
troviamo di fronte ad un’opera che dà la misura della qualità del
cinema nostrano di oggi: infatti, tra le molte cose che questo film è,
di certo non è l’ennesima rimasticatura del prototipo
caratteristico (e vincolante) del cinema italiano degli ultimi anni, vale
a dire la “commedia corale all’italiana”.
Intendiamoci: il film di Kiko Stella può e probabilmente vuole essere
letto anche come una commedia, ma non si tratta della farsa dialettale che
da anni certi “professionisti” del cinema vanno spacciando per satira
che castiga ridendo i costumi. Le vicende dei personaggi ci fanno
sorridere, ma solo perché noi spettatori siamo al di fuori delle
suddette: gli abituali canovacci della commedia italica (dalle coppie in
crisi agli intellettuali ruffiani) rivelano un’amarezza e un senso di
angoscia che non avremmo mai sospettato potessero emergere con tanta
livida semplicità. La satira, se la vogliamo definire così, affonda il
coltello e non lo ritira prima di avere mostrato al mondo quello che si
cela nelle viscere delle convenzioni (geniale, a questo proposito,
l’immagine della locandina, che vede un’oliva da Martini conficcata in
un cervello “nudo e crudo”): ne esce un ritratto terribile, ma non
deformante, di quello che siamo e fingiamo di non essere, tra vizi,
pigrizie e qualche sentimento superstite (per poco ancora).
L’elemento corale è presente, nel numero e nella varietà delle storie
narrate (tratte dai racconti di Marina Mizzau, che si presta ad un gustoso
cammeo vocale), ma non c’è, per fortuna, nessuna volontà di creare un
“affresco” (altra recente iattura del cinema, non solo italiano): le
vicende messe in scena non sono e non vogliono essere esemplari,
paradigmatiche o – peggio ancora – moralmente certificate. Più che di
un affresco, si tratta di un puzzle, apparentemente casuale ma
estremamente calibrato (basti notare la composizione simmetrica
dell’incipit e del finale): i casi dei personaggi non si discostano mai
dalla sfera della quotidianità, anche se spesso, all’ultimo momento,
mutano repentini, come avvolti da una vampata improvvisa e (perché no)
liberatoria.
Così come esistono infiniti modi di preparare un Martini, ci sono molti
modi di vivere: ogni personaggio lotta per imporre agli altri la propria
visione della vita, ma quasi nessuno riesce, e comunque la paga cara. Non
esistono soluzioni, solo tentativi per prova ed errore: anche il film di
Stella procede così, tra flash-back e sogni ad occhi aperti, e non di
rado centra il bersaglio (riservano le frecce più acuminate al vacuo
mondo degli intellettuali non solo milanesi).
Queste piccole storie di uomini e donne senza importanza risultano, nella
loro secca limpidezza, estremamente avvincenti, anche per merito di un
cast al di sopra di ogni elogio, all’interno del quale spiccano la
castrante Adriana Asti, la sottilmente velenosa Monica Scattini, la
fragile Fabrizia Sacchi e l’edipico Ennio Fantastichini. Italo
Petriccione, vero stregone delle luci, scolpisce una Milano tra il grigio
e il nero, mettendo in risalto i pochi elementi di colore con precisi
intenti espressivi (vedi la scena nella toilette) e regalando almeno una
scena da antologia, la livida alba che chiude il film: grazie a lui, oltre
che al talento nevrotico di attori e regista ed ai dialoghi spigolosi
quanto all’apparenza innocui, la sala del ristorante evita ogni
luccichio da palcoscenico per trasformarsi in autentico tribunale dei
sentimenti e delle convenzioni (con annessa camera delle torture), dal
quale non esistono vie di fuga soddisfacenti. Ma esistono, in assoluto,
vie del genere?
Insomma,
anche se non del tutto esente dai rischi del bozzettismo e non privo di
qualche momento di “stanca”, “Come si fa un Martini” è uno di
quei film visti i quali vorremmo riconciliarci col “nostro” cinema: ma
basta un’occhiata al resto del panorama italiano, così goloso di soap e
ritratti generazionali (magari on the road), a bruciare le illusioni.
Stefano
Selleri
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