Recensioni
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L'erba della coppia è sempre più verde
Chi si aspetta un ritratto femminile lontano dalle convenzioni restera' deluso. "Il diario di Bridget Jones", infatti, racconta le frustrazioni e le difficolta' quotidiane di una trentaduenne innamorata piu' del matrimonio che dell'amore, a cui Renee Zellweger presta tutto il campionario di smorfiette e pseudo-imbarazzi che fin da "Jerry Maguire" hanno fatto la sua fortuna. La cosa piu' curiosa della sceneggiatura e' l'assenza di una crescita del personaggio. Bridget Jones, infatti, comincia e finisce il film senza cambiare psicologicamente di una virgola, mentre i personaggi che le ruotano intorno mutano, senza alcun motivo, atteggiamento nei suoi confronti. Ecco quindi la grassoccia che non batte chiodo trasformarsi, inspiegabilmente, in reginetta con fior di pretendenti. Di maniera anche la caratterizzazione delle figure di contorno: la madre estrosa, il padre assente, le amiche prodighe di consigli, il gay che non puo' mancare, fino ai due grandi rivali in amore. Il "cattivo" Hugh Grant, che ha la faccia giusta e il perfetto battito di ciglia che fa tanto "aplomb" inglese, e il "buono" Colin Firth, che pare il mago Silvan per la capacita' di apparire ogni volta nel posto giusto (ma apparentemente sbagliato) al momento giusto (ma apparentemente sbagliato). E dire che l'inizio e' spumeggiante, con il rituale festone di Natale a casa dei genitori, i conflitti di una vita da single che richiede continue giustificazioni sociali; poi, pero', si scopre presto che il miraggio di felicita' della protagonista consiste in una totale uniformazione alle convenzioni. Niente di male, se questo derivasse da una scelta, mentre invece viene spacciata per la sola opportunita' possibile. La non-maturazione del personaggio, infatti, avviene in modo acritico e il processo di accettazione di se' passa unicamente attraverso cose spicciole e apparenti, come i chili di troppo e la tolleranza verso fumo e alcol. Mai un riferimento alle proprie aspirazioni, alle difficolta' caratteriali, alla natura intima delle cose.
"Essere accettati per quello che si e'" diventa, quindi, un "essere accettati per quello che si sembra".
Si arriva percio' ai quattro o cinque falsi finali, piu' scocciati da tante banalita' vendute per conquiste personali, che divertiti dal taglio da commedia sdrammatizzante. Ogni tanto fa capolino l'ironia, come nella cena delle super-coppie, e qualche battuta colpisce nel segno, ma il ritratto di donna e' di desolante
superficialita'.
Luca Baroncini
Single, che disgrazia
Niente di veramente nuovo sul fronte
della commedia romantica. Poche regole fondamentali: si deve ridere un
po’, si deve credere che la soluzione dei problemi sentimentali sia il
centro dell’esistenza, si deve soffrire, senza esagerare, prima di
approdare al lieto fine. Meglio se i protagonisti sono piuttosto
imbranati, ma anche piacenti; meglio se nel cast figura Hugh Grant. E,
naturalmente, mai essere troppo profondi o troppo controcorrente (il
massimo della trasgressione rimane l’amico gay d’ordinanza). I
personaggi destinati ad animare questo genere di pellicole sono i
trentenni, eletti simboli di una crisi non troppo grave dell’esistenza,
spinti di forza ad un bivio, angosciati per copione dalla paura di perdere
un treno che non smette di lasciare incertezze. Single, insomma, con tutta
la fatica di esserlo. Ma, almeno in Bridget Jones, quel che conta di più
per un single è smettere al più presto di appartenere alla categoria.
Anche perché si tratta di una categoria costantemente tartassata dalla
massa dei coniugati e destinata alla malinconia (sono indovinate le scene
sul dramma delle festività in famiglia e sulle domande assillanti del
genere “quando ti sposi, il tempo passa!”).
Si potrebbe dire che il film vuole farci credere che le donne, nel
Duemila, hanno ancora come suprema aspirazione
l’anello al dito (anche se il principe azzurro deve essere,
possibilmente, non solo romantico ma anche un “genio del sesso”), ma,
pensandoci, chi ci dice che le Bridget non esistano? Anzi! Si potrebbe
parimenti manifestare insofferenza per l’abusata rappresentazione degli
uomini come “impotenti sentimentali”, nonché disorientati smidollati
(talvolta). Eppure, per chi, come chi scrive, trova spontaneo valutare un
film tenendo conto del genere a cui appartiene e di quel che si propone,
Il diario di Bridget Jones è nel complesso un’opera/operazione
riuscita. Pur non essendo divertente quanto Quattro matrimoni e un
funerale, il film inglese è senza dubbio brioso e godibile, ed evita le
melensaggini alla Notting Hill (eccezion fatta per il finale, sfilacciato
e meno riuscito). Forse il merito sta nell’aver portato sullo schermo un
personaggio di antieroina, con gesta risibili in cui immedesimarsi senza
pensieri. Si parte da suggestioni austeniane: direttamente da Orgoglio e
pregiudizio lo scostante Darcy, migliore di quel che sembra; una madre
imbarazzante; ed un equivoco di fondo che ritarda la risoluzione del
broglio sentimentale. L’atmosfera è però poco vicina a quella del
celebre romanzo, che rimane niente più che una citazione. Si continua con
una raffica di gag tragicomiche, spesso riuscite. Peccato solo che rimanga
un po’ in ombra l’elemento portante del Diario letterario (il romanzo
della Fielding da cui il film è tratto): l’ossessiva attenzione per il
numero di sigarette fumate, di alcolici bevuti, e soprattutto per i chili
segnati dalla bilancia. Leggermente sacrificato resta anche il contorno di
amici/macchiette, e di vicende famigliari (quella mamma scapestrata tanto
più efficace sulle pagine del libro).
Tutto divertente e superficiale, tutto canzoni e risate, come voleva
essere. Ma la freschezza di fondo è autentica e distingue questo film da
altri dello stesso genere, più inerti e noiosi. Degna di apprezzamento è
la protagonista, una Zellweger comune e goffa, simpatica ed imperfetta.
Un’attrice fino a ieri incapace di farsi ricordare ed ora del tutto in
parte, costretta a cambiare accento e ad ingrassare di dieci chili, e
credibile benché fosse in origine una snella texana (è stata giustamente
preferita alla brava ma troppo raffinata Kate Winslet). Meno travolgente
è il marmoreo (il riferimento è alla sua unica espressione facciale)
Colin Firth; gradevole Hugh Grant, in gran spolvero per il ruolo da
conquistatore inaffidabile.
Oboo
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